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Si è tenuto a Torino il 28 settembre scorso il seminario “Ci contiamo. Percorsi del welfare locale tra attivazione, restituzione sociale e cittadinanza attiva”, presentazione pubblica dei risultati del laboratorio di formazione e ricerca/azione “Ci contiamo”, un progetto del Consorzio IN.RE.TE. di Ivrea (Torino), realizzato da ActionAid e dall’associazione Art. 47, in collaborazione e con il finanziamento della Città Metropolitana di Torino.

Il laboratorio, che ha coinvolto 16 Enti Gestori delle funzioni socio-assistenziali del territorio della Città Metropolitana di Torino, ha promosso fra gli operatori sociali un approfondimento del significato teorico e operativo dei concetti di “attivazione”, “restituzione” e “welfare generativo”. Temi centrali nella costruzione di nuovi modelli di welfare e di particolare attualità poche settimane dopo l’avvio del SIA (Sostegno all’Inclusione Attiva) su scala nazionale.

Il percorso, iniziato a febbraio 2016 e organizzato grazie all’accompagnamento metodologico di Action Aid e Articolo 47, si è snodato attraverso sei incontri allargati, aperti a tutti gli operatori dei soggetti coinvolti, e due focus group (ancora in corso), che si sono avvalsi di varie metodologie, tra le quali una versione adattata del metodo SPRINT e il blueprint. Gli incontri sono stati un’occasione preziosa per gli operatori per riflettere in modo condiviso sia sulle pratiche di attivazione e restituzione già in atto (ma spesso non conosciute) sia per provare a immaginare nuovi approcci. Una riflessione sulle diverse pratiche caratterizzate da orientamento all’empowerment del cittadino (delle sue competenze e della sua rete) e replicabilità.
 

Attivazione, restituzione, condizionalità

Come illustrato da Maria Grazia Binda del Consorzio IN.RE.TE, gli interrogativi al centro del laboratorio hanno riguardato, in primo luogo, la definizione di “attivazione”, “restituzione” e “condizionalità” in una logica di generatività e costruzione di patti di cittadinanza attiva. La premessa è stata il riconoscimento della necessità di chiarire, in modo condiviso, il significato attribuito a queste parole.

Al centro dell’attivazione devono esserci la persona e la sua famiglia, in un processo che però solleciti responsabilità collettive e chiami in causa soggetti diversi: innanzitutto, la persona portatrice del bisogno, che deve essere sostenuta nel diventare più consapevole della propria condizione e delle risorse (sociali, relazionali…) di cui è portatrice, e che diventa capace di attivare o riattivare legami rilevanti all’interno della propria comunità; l’operatore sociale, cui è chiesto di rivedere la propria routine, così da diventare prima di tutto un “facilitatore”, capace di usare la propria creatività per immaginare nuovi modi di utilizzare le risorse a disposizione, rivitalizzare la relazione con la “rete” dei soggetti attivi nel campo dei servizi sociali, ma anche dar vita a legami con altri soggetti prima non coinvolti; l’organizzazione dei servizi, che, prendendo atto della scarsità di risorse economiche a disposizione, deve provare ad assumere un atteggiamento proattivo, ed essere disposta a rimettersi in discussione con le inevitabili difficoltà che ne conseguono; infine, decisori politici e operatori, che devono provare ad avvicinare le sfere della dimensione tecnica e della decisione politica, spesso troppo distanti e incapaci di comunicare in modo fruttuoso.

Il secondo tema affrontato è stato quello della “restituzione” (e della “condizionalità”), questione più complessa e controversa, che infatti ha suscitato un dibattito più acceso fra gli operatori rispetto a quello dell’attivazione. Per evitare il “fantasma” di un approccio stigmatizzante, gli operatori hanno convenuto sulla necessità di collocare il concetto di restituzione in una logica di processo. In questo senso, la restituzione viene intesa come il primo passo di un percorso di cambiamento della persona, che restituisce innanzitutto a se stessa “quello che vale”; questa restituzione ha quindi una ricaduta immediata sulla dimensione collettiva (la famiglia, la comunità) in cui la persona vive e che è in grado, a propria volta, di restituire alla persona senso di appartenenza e di utilità. Una visione della restituzione che, secondo i partecipanti al laboratorio, si struttura su un vero e proprio cambio di paradigma rispetto alla rappresentazione del portatore di bisogni. Adottando questo approccio, nel patto stretto con il beneficiario, la richiesta del rispetto della “regola”, pur rimanendo centrale, non incorre nel rischio di assumere il significato del “ricatto”, ma si delinea essenzialmente come valorizzazione della responsabilità.

Gli operatori si sono poi interrogati sui soggetti che compongono le reti oggi attive nel campo dei servizi sociali e su quelli che potrebbero essere coinvolti. Lo sforzo è consistito nel dar vita a un “elenco aperto e creativo”, capace di includere alcuni dei soggetti centrali del secondo welfare come imprese, banche, fondazioni e, più in generale, attori spesso ancora percepiti dagli addetti ai lavori come “esterni ai classici circuiti sociali”.


Fattori favorenti e ostacolanti il “welfare generativo”

Oltre a favorire momenti di riflessione e rimessa in discussione dell’approccio classico della presa in carico da parte degli operatori, gli incontri si sono posti un obiettivo più ambizioso, ovvero identificare una serie di fattori favorenti e fattori ostacolanti la messa in opera di pratiche di welfare generativo. Un contributo particolarmente prezioso per i soggetti pubblici (dalla Regione alla Città Metropolitana ai Comuni) che – come ha ricordato Elena Di Bella, dirigente della Città Metropolitana di Torino – sono chiamati a realizzare interventi complessi di presa in carico dei beneficiari, soprattutto dopo la sperimentazione della Nuova Carta Acquisti e il successivo avvio del SIA.

Quali sono dunque le condizioni favorenti e ostacolanti identificate dal laboratorio “Ci contiamo”? Carla Avalle, direttrice del Consorzio IN.RE.TE., dopo aver sottolineato la difficoltà di dar vita a forme di coordinamento o collaborazione fra soggetti diversi che erogano servizi, ha illustrato alcuni dei fattori identificati come ostacolanti il cambiamento delle organizzazioni e del loro approccio (cfr. Immagine 1):

• La “logica del costo” anziché dell’investimento: si è sempre pensato a come risparmiare o razionalizzare, senza interrogarsi sul valore degli investimenti in capitale umano;
• La sensazione di abbandono e solitudine dei servizi sociali;
• La “lenta moria” dei Piani di Zona;
• Il disallineamento fra piano politico-amministrativo e piano tecnico: mentre per il primo la responsabilità e la restituzione sono argomenti usati a giustificazione dell’intervento sociale (e dei suoi costi), per il secondo rappresentano un elemento fondamentale nella costruzione del rapporto con il beneficiario dei servizi;
• L’enfasi sui diritti individuali a discapito della dimensione “comunitaria”.

I fattori favorenti sono in parte speculari a quelli ostacolanti:

• L’adozione di una “logica dell’investimento”;
• L’adozione di un’ottica di comunità nella pratica degli operatori;
• La conoscenza e la condivisione di buone prassi e innovazioni già esistenti, così da trasformare l’assistenza economica in una presa in carico più complessa;
• L’individuazione di criteri uniformi e condivisi per la valutazione del bisogno;
• Il profilo dell’operatore, che deve essere “empatico, gioioso, curioso, capace di motivare”.

Figura 1 – Rappresentazione dei fattori identificati dal laboraotorio come favorenti e ostacolanti l’attivazione e la restituzione

 

I risultati del laboratorio, ha sottolineato Luca Fanelli di ActionAid, non devono essere interpretati come un punto di arrivo, ma come un vero e proprio metodo di lavoro, capace di favorire fra gli operatori momenti di riflessione, di scambio e di elaborazione delle diverse esperienze, ma anche di facilitare l’identificazione di elementi rilevanti da sottoporre ai decisori per il disegno delle politiche. In questo senso è in gestazione una seconda edizione di “Ci contiamo”, che vuole accompagnare gli Ambiti nell’implementazione del SIA.


Lotta alla povertà: le iniziative della Regione Piemonte

Riflessioni particolarmente attuali nel momento in cui, come detto, gli enti territoriali sono impegnati nell’implementazione del SIA. L’assessore alle Politiche Sociali della Regione Piemonte, Augusto Ferrari, ha valutato l’estensione del Sostegno all’Inclusione Attiva a tutto il territorio nazionale come un intervento caratterizzato “da forti carenze e forti insufficienze”. Insufficienze rispetto alle risorse, se si confrontano quelle messe in campo dal Governo con quelle stimate come necessarie dall’Alleanza contro la povertà. Insufficienze relative alla mancanza di un impianto universalistico vero. Insufficienza nella definizione operativa del rapporto far Enti Gestori e INPS nella raccolta delle domande. E tuttavia l’avvio di questo percorso non può non essere visto come un fatto storico – ha sottolineato Ferrari – in forte discontinuità rispetto ai fallimenti degli ultimi 30 anni (dalla proposta, nel 1986, della Commissione Gorrieri). Pur con tutte le carenze denunciate, il SIA rappresenta infatti un’occasione strategica, su cui la Regione Piemonte intende investire per realizzare una vera e propria ristrutturazione delle politiche di assistenza sociale.

Per la prima volta si introduce uno strumento per il contrasto della povertà; seppur non senza aspetti problematici, si disegna una “filiera di governo” di questo strumento e – aspetto cruciale – si prevede la combinazione di misure passive con una gamma di servizi territoriali, strutturati in relazione ai bisogni peculiari delle persone beneficiarie. In questo quadro, la Regione Piemonte ha fatto della lotta all’esclusione sociale uno degli “assi strategici” della propria programmazione, come dimostrato dal “Patto per il sociale” e dall’avvio, nell’estate scorsa, di un laboratorio regionale stabile in materia di politiche di contrasto delle povertà e articolato in 3 gruppi di lavoro (welfare di comunità, SIA, “profilazione” dei beneficari) incaricati di produrre proposte operative da trasformare in decisioni politiche.

A fronte di bisogni molto differenziati nei diversi territori e con l’obiettivo di armonizzare la programmazione regionale e il rafforzamento dei sistemi territoriali, la Regione intende rivedere l’organizzazione dei Distretti, non più intesi come mere articolazioni funzionali delle ASL, ma “Distretti della salute e della coesione sociale”. Ad ogni Distretto dovrebbe corrispondere un solo Ente Gestore e un Centro per l’Impiego, così da assicurare una piena integrazione fra salute, assistenza sociale, politiche attive del lavoro, con coinvolgimento dei diversi soggetti che sono sul territorio. Un approccio che intende “recuperare lo spirito del Piano di Zona, ma anche andare oltre”, nella direzione di una vera e propria co-progettazione e non di un mero coordinamento funzionale.

Il seminario, cui hanno preso parte diversi operatori che hanno dato voce ad alcuni dei beneficiari da loro seguiti raccontandone le storie di vita, si è chiuso con l’intervento della Senatrice Nerina Dirindin. La Senatrice ha innanzitutto lodato lo sforzo messo in atto dai vari soggetti che hanno partecipato al progetto “Ci contiamo” per superare una certa “autoreferenzialità, attitudine alla lamentazione e bassa autostima” che troppo spesso caratterizza gli addetti ai lavori, che in questo caso si sono invece dimostrati capaci di mettersi in discussione. Una capacità particolarmente utile in un periodo caratterizzato non solo da scarsità di risorse economiche, ma anche culturali, la cui carenza rischia di trasformare le politiche sociali in mero assistenzialismo. Ha quindi invitato a riflettere sull’utilità della valutazione nei progetti sociali, soprattutto in funzione di una loro possibile replicazione su scala più ampia, così da evitare che le pratiche rivelatesi positive rimangano esperienze “di nicchia”.