Il dibattito circa il diritto alla salute e il sistema sanitario che ne deve essere il braccio operativo si protrae ormai da molto tempo. In questi ultimi due/tre anni, però, ha visto un’accelerazione dovuta alla situazione organizzativa del Sistema Sanitario Nazionale italiano, messo alla prova in modo durissimo dopo il Covid, e che sta ancora arrancando per dare risposte agli accresciuti bisogni dei cittadini.
Va notato, però, che questo dibattito si articola in due aspetti: uno principalmente ideologico, l’altro di taglio economicistico.
Il primo parte dall’assunto costituzionale scritto nel citatissimo art. 32 circa il riconoscimento del diritto fondamentale alla salute per ogni cittadino italiano e garantendo, di conseguenza, le cure per tutti con la sottolineatura che dovranno essere gratuite per gli indigenti. Una posizione degna di una Nazione civile, che ritiene questo diritto come uno di quelli fondamentali per la pace e la dignità sociale.
Il secondo aspetto si focalizza maggiormente sulla sostenibilità economica del sistema, sulla sua capacità di dare concretamente le risposte che i cittadini chiedono, sulla possibilità di mantenere in piedi un sistema sanitario che già oggi drena moltissime risorse dal Bilancio dello Stato.
Entrambi gli aspetti hanno motivazioni importanti e da approfondire ma, probabilmente, sarebbe necessario aggiungere a tutte queste riflessioni anche una concretezza che talvolta sembra sfuggire a chi fa le analisi.
Tutto pubblico o privatizzazione?
Intanto, va notato come, con l’applicazione dell’Art. V della Costituzione circa il decentramento amministrativo, con le conseguenti deleghe regionali in tema di sanità, è emersa all’attenzione di tutti l’enorme sperequazione che esiste, in Italia, tra la capacità di risposta sanitaria, nonché della qualità delle prestazioni che vengono erogate, tra il Nord, il Centro ed il Sud Italia
Questo fatto concreto crea una disparità tra i cittadini italiani molto più grave, perché insiste in un ambito delicato della vita delle persone le quali, proprio per questi motivi, hanno iniziato da tempo a mettere in essere quella pratica detta “turismo sanitario”, che fa sì che molte persone in situazione di bisogno grave, cerchino la qualità delle prestazioni in determinate Regioni e ospedali di eccellenza, anche fuori dalla loro Regione.
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Inoltre, la difficoltà a recepire personale qualificato e specializzato (medici, infermieri e OSS), ha ulteriormente messo in crisi l’intero sistema, creando falle anche là dove un tempo esistevano luoghi di alta qualità per la cura.
I sostenitori del “tutto pubblico”, cosa che ha una sua reale motivazione, chiedono a gran voce, dunque, che si mettano maggiori risorse sul Bilancio dello Stato destinate alla Sanità, sperando che così si possano risolvere i vari problemi esistenti; altri, al contrario, teorizzano che una privatizzazione di gran parte della sanità possa aiutare il sistema pubblico a trovare un suo equilibrio e mantenere la sostenibilità economica complessiva.
Tra queste due posizioni, a parer mio, ce n’è un’altra, quella in cui si trova anche la Fimiv, che ritiene praticabile una “terza via” la quale, senza scomodare vecchi paralleli politici, potremmo azzardare essere la sintesi dialettica tra le due precedenti.
La “terza via” e il bisogno di concretezza
Per spiegare le motivazioni di questa ulteriore proposta, ritengo sia necessario fare un bagno di concretezza. Partiamo quindi da alcuni dati che la realtà ci mette di fronte: oggi, con la contrattazione collettiva nazionale e di secondo livello, sono quasi 15 milioni i lavoratori che godono di una assistenza sanitaria integrativa. Sono interessati da questo provvedimento quasi esclusivamente quelli che sono impiegati nelle medie o grandi imprese, vi è perciò ancora una grande platea di lavoratori non coperti dalla previsione contrattuale in materia sanitaria.
Al numero di quelli che hanno una copertura contrattuale, vanno aggiunte le diverse migliaia di persone che, in modo autonomo, spesso anche senza fare analisi o calcoli approfonditi, ricorrono a una formula per avere una copertura sanitaria in proprio.
A tutto ciò va aggiunto un dato noto da diversi anni, e cioè che molti cittadini italiani spendono di tasca propria, per motivi sanitari, oltre 40 miliardi di euro all’anno. Il dato, costantemente in crescita da almeno cinque anni a questa parte, mostra anche, però, che solo una percentuale bassissima di questa spesa, meno del 10%, è intermediata da assicurazioni, Società di Mutuo Soccorso o Casse.
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Questo ci porta a dire che questa spesa esiste, a prescindere dall’attrazione del mercato privato organizzato e che dipende da altri fattori, in primis quelli legati al tempo necessario per poter usufruire di una prestazione adeguata.
Infatti, le liste di attesa di cui tanto si parla e che si stanno allungando sempre di più – con nessuna Regione italiana che ne risulta essere esente – spostano l’attenzione dell’utente verso l’offerta privata, che è in grado di accorciare anche drasticamente i tempi di attesa, ma è evidente che questa possibilità può essere utilizzata esclusivamente da chi può permetterselo economicamente venendo a creare ulteriori differenze tra i cittadini.
Ultima riflessione, anche questa molto dibattuta ed assai conosciuta, è l’innalzamento dell’aspettativa di vita degli italiani, cosa che socialmente ed egoisticamente non può che fare piacere a ognuno di noi, ma che porta con sé una conseguenza economica sia sul piano della previdenza sia su quello dell’assistenza sanitaria.
Mettiamo qualche punto fermo
Essendo il tema della salute un “argomento sensibile” e molto delicato, ritengo che si debbano mettere dei punti fermi nelle argomentazioni, per essere il più possibile chiaro: in primis, un Paese avanzato e civile può permettersi di privatizzare la propria sanità, mettendo i motori al minimo di quella pubblica e creando, così, una disparità di fatto, legata alle possibilità economiche, tra i propri cittadini? Io ritengo di no.
Ed è lecito pensare che la salute possa essere trattata alla stessa stregua di una merce, immaginando un mercato della salute che concorrerebbe, come in economia, a determinare il prezzo delle prestazioni sanitarie sulla base dell’equilibrio tra domanda e offerta? Credo che questa ipotesi ripugni a ogni onesta coscienza civile.
Infine, davvero si crede che il privato possa erogare le stesse prestazioni che eroga il sistema pubblico in tutti i campi della salute, compresi quelli molto delicati quali l’oncologia, le malattie genetiche rare, la non autosufficienza e la lungo degenza?
L’osservazione degli andamenti di quei Paesi dove ciò è in essere da tempo ci dice di no.
Ma allora, di fronte a criticità reali e a queste pericolose sirene economiciste, una terza opzione potrebbe essere quella che propone un progetto per il quale tutta quella enorme dotazione economica che nasce dai Fondi Sanitari contrattuali – nonché dalla organizzazione libera e volontaria di persone che traguardano non l’interesse immediato ma quello intergenerazionale – arriva a sostegno del sistema pubblico, integrandone le prestazioni attraverso un patto sociale che consenta la sostenibilità del sistema e la gratuità delle cure ai non abbienti, cercando di non aumentare le spese dello Stato, attraverso una riorganizzazione e razionalizzazione delle risorse attualmente impiegate.
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Bisogna tornare alla origine di questi ragionamenti per capirne la grande portata sociale.
Oltre 150 anni fa nacquero, per far fronte alla crisi sociale, economica e sanitaria, le Società di Mutuo Soccorso e poi le Cooperative. Il loro scopo era quello di avere una mutua assistenza per i propri soci, cercando di calmierare le storture del mercato, aiutando chi si trovava temporaneamente in situazione di bisogno, cercando di creare un patrimonio che potesse servire non solo all’interesse immediato dei propri soci, ma anche a coloro che lo sarebbero diventati nel futuro. Una dotazione intergenerazionale, dunque, che non metteva la logica del profitto in testa alla piramide valoriale, ma quello della solidarietà.
Grazie anche a quell’opera, nel corso degli anni la situazione si è evoluta, le disuguaglianze si sono attenuate e calmierate, rendendo meno necessario l’impegno in ambito sociale e sanitario, mentre rimaneva valido come azione economica ed imprenditoriale.
La situazione di oggi, per i motivi che ho esposto all’inizio, riporta di forte attualità i valori della solidarietà e del mutuo aiuto, ed anche la discussione parlamentare in corso sottolinea con forza la necessità che i Fondi sanitari siano realmente mutualistici.
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Tuttavia, questo non può essere utilizzato strumentalmente da chi queste caratteristiche non le ha e le vorrebbe trovare, utilizzando, in maniera curiosa, il concetto di “ripartizione del rischio”.
Non sta qui il mutualismo, ma nel fatto che non si fa utile da redistribuire quanto, piuttosto, si creano quei patrimoni che potranno essere utilizzati da tutti: da chi è nel Fondo adesso e da chi, nel Fondo, entrerà un domani. La cosiddetta logica intergenerazionale, che tanto ha voluto significare in positivo anche per le imprese cooperative.
Ecco perché, a mio avviso, si aprono importanti spazi di attività per le Società di Mutuo Soccorso. Uno spazio tutto da guadagnare e con fatica, perché la logica del business come elemento valoriale ha fatto breccia nelle coscienze di molti. Deve però essere chiaro: fare profitti non è assolutamente una cosa da condannare, ma la destinazione di questi, soprattutto in certi ambiti di attività, diventa l’elemento valoriale su cui valutare l’agire delle Società di Mutuo Soccorso.
Come settore sappiamo di non essere al centro del dibattito in questo momento, ma è indubbio che la Fimiv, supportata dalle molte Società di Mutuo Soccorso aderenti, sta lavorando proprio per diffondere questo messaggio e per acquisire un ruolo sociale e politico che riteniamo possa essere vantaggioso per la vita e la salute dei cittadini italiani.
| Questo articolo è uscito sul numero 1/2025 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio. |