“È violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà che avvenga nella vita pubblica o privata”. Così recita l’art. 1 della Dichiarazione ONU sull’eliminazione della violenza contro le donne.

A 24 anni dalla sua istituzione, il 25 novembre commemoriamo la Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne (ne parliamo qui), un fenomeno che ancora ha bisogno di stare al centro del dibattito visto che siamo lontani dall’estirparlo.

La mancanza di azioni concrete sul tema da parte delle istituzioni spesso è legata all’insufficienza di dati. Quando, invece, vengono intrapresi, gli interventi mirano soprattutto a salvaguardare l’incolumità delle donne (ed eventuali minori) vittime di violenza domestica. Interventi, dunque, realizzati in ottica riparativa ma che poco, purtroppo, impattano sulla prevenzione.

E allora nei confronti di chi bisogna rivolgere le azioni di prevenzione, sensibilizzazione e supporto? Per rispondere a questa domanda, la Fondazione Libellula ha realizzato una survey che racconta come questo fenomeno sia già diffuso tra ragazzi e ragazze adolescenti. Di seguito ne analizziamo i principali risultati per andare a vedere quanto sono profonde le radici di una cultura che va cambiata.

Fare un passo indietro per riconoscere la cultura

Partire da cosa pensano giovani 15enni sulla violenza di genere significa guardare al fenomeno nella sua complessità.

Spesso, quando parliamo di violenza maschile sulle donne ci concentriamo sui fatti, sulla violenza visibile che, nei casi più estremi, prelude al femminicidio. Dietro alle forme visibili, però, tante forme invisibili di violenza, come spiega Maria Luisa Bonura nel suo saggio “Che genere di violenza. Conoscere e affrontare la violenza contro le donne.

Femminicidio, abusi sessuali, aggressioni fisiche, urla e minacce sono “solo” la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più complesso. Esiste, infatti, un sottostrato di comportamenti che rappresentano un campanello d’allarme, come il controllo, la manipolazione, o quelle forme di violenza non visibili come la violenza psicologica e economica.

Tutti questi comportamenti affondano le loro radici nella nostra cultura. Una cultura in cui facciamo esperienza quotidianamente di un linguaggio o umorismo sessista (volto, cioè, a denigrare una persona in base al suo genere di appartenenza), in cui vengono perpetrate discriminazioni basate sul genere anche a causa della costante (ri)produzione degli stereotipi di genere e dell’oggettivazione mediatica dei corpi.

In questo scenario si colloca il report di Fondazione Libellula “La violenza di genere in adolescenza“. Analizzare la percezione e il vissuto della violenza di genere nell’adolescenza, infatti, permette di riflettere e sottolineare la necessità di intraprendere azioni che agiscano su un piano preventivo.

L’adolescenza e la violenza di genere

La survey “TEEN Community“, diffusa attraverso i canali di Fondazione Libellula tra aprile e giugno 2023, ha raccolto 361 risposte di ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 e 19 anni, provenienti da tutta Italia.

Il report spiega che in adolescenza il gruppo dei pari ha due funzioni principali e potenzialmente opposte. Da un lato, infatti, funge da supporto e sostegno emotivo nella fase di sviluppo delle abilità sociali; dall’altro, rappresenta un luogo che permette di sviluppare il proprio senso di appartenenza tanto da incidere nell’affermazione di sé. Dato che le tensioni verso l’appartenere o meno al gruppo dei pari si risolvono grazie all’adozione del conformismo, anche l’adesione e la condivisione dei tradizionali stereotipi di genere (ovvero la loro decostruzione) possono essere influenzate e dettate dalla maggioranza.

Come spiega il documento, nelle relazioni tra ragazze e ragazzi adolescenti si possono verificare casi di “teen dating violence“, ossia comportamenti violenti che avvengono tra due persone che si stanno frequentando e che si basano su potere e controllo e sull’invasione degli spazi e dei tempi di vita personali, quando non sfociano in casi di violenza psicologica o emotiva, fisica e/o sessuale.

All’incirca una persona su tre (con percentuali che oscillano tra il 26% e il 39%) tra ragazzi e ragazze non riconosce gli atteggiamenti di controllo come una forma di violenza, incasellando invece tali comportamenti come sfaccettature inevitabili di una relazione amorosa. Tra questi comportamenti annoveriamo, ad esempio, dire al/la partner che vestiti indossare, chiedere di geolocalizzarsi o controllare di nascosto il suo telefono (anche attraverso profili altrui). Con l’aumentare dell’età, il genere femminile acquisisce più rapidamente consapevolezza rispetto a quello maschile del fatto che tali comportamenti rappresentano, in realtà, forme di violenza e non atti di amore.

Per quanto riguarda l’esperienza della violenza, il 58% delle persone raggiunte dalla survey ne ha fatto esperienza indiretta (ha saputo di un episodio di violenza nei confronti di qualcuno che conosce) mentre solo il 23% ha dichiarato di essere stata vittima di violenza. Il report rivela che si è trattato soprattutto di violenza verbale (62% sugli altri; 68% su di sé); psicologica (60%/43%); fisica (58%/51%); sessuale (27%/15%); digitale (32%/17%). Sia che la violenza sia stata esperita in modo diretto o indiretto, è cruciale notare che i dati sono in linea con quanto emerge anche nelle rilevazioni nazionali: la stragrande maggioranza dei/delle rispondenti, infatti, segnala che sono soprattutto partner o ex, amici o amiche, conoscenti, o familiari ad agire violenza.

Da notare, poi, come luoghi quali le strade e i mezzi pubblici vengano largamente considerati come non sicuri (rispettivamente 78% e 63%), mentre la percentuale scende per i locali di ritrovo (46%) e la scuola (31%).

Cosa fare: formare ripartendo dalle scuole

Dal report emerge chiaramente che gli stereotipi sono ancora presenti, percepiti e agiti dai giovani e dalle giovani adolescenti. Fattore, questo, che sicuramente concorre alla (ri)produzione della cultura entro la quale prende forma la violenza maschile contro le donne.

Visto che quasi 2 adolescenti su 3 ritengono la scuola un luogo abbastanza sicuro, appare fondamentale ripartire proprio dalla scuola per promuovere un dialogo in grado di trasformare la cultura dominante. Favorire la riflessione sull’educazione all’affettività, alla sessualità, e all’equità di genere, condividendo valori come la centralità del consenso e del rispetto, che sono alla base delle relazioni sane, è sicuramente un modo per iniziare a arginare il fenomeno. Se ne sta parlando anche nel contesto attuale del femminicidio di Giulia Cecchettin: l’educazione affettiva è sicuramente un elemento polarizzante nel dibattito, ma ancora mancante nella concretezza dei fatti.

La formazione, spesso proposta in ambienti lavorativi, può e deve essere fatta anche tra le mura di scuola. E non solo ai/alle giovani, ma anche al personale scolastico e docente, senza dimenticare le famiglie. Se ancora oggi la violenza maschile sulle donne è un fenomeno complesso e ancora molto diffuso e se mancano decisi interventi istituzionali per il contrasto, non dobbiamo farci scoraggiare. Sensibilizzazione e prevenzione devono rappresentare, oggi più di ieri, il primo passo per imparare a non aver paura di chiamare le cose con il loro nome. Come sottolinea Michela Murgia nel suo saggio “Stai Zitta!” (Einaudi, 2021), “sbagliare nome vuol dire sbagliare approccio morale e non capire più la differenza tra il bene che si vorrebbe e il male che si finisce a fare“.