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Questo articolo è parte di “Allargare lo sguardo sulla conciliazione”, dispensa che raccoglie approfondimenti tematici per i partecipanti del modulo formativo “Rinnovare le RTC: reti e nuove logiche per innovare i servizi locali” realizzato da WorkLife Community.

In generale, quando si parla di interventi di conciliazione, ci si sofferma su temi come i servizi di assistenza all’infanzia o le misure di supporto agli anziani. 

Tuttavia, nel contesto aziendale le misure di welfare e gli strumenti come il congedo parentale o le misure di flessibilità che favoriscono un migliore equilibrio tra lavoro e vita personale spesso rientrano sotto il cappello delle iniziative di Diversity & Inclusion. Con questa espressione ci si riferisce ad un insieme di pratiche e politiche volte a promuovere la diversità e l’inclusione all’interno di un’organizzazione. Se, infatti, la diversità riguarda la presenza di individui con background, caratteristiche e prospettive diverse, l’inclusione riguarda invece la creazione di un ambiente che accoglie e valorizza tutte le persone, promuovendo la partecipazione attiva e l’equità. 

Le iniziative di Diversity & Inclusion mirano dunque a creare un ambiente di lavoro che promuova l’uguaglianza di opportunità, il rispetto reciproco e la valorizzazione delle differenze. Ma quali sono le principali motivazioni che spingono le organizzazioni ad attuare queste iniziative? In che modo vengono messe in pratica? Esploriamolo insieme.

Le iniziative di D&I in azienda: prospettive possibili e rischi da evitare

Ci sono due motivi principali che spingono oggi le organizzazioni a promuovere iniziative di Diversity & Inclusion (D&I). 

Il primo riguarda un fenomeno noto in ambito organizzativo come “isomorfismo”, che fa cioè riferimento alla tendenza ad imitare quello che fanno le organizzazioni che coesistono nello stesso ambiente di riferimento (settore, area geografica, etc.) al fine di ottenere legittimazione e riconoscimento dai vari stakeholder. 

Il secondo, invece, è di carattere più strategico e ha radici più profonde, e parte cioè da una riflessione su quale sia il significato che l’organizzazione internamente dà alla diversità e quali sono gli obiettivi che vuole raggiungere attraverso la sua gestione. I ricercatori che hanno esaminato la questione dell’inclusione all’interno delle organizzazioni sono giunti, infatti, ad una visione unanime secondo cui la diversità da sola non porta necessariamente a risultati favorevoli a meno che non venga messo in atto un approccio ben progettato alla gestione della stessa.

Se, da un lato, il concetto di diversità ruota principalmente attorno all’eterogeneità e alla composizione demografica di gruppi o organizzazioni, l’inclusione si riferisce invece all’integrazione della diversità nelle politiche e pratiche di gestione delle risorse umane che promuovono l’utilizzo ottimale delle risorse umane e migliorano il potenziale contributo dei lavoratori (Roberson, 2006).

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Le diverse forme di diversità includono caratteristiche osservabili come genere, età, origine etnica, abilità fisiche e mentali, orientamento sessuale, nonché caratteristiche non osservabili come personalità, atteggiamenti, credo, valori, livello di istruzione e competenze. Alcune categorie di persone, infatti, possono subire discriminazioni e svantaggi in termini di carriera e retribuzione per via delle loro caratteristiche osservabili e non osservabili a causa dei bias consci ed inconsci ad esse associate. Ad esempio, se pensate ad una persona a capo di una grande multinazionale nel settore dell’acciaio quale genere vi viene in mente?

Uno dei più noti stereotipi nella letteratura manageriale, infatti, è think manager, think male soprattutto (ma non solo) in alcuni settori cosiddetti male dominated. Istintivamente, tendiamo ad associare al genere maschile ruoli di responsabilità e leadership, e questo ha delle conseguenze molto pesanti se pensiamo ai processi di valutazione del potenziale di leadership delle candidate donne per le carriere apicali.  

Le iniziative di inclusione, invece, si riferiscono alle pratiche formalizzate sviluppate e implementate dalle organizzazioni per gestire la diversità in modo efficace e supportare i gruppi svantaggiati. Tra queste possono essere citata a titolo di esempio: 

  1. le iniziative rivolte al management al fine di supportare i capi nell’acquisizione di competenze di leadership inclusiva che include comportamenti come ad esempio offrire supporto, assicurare giustizia ed equità, condividere le decisioni e valorizzare i talenti di ciascuno; 
  2. le politiche di sviluppo come ad esempio programmi di diversity training volti a supportare la crescita dei gruppi sottorappresentati in azienda; 
  3. le politiche di reclutamento e selezione che mirano ad attuare processi di valutazione ed assessment  che non tengono conto del genere, dell’etnia o dell’età anche attraverso i più recenti sistemi basati sull’intelligenza artificiale; 
  4. strumenti che favoriscono la flessibilità e il work-life balance al fine di aumentare la capacità di bilanciare gli impegni di vita personale con quelli di vita professionale attraverso programmi di congedo parentale, interventi di supporto per i care giver, ricorso a modalità di lavoro agili o ibride.

Ciascuna di queste rappresenta una pratica che può essere implementata one shot o in combinato con altre aggiungendo così la targhetta di “inclusiva” all’azienda che la (le) adotti. Tuttavia, l’inclusione non dovrebbe essere un progetto aggiuntivo da costruire inserendo delle pratiche cosiddette di inclusione. Questo è un approccio più isomorfico e di compliance con quelle che sono le richieste da soddisfare da parte dell’ambiente esterno per essere considerati credibili ed affidabili. Il vero cambio di paradigma, invece, lo si ha a fronte di un cambiamento culturale in cui i valori della diversità e dell’inclusione diventano parte integrante dei processi e delle politiche gestionali e si traducono in comportamenti organizzativi quotidiani che favoriscono il rispetto e il supporto specifico.

Il rischio, infatti, è che in alcuni casi l’adozione di pratiche di D&I senza un reale cambiamento di mindset non faccia che peggiorare le malattie organizzative (Bombelli e Lazazzara, 2014). Senza considerare che spesso iniziative di comunicazione esterna su quanto l’organizzazione in questione sia attenta all’inclusione non corrisponde al vissuto e al percepito di chi in quell’organizzazione vive e lavora creando un disallineamento tra l’immagine organizzativa esterna e l’identità organizzativa interna. L’obiettivo della D&I dovrebbe essere quello di creare un ambiente di lavoro inclusivo che favorisca l’espressione del potenziale individuale e lo utilizzi come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Ma come?

Investire sulla conoscenza per promuovere il cambiamento

Non esiste un modello di progettazione dell’inclusione unico che si adatti a tutte le organizzazioni ma l’approccio da seguire dovrebbe essere il più possibile personalizzato e adattato alla realtà in questione (Buonocore e Lazazzara, 2020). Il punto di partenza è certamente la conoscenza approfondita delle caratteristiche e della composizione della forza lavoro attraverso metodologie come people analytics, survey e strumenti di raccolta dati qualitativi per analizzare la forza lavoro e raccogliere informazioni in profondità sulla percezione di inclusione o, al contrario, di esclusione. Questo è un passaggio fondamentale per individuare categorie sottorappresentate, bias nelle pratiche di gestione delle risorse umane e valutare la percezione di equità dei dipendenti e quindi identificare le aree di criticità e i fabbisogni che devono essere affrontati per promuovere l’inclusione nell’organizzazione. 

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A questo punto, è necessario definire gli obiettivi strategici di gestione della diversità che devono essere coerenti con gli obiettivi aziendali e quelli della strategia di gestione delle risorse umane. Ad esempio, una banca che voglia aumentare la propria quota di mercato in alcuni Paesi emergenti potrebbe porsi come obiettivo di gestione della diversità il favorire l’inclusione di persone provenienti dai Paesi target al fine di avere una migliore comprensione del mercato locale, delle preferenze dei consumatori e delle dinamiche culturali, facilitare la creazione di relazioni più forti e autentiche con i clienti nei paesi emergenti e, allo stesso tempo, dimostrare l’impegno dell’azienda nel rispettare la diversità e la cultura locale contribuendo a costruire una reputazione positiva per l’azienda e ad aumentare la fiducia dei consumatori nei confronti del brand. 

Una volta definiti gli obiettivi strategici, ricordiamoci che la formalizzazione di strategia, ruoli e unità organizzative è un passaggio fondamentale per legittimare l’investimento che l’organizzazione sta facendo e sancire la direzione in cui si sta muovendo. Inserire i ruoli dedicati alla diversità e all’inclusione in una unità a diretto riporto dell’amministratore delegato dà, ad esempio, un chiaro significato al valore del concetto di inclusione per una organizzazione in termini di business piuttosto che prevedere dei ruoli ad hoc da inserire all’interno della funzione del personale.

Nel primo caso, infatti, la gestione della D&I diventa una leva di business, nel secondo si tratta di una leva di gestione del personale. È solo dopo aver costruito l’infrastruttura all’interno della quale l’organizzazione si muoverà in termini di inclusione che si può iniziare a progettare le iniziative specifiche e il piano di azione dettagliato volto ad attuare le iniziative di gestione della diversità. Questo piano dovrebbe includere le specifiche attività tra quelle elencate sopra, le priorità e le tempistiche, le risorse necessarie e i responsabili dell’implementazione, nonché le indicazioni in termini di key performance indicator (KPI) per il monitoraggio e la valutazione delle iniziative.

Diversità e inclusione: un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo

Ebbene sì, la gestione della D&I è un lavoro complesso e, come tale, richiede tempo, risorse e, soprattutto, competenze adeguate. Il punto di partenza di qualsiasi progetto di D&I è però sempre porsi le seguenti domande: Che cosa rappresenta per la nostra organizzazione l’inclusione? Perché dobbiamo intraprendere un percorso di cambiamento culturale che porti la nostra organizzazione a diventare più inclusiva?

 

 

Bibliografia

Bombelli, M. C., & Lazazzara, A. (2014). Superare il Diversity Management. Come alcune terapie rischiano di peggiorare le malattie organizzative. Sociologia Del Lavoro, 134, 169–188.

Buonocore, F., & Lazazzara, A. (2020). L’organizzazione e la gestione della diversità. In F. Buonocore, F. Montanari, & L. Solari (Eds.), OrganizzAzione aziendale. Comportamenti e decisioni per il management. ISEDI.

Roberson, Q. M. (2006). Disentangling the meanings of diversity and inclusion in organizations. Group and Organization Management, 31(2), 212–236. 

Foto di copertina: Unsplash.com