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Nel 1968 il biologo Paul Ehrlich pubblicava The Population Bomb, un saggio destinato a segnare un’epoca. Prevedeva carestie, guerre e un pianeta incapace di sostenere una popolazione in crescita esponenziale. Oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, la prospettiva si è ribaltata: non temiamo più l’esplosione demografica, ma il suo opposto.

È un trend globale, all’interno del quale si inserisce il caso particolarmente difficile dell’Italia dove, raccontiamo da tempo con la serie #Denatalitalia il calo della popolazione promette di avere impatti sulla sostenibilità dell’attuale sistema sociale, a partire dal welfare.

A questa prospettiva mondiale ha dedicato una copertina l’Economist. In un numero dello scorso settembre 2025, il settimanale britannico spiega che la popolazione mondiale sta ancora crescendo, ma molto più lentamente.

In due terzi dei Paesi del pianeta il tasso di fecondità è già sceso sotto il livello di sostituzione – 2,1 figli per donna – e città come Bogotá hanno oggi meno nascite di Tokyo. Secondo le stime ONU, il picco della popolazione globale sarà raggiunto nel 2084 con 10,3 miliardi di persone. Ma se le tendenze attuali continueranno anche solo per un decennio, il picco potrebbe arrivare già nel 2065, per poi iniziare una lenta ma costante discesa.

Un cambiamento gestibile, non una catastrofe

Molti osservatori – economisti, politici, leader d’impresa – vedono in questa tendenza una minaccia per la crescita e la stabilità economica. Meno persone, dicono, significa meno lavoratori, meno innovazione, meno consumi e un peso crescente sui sistemi di welfare. Tuttavia, come sottolinea The Economist, il problema non è tanto la diminuzione della popolazione in sé, quanto la capacità delle società di adattarsi a un mondo diverso.

La riduzione della forza lavoro, per esempio, potrebbe essere compensata da nuove tecnologie. L’intelligenza artificiale – pur tra eccessi di entusiasmo e timori legittimi – si sta sviluppando molto rapidamente. Questo significa che l’automazione potrà sostituire parte del lavoro umano, liberando risorse per altre attività sociali e creative.

C’è poi il tema dell’invecchiamento attivo. Oggi un settantenne ha, in media, le stesse capacità cognitive che aveva un cinquantenne nel 2000. Persone più sane e longeve potranno restare attive nel lavoro e nella vita sociale più a lungo, rallentando la contrazione della forza produttiva e riducendo la pressione sui sistemi pensionistici.

Politiche pubbliche più mirate e inclusive

L’Economist smonta anche l’idea, sempre più diffusa, che si possa invertire la tendenza demografica a colpi di incentivi economici. I bonus bebè e gli assegni familiari possono anticipare alcune nascite, ma difficilmente aumentano il numero complessivo dei figli. L’esempio citato è quello dell’Ungheria – ne avevamo parlato anche noi qui – che destina circa il 6% del PIL a politiche pronataliste, senza però riuscire a superare il livello di sostituzione.

In realtà, spiega il settimanale britannico, gli Stati dovrebbero concentrarsi su misure che migliorano la qualità della vita delle famiglie, più che sul numero dei figli: servizi per l’infanzia accessibili, congedi parentali paritari, flessibilità del lavoro, sostegno ai caregiver e investimenti nell’istruzione. Politiche che in Italia – dove il tasso di fecondità ha toccato nel 2024 il minimo storico di 1,18 figli per donna – restano ancora troppo frammentate o poco coordinate.

Anche l’immigrazione, spesso al centro di scontri politici, può giocare un ruolo cruciale nel riequilibrare i flussi demografici. I Paesi che sapranno attrarre nuovi cittadini e integrarli efficacemente avranno maggiori possibilità di sostenere i propri sistemi sociali.

Il progressivo invecchiamento della popolazione comporterà certamente nuove sfide. Crescerà la domanda di assistenza, cura e servizi per gli anziani, ma questo non deve essere interpretato come un costo insostenibile. I bambini, ricorda l’Economist, richiedono a loro volta molti anni di sostegno economico e sociale; ciò che cambia è la tipologia dei bisogni.

I cittadini anziani, inoltre, in media, vanno a votare più delle giovani generazioni e quindi hanno una maggiore capacità di influenzare le scelte politiche. Ciò, continua il ragionamento del settimanale, potrebbe rendere più difficile aumentare l’età pensionabile in linea con l’aspettativa di vita, ma prima o poi i governi dovranno farlo.

Un’opportunità per ripensare il welfare

Secondo l’Economist, quindi, guardare al calo demografico come a un’occasione, e non come a una minaccia, significa ripensare radicalmente il concetto di benessere collettivo. Se in passato la crescita della popolazione era il motore del progresso economico, oggi la sfida è far sì che meno persone possano vivere meglio, in modo più sostenibile e inclusivo.

In questa prospettiva, il welfare può diventare il motore di una nuova fase di sviluppo. Investire nell’educazione, nella salute e nella parità di genere – elementi che aumentano la produttività e la coesione sociale – sarà più efficace che inseguire un’improbabile “ripresa delle nascite”.

Come ha titolato l’Economist, non serve farsi prendere dal panico. Il declino demografico è un processo complesso ma gestibile, che può aprire la strada a società più resilienti, innovative e attente alla qualità della vita. In fondo, un pianeta con meno persone ma più opportunità potrebbe essere non una sconfitta, ma un progresso.

 

 

Foto di copertina: Andrea Music, Unsplash.com