Il welfare state è uno dei fiori all’occhiello delle società europee. Nel ventesimo secolo gli stati sociali dell’Europa occidentale sono così riusciti, in misure diverse, a conciliare gli sconvolgimenti sociali portati dall’industrializzazione e dall’economia di mercato con misure e garanzie di inclusione sociale per rispondere ai bisogni tipici dei lavoratori dell’era industriale. Oggi, però, le trasformazioni economiche, demografiche, sociali ed ecologiche del ventunesimo secolo fanno vacillare il contratto sociale su cui era fondato il welfare europeo del ’900. Nel libro “Social Reformism 2.0” (Edward Elgar, 2024, disponibile gratuitamente online) Maurizio Ferrera, Joan Miró e Stefano Ronchi riflettono sulle nuove sfide per il Welfare State, su alcune soluzioni già testate per rinnovarlo e sulle prospettive di riforma nell’ottica di un’Unione sociale europea.

Il ‘quinto stato’ nella società della conoscenza

L’elemento da cui parte la riflessione dei tre autori spicca già nell’immagine rappresentata sulla stessa copertina del libro: una rivisitazione del ‘Quarto stato’ di Pellizza da Volpedo in chiave “società della conoscenza“. L’immagine raffigura un gruppo eterogeneo di persone che simboleggia il nuovo proletariato, ben diverso da quello che appariva un secolo fa nel dipinto originale. Non più una massa compatta di contadini della pianura padana, il proletariato agricolo in marcia verso l’osservatore; il nuovo proletariato” è invece il mix dei lavoratori precari. Un mix frammentato che spazia dal precariato intellettuale ai rider – una grande massa di individui, giovani ma non solo, che compongono quello che forma oggi il “quinto stato”.

Questo quinto stato – “il Precariato”, appunto, come definito da Guy Standing – è il frutto della nuova “Grande trasformazione” che ha interessato la società europea nel corso degli ultimi decenni: la transizione da società industriale, a economia dei servizi, a “società della conoscenza“. In questo contesto, il vecchio proletariato industriale è divenuto parte anch’esso della classe media, seppure nel suo strato inferiore: questo grazie alle garanzie del welfare state, che eppure oggi lascia al di fuori delle proprie garanzie il nuovo precariato, rendendolo ‘outsider’.

Il "Quinto Stato"

La società di oggi, la società della nuova grande trasformazione, è forse meglio rappresentata dall’immagine di un un diamante rovesciato. Nel mezzo la ampia massa media dei “garantiti”, poi un vertice superiore sempre più sottile, fino a diventare finissimo, comprendente i super-ricchi: quelle poche migliaia di persone che si collocano a una distanza siderale rispetto al resto della società; e poi un vertice in basso, con il diamante che si assottiglia nuovamente anche se in misura minore: qui troviamo il quinto stato, con lavoratori precari, giovani a basse qualifiche, con nessuna risorsa al di fuori delle proprie e di quelle della propria famiglia.

Tuttavia, non dovunque è così: talvolta anche questi giovani precari possono contare sulla copertura del welfare. Nei Paesi del nord Europa, ad esempio, i sistemi universalistici proteggono le persone indipendentemente dalla loro posizione lavorativa. È qui che una distinzione fondamentale prende forma.

Nei Paesi nordici, grazie all’inclusività del welfare, il “precariato” esiste in soli termini di contratti lavorativi, e resta dunque confinato alla sfera dell’occupazione senza che si creino situazioni di estremo bisogno: reddito minimo, assegni familiari, sussidi per l’affitto, borse di studio…; tutte componenti del welfare che svolgono una fondamentale funzione di inclusione. Nei Paesi del sud ed est Europa, invece, il welfare non svolge la sua funzione di supporto alle fasi di vita del nuovo ceto: in assenza di risorse provenienti dalla famiglia di origine, la precarietà si espande dal solo contratto lavorativo all’intera vita, facendo cadere in uno stato di vulnerabilità che rende il ‘precariato’ una condizione esistenziale, sociologica.

Complesso è anche il discorso legato all’ascensore sociale in questa società a diamante. Questo dipende molto dal sistema educativo e dai sistemi di reclutamento nel mercato del lavoro, che oggi sono divenuti sempre meno capaci di servire la funzione di ascensore dal basso verso l’alto. Si sono create nuove disuguaglianze: ad esempio tra chi può permettersi di sostenere per mesi uno stage non retribuito, avanzando dunque nella preparazione acquisendo credenziali aggiuntive, e chi invece non può. Una nuova promozione della mobilità sociale si sostanzierebbe nell’universalizzare l’accesso a queste forme di credenziali aggiuntive, divenute necessarie per entrare nel mercato del lavoro.

Emerge qui un nuovo ruolo fondamentale per politiche educative e di welfare che redistribuiscano opportunità prima ancora che ricchezza, in modo da livellare gli svantaggi di chi rischia altrimenti di restare tagliato fuori dall’economia ‘posizionale’ della conoscenza.

La nuova grande trasformazione e il riformismo 2.0

Così come l’immagine scelta per la copertina, anche il titolo del libro è importante: Social Reformism 2.0. Per spiegarlo occorre fare un passo indietro. Secondo Karl Polanyi, che ha descritto la “Grande Trasformazione” tra fine dell’800 e inizio del ‘900, ogni grande trasformazione socio-economica ha due momenti cruciali. Il primo è di “distruzione creatrice“, parafrasando Schumpeter: la destrutturazione di assi ed equilibri preesistenti nella società, ad esempio tra i vari comparti occupazionali. Il secondo momento è invece caratterizzato dalla risposta da parte della società ai nuovi rischi e bisogni introdotti dalla distruzione creatrice.

Nuove Alleanze per un welfare che cambia: ecco il Quarto Rapporto sul secondo welfare

Alla prima grande trasformazione fece seguito, dopo sperimentazioni locali, l’implementazione di schemi nazionali di welfare che hanno poi dato origine al welfare state del ’900: questa la prima risposta, il primo social reformism. La seconda grande trasformazione è invece questione degli ultimi decenni, e qui lo scenario è più complesso. Il secondo momento di risposta, di riformismo 2.0, deve infatti affrontare un ostacolo prima assente: la presenza di schemi preesistenti, pensati per la società industriale e i suoi bisogni.

Per necessità, il riformismo 2.0 deve sforzarsi di cambiare, ricalibrare, modificare gli assetti di welfare esistenti, per dirottare parte della spesa e della protezione verso le nuove categorie e i nuovi bisogni. Vari Paesi stanno già percorrendo questo sentiero di ricalibratura del welfare, seppure con tempi, ambizioni e intensità diverse. I nordici sono stati i primi a percorrere questi passi, a introdurre misure in linea con i nuovi rischi e bisogni, come la conciliazione vita-lavoro, la protezione della non autosufficienza, la prima formazione e la formazione continua lungo l’arco della vita, l’istruzione in infanzia, e così via. In altri Paesi, fra cui l’Italia, invece questo secondo percorso è ancora agli inizi, e molta strada va recuperata.

Ricalibrare l’offerta di welfare per venire incontro ai bisogni sociali del ventunesimo secolo significa anche dare una risposta alle derive politiche ‘regressive’ che forme estreme di insicurezza e marginalizzazione possono comportare. Nel suo libro del 2011, Guy Standing sosteneva che il Precariato rappresentasse la nuova ‘classe pericolosa’, pronta a diventare una vera classe in sé e per sé e pronta a mobilitarsi contro la globalizzazione, il neoliberismo e la finanziarizzazione del capitalismo mondiale. Negli anni 2000 si assistette in effetti a un certo fermento: i sintomi di un possibile risveglio sociale e politico del Precariato potevano essere osservati in fenomeni come Occupy Wall Street negli Stati Uniti, gli Indignados in Spagna, la svolta elettorale di Syriza in Grecia e l’agitazione socio-politica che si diffuse nel mondo occidentale e oltre dopo il la crisi finanziaria globale. Tuttavia, a seguito di queste mobilitazioni progressiste ed ‘emancipatorie’, negli anni successivi questo risveglio ha prodotto altrettante forme di mobilitazioni ‘regressive’ – nei termini di Standing – di tipo xenofobo o addirittura neo-fascista.

Nel libro si parla di un dilemma tra capitalismo e democrazia: insieme libertà e prosperità, ma anche la possibilità di andare in tensione e indebolirsi a vicenda. Il capitalismo è basato sull’individuo e sul mercato, sulla libera competizione ispirata alla logica del profitto. Se lasciato a se stesso il capitalismo produce ricchezza, ma produce anche una struttura sociale stratificata, disuguaglianza, esclusione sociale. In Europa, la liberal-democrazia basata sul welfare dispone non solo la partecipazione alla scelta dei rappresentanti, ma anche la presenza di garanzie in ambito civile e sociale – quei tipi di garanzie che contrastano programmaticamente gli effetti inegualitari del mercato capitalista a fronte delle nuove sfide globali.

Una spinta sociale europea

Le nuove priorità: digitalizzazione e cambiamento climatico

Nella società del quinto stato e della seconda grande trasformazione, due problematiche ulteriori emergono chiaramente: cambiamenti climatici e nuove tecnologie (ne abbiamo parlato in modo approfondito all’interno del Sesto Rapporto sul secondo welfare, ndr). Anche su questo si concentra il libro. È chiaro che sia tecnologia che cambiamento climatico pongono sfide enormi, di natura esogena, ai nostri modelli sociali.

La tecnologia, per quanto riguarda il mercato del lavoro, tende a far sparire una serie di mansioni di tipo ripetitivo, anche se è vero che secondo gli esperti l’introduzione di nuove tecnologie potrà creare nuovi posti nella gestione e programmazione delle macchine. Una questione, tuttavia, resta: cosa ne facciamo dei lavoratori ormai prossimi al pensionamento che non hanno le competenze per spostarsi dai vecchi ai nuovi posti di lavoro? Nuovo problema che necessita la mobilitazione del welfare e soprattutto di efficaci politiche attive del lavoro.

Crisi climatica: italiani consapevoli, ma preoccupati dai costi sociali della transizione

Riguardo al cambiamento climatico la sfida è più ampia: se non facciamo niente rischiamo di danneggiare l’intero pianeta in modo irreversibile, e non è quindi solo questione di disoccupazione ma di sopravvivenza della specie. Dall’altra parte abbiamo però anche qui problemi di ricalibratura e ricollocazione tra settori produttivi: le emissioni nocive arrivano da agricoltura, trasporti, e da molti tipi di industria ancora fortemente dipendenti da combustibili fossili. La riduzione di emissioni implica la ricollocazione degli occupati da settori altamenti inquinanti a settori decarbonizzati, e ciò richiede necessariamente investimenti.

L’Ue è percepita purtroppo come fonte di problemi, anche se sono stati in realtà proprio i Paesi membri ad accordarsi su una tabella di marcia per la riduzione di emissioni che è molto ambiziosa e che sta dunque manifestando alcuni ‘effetti collaterali’, come testimonia la protesta degli agricoltori di questi ultimi mesi. L’Ue, tuttavia, si è già dotata attraverso il Green Deal di schemi volti ad ammortizzare i costi della transizione: ne sono esempio il Just Transition Fund e il Social Climate Fund. Questi ultimi sono schemi di assicurazione collettiva, a cui gli Stati membri possono attingere per finanziare misure di compensazione, sussidi e assistenza per le categorie maggiormente colpite dai costi della transizione. L’Europa è dunque una fonte di soluzioni, non di problemi.

Verso un’Unione Sociale Europea

Il libro contiene anche una proposta concreta: affiancare un’unione sociale all’Unione Europea.

Non si tratta di un utopico “Welfare State europeo” centralizzato e federale, bensì di una cornice normativa che faciliti l’aggiustamento dei sistemi nazionali di welfare ai nuovi rischi e bisogni, e fornisca una garanzia, un’assistenza in casi emergenziali, così com’è stato nel caso del COVID.

Un sistema che assicuri i welfare state nazionali e favorisca attraverso una serie di processi di coordinamento la ricalibratura dei welfare state europei ai nuovi cambiamenti, facilitando dunque una risposta efficace alla seconda grande trasformazione.

I contenuti di “Social Reformism 2.0. Work, Welfare and Progressive Politics in the 21st Century” sono stati approfonditi anche in una puntata di “Le altre scienze. Domande e risposte su politica e società“, il podcast di NaspRead.

 

 

 

Foto di copertina: javipolinario via Pixabay.