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Martina è una studentessa di diciannove anni, ha da poco intrapreso gli studi universitari in Infermieristica, e durante una delle prime lezioni di sociologia della salute dedicata al tema delle diseguaglianze osserva che, come è noto, le donne vivono più a lungo degli uomini. Come è possibile, mi chiede, affermare che esista un gap di genere penalizzante per le donne?

La domanda è legittima e solleva a sua volta altri quesiti interessanti: innanzitutto, è vero che l’aspettativa di vita tra uomini e donne è così diversa? A quali condizioni ciò si verifica? Vivere più a lungo corrisponde necessariamente a uno stato di salute migliore? E che cosa intendiamo quando parliamo di uomini e di donne? Le questioni in ballo costringono a fare i conti con la complessità che caratterizza l’intersezione tra fattori biologici e fattori sociali, culturali ed economici. La salute si produce nell’intreccio tra queste dimensioni e, per quanto essa rappresenti un diritto umano costituzionalmente sancito e riconosciuto come fondamentale a livello internazionale, spesso si traduce in un privilegio che discrimina le fasce della popolazione più marginalizzate.

Alla necessità di un dibattito anche italiano su questi temi ha risposto Alessandra Vescio, autrice del saggio “La salute è un diritto di genere”. Il volume è dedicato alle disparità incontrate da donne, persone AFAB (Assigned Female At Birth) e appartenenti alla comunità LGBTQIA+ nel momento in cui si ammalano, entrano a contatto con il mondo medico-sanitario, intraprendono (o cercano di intraprendere) un percorso di cura.

I molti volti del gender gap in sanità

Giornalista freelance ed esperta di questioni di genere, Alessandra Vescio offre un quadro ricco e ben documentato delle macro-aree in cui le disparità di genere si manifestano, minando la salute fisica e mentale di donne e persone AFAB, ma anche di persone intersex, transgender e non binarie.

La sistematica svalutazione del dolore delle donne – sminuito, normalizzato, messo a tacere – affonda le proprie radici in un sostrato biologico (non sufficientemente conosciuto a causa dell’androcentrismo che permea anche l’ambito medico) e culturale (che vuole le donne vulnerabili e lamentose, gli uomini stoici e restii a chiedere aiuto). L’esperienza del dolore, condannata dall’assenza di “prove oggettive” che possano dimostrarne la sussistenza, è sottovalutata al punto che l’essere accusata di fingere o di esagerare è “una storia che praticamente ogni donna o persona socializzata come tale che manifesta dolore rischia di provare sulla sua pelle almeno una volta nella vita”.

Il ritardo diagnostico che si registra su molte patologie invisibili (o meglio, invisibilizzate, come l’endometriosi, la vulvodinia e la fibromialgia) è storicamente legato a un preconcetto che descrive le donne come capaci (quando non addirittura destinate) a sopportare il dolore, ma anche “troppo emotive”, capricciose, manipolatrici e irrazionali. L’autrice rintraccia nella cosiddetta “isteria” l’origine di una lunga serie di discorsi e di pratiche atti a delegittimare le donne, diventati nel tempo veri e propri dispositivi di controllo per coloro le quali mostrassero comportamenti incomprensibili, ingestibili o più semplicemente difformi dalle aspettative sociali loro riservate.

Verso la parità di genere in Europa: le tappe degli ultimi 65 anni

Seppur l’isteria sia stata espunta dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nel 1980 (DSM-III)1, il mito della donna irrazionale è tuttora presente nelle narrazioni che la vorrebbero vittima delle fluttuazioni ormonali, dunque inaffidabile sul lavoro e nella vita pubblica e sociale. Nel 2013 lo stesso manuale (DSM-5) accoglie una nuova categoria diagnostica: il Disturbo disforico premestruale (PMDD) che, a parere di alcune studiose, rappresenterebbe un “prodotto culturale” che medicalizza reazioni emotive (rabbia, frustrazione) non conformi al ruolo di genere femminile tradizionale. Alla medicalizzazione si accompagna la farmacologizzazione, attraverso la messa in commercio di medicinali dedicati: è il caso della fluoxetina (principio attivo dell’antidepressivo Prozac, riconvertito dalla casa farmaceutica in Sarafem per trattare il PMDD) e della terapia ormonale sostitutiva per contrastare i sintomi più debilitanti della menopausa (dal dibattuto rapporto rischi/benefici). Come ben evidenziato dall’autrice, la commercializzazione di questi farmaci è spesso accompagnato da un interesse per il benessere delle donne (e dei loro mariti, cui le prime pubblicità erano rivolte) strumentale alla ricerca di un profitto.

Il saggio di Vescio è particolarmente efficace nel sottolineare come la medicalizzazione di alcuni fenomeni fisiologici, come le mestruazioni e la menopausa, possa condurre a conseguenze ambivalenti. Da un lato, la patologizzazione sottopone allo sguardo medico esperienze “sane” e aumenta il rischio di abuso di farmaci. Dall’altro, riconoscere una condizione come patologica può permettere di contrastare la normalizzazione del dolore e garantire a chi ne soffre un’attenzione troppo spesso negata. Le storie di sollievo e di riconoscimento consegnate all’autrice da persone in trattamento per la PMDD risuonano con quelle di chi – dopo anni di sintomi indecifrati, gaslighting medico e attribuzioni errate di disturbi psicosomatici – ha finalmente ottenuto una diagnosi, ovvero un nome per la propria sofferenza.

I molti volti della discriminazione

Le discriminazioni di genere non intervengono sulle vite delle persone come variabili indipendenti ma più spesso in combinazione con altri fattori sociali (età, status socio-economico) e forme di oppressione. La sovrapposizione fra più identità, trattato nel capitolo dedicato all’intersezionalità, può amplificare le diseguaglianze: una donna nera, per esempio, può subire discriminazioni aggiuntive rispetto a una donna bianca, così come una donna transgender rispetto a una cisgender, o ancora, una donna migrante, grassa, povera, anziana…

Differenza di genere, uguaglianza di prospettive

Nel panorama medico-sanitario, forme di razzismo sono senz’altro visibili nei confronti di pazienti: il cosiddetto “pregiudizio clinico”, ad esempio, associa ai corpi neri patologie specifiche (malattie veneree e infettive, per esempio), una maggiore resistenza al dolore e, nel caso delle donne, le ipersessualizza e mascolinizza. Anche il personale sanitario nero non è esente da aggressioni verbali e/o fisiche, rifiuto da parte di pazienti e pregiudizi che intersecano gerarchie professionali, misoginia e razzializzazione: è il caso della dottoressa Emelurumonye, dirigente sanitaria che racconta di essere stata a lungo e sistematicamente associata a figure professionali dal potere decisionale minore (infermiera, OSS, addetta alle pulizie) in quando donna nera di cui si inferivano un background migratorio, un titolo di studio e uno status socio-economico molto basso.

A strutturare gerarchie sociali dentro e fuori il contesto medico-sanitario sono anche l’identità di genere (a svantaggio delle persone transgender e non binarie), il peso corporeo (con una marcata stigmatizzazione delle persone, in particolare donne, grasse), i disturbi mentali e le neurodivergenze (tra cui l’autismo, che presenta criteri diagnostici tarati sulla popolazione maschile e, inoltre, non considera la dimensione culturale che spinge bambine e ragazze al masking dei propri tratti non conformi, ritardando ulteriormente la diagnosi). Il “vuoto di conoscenza” dei corpi e delle esperienze di queste e altre minoranze, nonché la traduzione di alcune caratteristiche in identità totali (tali per cui la persona è, davanti allo sguardo medico, solo “una persona grassa”, “una persona disabile” o “una persona in transizione”, cui tutti gli altri aspetti della salute sono condotti e ridotti), implicano conseguenze rischiose per la salute e talvolta per la vita, tali da rendere non più posticipabile un ripensamento dei nostri sistemi di cura.

Prendersi cura della comunità senza discriminazioni è possibile

La necessità di intervenire per ridurre ed eliminare le disparità illustrate può stimolare, secondo l’autrice, molte soluzioni.

Anzitutto, lo sviluppo della “medicina di genere” per considerare le differenze biologiche (in risposta alla protratta esclusione delle donne dalla medicina e dalla ricerca) ma anche quelle sociali e culturali (centrali nelle esperienze di malattia e nella possibilità di accesso alle cure). In secondo luogo, appare cruciale superare il binarismo attraverso prassi e linguaggi rispettosi della privacy e della libertà di definirsi. Particolare enfasi è posta, all’interno del volume, sui percorsi formativi dedicati a coloro che “fanno” (e faranno) il sistema sanitario, sempre più popolato da persone con identità e background eterogenei e, dunque, da punti di vista e sensibilità differenti. L’ambizione per un sistema sanitario libero da sessismo, razzismo, abilismo, omofobia e altre forme di discriminazione non può prescindere da un sistema pubblico, capace di tutelare chi vi lavora e di garantire accesso alle cure all’intera comunità.

È proprio l’attenzione alle persone, siano esse pazienti o professioniste della salute, a costituire un punto di forza di questo saggio, capace di avventurarsi con la dovuta delicatezza su un terreno accidentato: evitando, cioè, prese di posizione populiste e semplicistiche, polarizzazioni violente, sfiducia generalizzata nei confronti della scienza e della medicina, ma anche svalutazioni strumentali delle critiche mosse alla categoria medica. Mettere in discussione il sistema esistente è il primo passo per poterne immaginare uno nuovo.

Note

  1. Il DSM (acronimo dell’inglese Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) è un manuale tra i più diffusi e utilizzati a livello mondiale nella pratica clinica e nella ricerca sulla salute mentale. La classificazione che propone è basata sulla sintomatologia per come questa si presenta statisticamente, è nosografica e ateoretica. Redatto dall’American Psychiatric Association, la prima versione risale al 1952, mentre quella più recente (DSM-5) è del 2013.
Foto di copertina: Karl Magnuson, Unsplash.com