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Il 25 novembre 2016 presso il Politecnico di Milano si terrà il primo convegno italiano sul disability management, intitolato “Disability management. Buone pratiche e prospettive future in Italia”. Attendendo di poter seguire il convegno, approfondiamo l’argomento incontrando una delle organizzatrici dell’evento, Consuelo Battistelli, che ha gentilmente concesso un’intervista a Percorsi di Secondo Welfare.

Consuelo Battistelli lavora in IBM, una delle principali imprese del campo informatico, che da sempre si dimostra attenta ai temi dell’innovazione culturale e dell’integrazione, tanto da aver assunto le prime persone con disabilità nel 1914 (in assenza di incentivi o obblighi di legge) e il primo venditore afroamericano nel 1946 (quando in alcuni Stati americani c’era ancora la segregazione razziale). In forza della sua esperienza di engagement partner, Battistelli ha potuto spiegarci come le persone con disabilità possono essere una risorsa per le imprese e come la tecnologia sta aprendo nuove possibilità di inclusione sociale e vita indipendente.

Per maggiori informazioni sul convegno del prossimo 25 novembre è possibile visitare questo link o scaricare la brochure allegata alla pagina. L’iscrizione è obbligatoria ma gratuita.

 

Dottoressa Battistelli può descrivermi il Suo ruolo e le Sue funzioni in IBM?

Ricopro il ruolo di diversity engagement partner per IBM Italia. Mi occupo in senso lato di tutte le tematiche che riguardano la diversity, in particolar modo quelle che IBM intende portare avanti, nello specifico la gender diversity (NdA differenza di genere), la LGBT diversity (differenza di orientamento sessuale), la generational diversity (NdA differenza generazionale), la multicultural diversity (NdA differenza di cultura), la working life integration (NdA integrazione vita e lavoro) e le PWD, people with disabilities (NdA persone con disabilità). Ho un focus particolare sulle people with disabilities, non solo per la mia disabilità, sono non vedente, ma anche perché nel corso degli anni ho maturato competenze e esperienza sul tema per attività che ho svolto in IBM.

Sono entrata ufficialmente nel ruolo da quest’anno come diversity engagement partner. Mi sto affacciando a molte di queste tematiche per la prima volta, altre le conoscevo già in maniera più diffusa. Cosa faccio nello specifico? Porto avanti programmi di formazione, organizziamo moltissimi eventi su tutte le tematiche; ultimo è stato un enablement LGBT (NdA attività di formazione) rivolto al management. La prossima settimana ci sarà un evento aperto a tutti sul talento delle donne, percorsi, progetti, futuro, poi un evento specifico il 2 dicembre per la giornata mondiale delle persone con disabilità.

La mia attività riguarda soprattutto la divulgazione (anche attraverso eventi specifici) e l’engagement, quindi coinvolgere i colleghi per quanto riguarda l’interno ma soprattutto sul network. Porto avanti la diversity da molteplici punti di vista e in tutte le sue sfaccettature. È alla base della strategia di IBM; IBM fa innovazione e una delle spinte propulsive per l’innovazione è la diversity, i team più creativi, innovativi, collaborativi sono i team eterogenei. In IBM non ci sono solo ingegneri o programmatori, in ogni team ci sono persone con formazione umanistica, vengono assunti anche laureati in filosofia.


Qual è stato il Suo percorso formativo?

Io non appartengo al mondo scientifico, sono laureata in lettere moderne a indirizzo storico. Poi ho fatto un master in management delle risorse culturali, ambientali, paesaggistiche al Politecnico di Milano e nel 2010 il corso di perfezionamento in disability management alla Cattolica di Milano.

La domanda che più mi viene fatta è: ma cosa ci fai in IBM? Le tipologie di lavoro che IBM offre sono tante, uno sbocco naturale per le mie propensioni. Sono stata assunta in IBM nel 2006 negli anni della legge Stanca, la legge per l’accessibilità dei siti della pubblica amministrazione. Di fronte a questa tematica, ci voleva una persona di riferimento. Sono stata assunta con questa precisa mansione e collocata nella sede di Roma, in una prima fase si parlava di accessibilità dei siti, poi di implementazione di soluzioni tecnologiche per l’accessibilità, fino al coinvolgimento nel business development di quest’area del settore pubblico. 

Parallelamente mi sono sempre occupata di altri ambiti come la formazione. Ho realizzato un corso ad hoc sull’inclusione digitale e l’accessibilità all’Università La Sapienza, all’epoca un unicum. In IBM lavoriamo molto con le università.


Può descrivermi l’attuale politica aziendale di IBM in materia di disabilità?

IBM è da sempre attenta a questa tematica e in generale alla diversity. IBM ha assunto la prima persona con disabilità nel 1914, diciamo che ha precorso i tempi. Partecipiamo ai più importanti appuntamenti nazionali sul tema come “Diversità Lavoro” dove si parla di recruitment (NdA selezione del personale); c’è un’attenzione a questo settore, al voler assumere persone con disabilità ma con competenze specificheL’inserimento è sempre finalizzato, non è fatto perché è necessario assumere una persona con disabilità. Nel mio caso serviva una persona con certe competenze su Roma che facesse questo lavoro con un determinato cliente, non una persona con disabilità.

Poi le persone vengono inserite in team specifici con strumentazione specifica. Lo sottolineo perché può sembrare banale ma non lo è. Il fatto che una persona venga dotata della strumentazione di cui necessita, io devo essere dotata di un computer con screen reader, o di un certo tipo di telefono, un iPhone con sintesi vocale, per essere produttiva: la parola chiave è produttività e se non ho gli strumenti giusti non posso lavorare nel giusto modo. C’è anche un centro di competenza per le tecnologie assistive per dare i giusti strumenti alle persone con disabilità. Il non vedente sarà munito di screen reader, un ipovedente del video ingranditore, in caso di disabilità motoria grave un mouse speciale per la carrozzina.

Poi per arrivare alla piena inclusione ci si appoggia sempre ad associazioni che possono fornire un servizio di maggiore competenza, da decenni collaboriamo con Fondazione ASPHI per l’inserimento lavorativo di persone con disabilità, in particolare nell’ambito informatico. Fondazione ASPHI è stata fondata da IBM negli anni ’80.


Può fare qualche esempio di buone prassi?

Le vorrei sottolineare una best practice propria di IBM Italia, un team costituito da persone con disabilità ma non solo, il nostro fiore all’occhiello.

È il team MWA, Mobile Wireless Accessibility, “mobile” significa “azienda ovunque”, “wireless” fa riferimento alla “tecnologia migliore” (il team è nato nel 2004 e nel 2004 il wireless era la tecnologia migliore), “accessibility” perché è il protocollo a cui fare sempre riferimento poiché la tecnologia deve essere per tutti, per evitare il digital divide. È un team costituito da persone con disabilità, è un’organizzazione cross-brand di IBM, che si occupa di tecnologia e persone con disabilità; promuove l’inclusione, il coinvolgimento delle persone nell’attività lavorativa, con gli altri team, i manager. In un’azienda grande come la nostra non è scontato interagire con gli altri, il proprio team, il manager stesso, a maggior ragione se hai una disabilità, una difficoltà.

L’esperienza è nata da un piccolo gruppo di persone con disabilità, per lo più non vedenti e ipovedenti. Il mondo aziendale stava cambiando, le tecnologie pure, il modo di lavorare anche, e per una persona non vedente era abbastanza complicato, andava tutto più veloce. Si sa che la tecnologia va veloce ma le tecnologie assistive non sono sempre così veloci. Per necessità è nato un progetto pilota che ora è diventato un vero e proprio servizio a cui fare riferimento nelle attività lavorative di ogni giorno. Non ci vengono date solo tecnologie ma sviluppiamo progetti di education oltre a svolgere attività di testing per applicazioni interne o rivolte ai clienti, lavorando sempre su temi che l’azienda ci propone.

Adesso uno dei pillar di IBM è la piattaforma Bluemix, stiamo lavorando sull’accessibilità di Bluemix. A giugno abbiamo organizzato un importante evento sul tema della tecnologia in ogni fase dell’età evolutiva, aperto ai dipendenti e ai loro famigliari e noi abbiamo inserito una parte dedicata alla disabilità e alla tecnologia che ci abilita.  Questo team è una best practice: anche se IBM è presente in 160 Paesi del mondo, un team così lo abbiamo solo in Italia. È vero però che negli Stati Uniti IBM ha un laboratorio di accessibilità, un Chief Accessibility Officer che si occupa di disabilità, ma un pool composto da persone con disabilità è solo qui.


Ci sono altre best practice di IBM Italia che vuole segnalare? Non solo rivolte a persone con disabilità…

C’è sempre un’apertura a qualunque iniziativa in quest’ambito. Non è scontato l’interesse di un’azienda verso queste tematiche e per l’implementazione delle soluzioni, un laboratorio negli Stati Uniti mi sembra rilevante.
Abbiamo progetti molto belli come l’alternanza scuola-lavoro e la diffusione della tecnologia nel mondo femminile, nelle scuole rivolto alle ragazze. Abbiamo un progetto specifico rivolto alle ragazze chiamato “NERD – Non è Roba solo per Donne”, andiamo nelle scuole a insegnare alle ragazze a programmare. Lo stiamo diffondendo in diverse scuole e università italiane. È interessante e divertente e aiuta le ragazze ad avvicinarsi alle materie scientifiche, magari per poi iscriversi all’università.


Può descriverci in cosa consiste il disability management, come si è sviluppato e quanto è diffuso in Italia?

Una definizione di disability management è difficile da dare perché riguarda tanti aspetti. È un insieme di strategie che aiutano a dialogare meglio, la persona con disabilità da una parte, e l’azienda dall’altra. Mi focalizzo molto sul discorso aziendale perché credo molto nell’importanza di questa figura in questo ambito, soprattutto nelle aziende più complesse. Da una parte c’è una persona con la sua disabilità e i suoi problemi ma anche le sue competenze e le sue potenzialità. Questo lo sottolineo. La persona è portatrice di competenze, certe caratteristiche non solo fisiche o culturali, ha un suo background; questo deve essere rispettato per essere valorizzato al meglio. Dall’altra parte c’è la complessità aziendale, permettere il dialogo tra questi due attori è importante. Vedo nella figura del disability manager colui che può fare questo.

Di disability manager non è da tanto che se ne parla in Italia, mentre in Paesi come Canada, Stati Uniti, Nord Europa se ne parla da fine anni ’80. Il tema del diversity leader invece si sta diffondendo. Sto distinguendo perché il diversity leader si occupa di tutte quelle tematiche che ho elencato all’inizio. Io mi sono presentata come diversity engagement partner e il mio corrispettivo lo trovo in altre grandi aziende. È più difficile nella piccola e media impresa. Poi ci sono anche declinazioni particolari a sottolineare la specificità, nel mio caso diversity engagement partner, che è una caratteristica del diversity inclusion leader. In molte aziende non c’è un ruolo così specifico, ho constatato che è il direttore del personale che ha anche questo ruolo. Diverso è per il disability manager perché non è un ruolo così ben definito. È diffuso a macchia di leopardo nel nostro Paese. È una questione di cultura.

Quando ho detto che c’è maggiore diffusione nella grande impresa rispetto alla piccola e media impresa non intendevo dire che nelle piccole e medie manchi la cultura, hanno altri obiettivi prima di questo, prima di curare la diversity come la curiamo noi. È possibile che nei prossimi anni la figura del disability manager trovi capillare diffusione in Italia? Ad esempio, inserendosi nelle piccole e medie imprese, negli enti pubblici, trovando sbocchi che vadano oltre il diritto al lavoro, come l’accessibilità, la mobilità, la fruizione del patrimonio culturale…

Il mercato è un mercato globale, sempre più eterogeneo, sempre più vasto, è quello il bacino d’utenza, non si va in una sola direzione ma in più direzioni, di cultura, di razza… La percentuale di persone con disabilità nel mondo non è poca. Per disabilità non dobbiamo intendere la disabilità propriamente detta, dobbiamo tenere conto di un altro dato importante, l’invecchiamento della popolazione, tutto il discorso legato all’ageing, è un target a cui fare riferimento.

Ci devono però essere le condizioni economiche e politiche e in un periodo di crisi non è la priorità: perché vi sia diffusione deve essere visto come una potenzialità e una risorsa. Mi sono focalizzata molto sull’ambito aziendale ma questa figura la vedo molto anche in altri ambiti come quello culturale. La persona con disabilità che vuole fruire o lavorare del patrimonio culturale si deve scontrare con il sistema dei beni culturali.

Ma il discorso è più ampio. Bisognerebbe intendersi su tanti concetti come quello di barriere architettoniche; non ci sono solo le barriere architettoniche ma anche le barriere invisibili, legate a una disabilità sensoriale alla quale magari non si pensa. Un ambiente poco illuminato è una barriera per una persona sorda che ti deve vedere bene in faccia, deve vedere il labiale.


Il disability management si basa su saperi connessi a diversi ambiti disciplinari unendo competenze di tipo manageriale ed economico con competenze di tipo psicosociale; come si inserisce nell’insieme delle professioni sociali e cosa lo differenzia dalle professioni più “storiche” e diffuse (educatore sociale, psicologo, assistente sociale…)?

Nel disability management vedo una multidisciplinarietà rispetto alle altre professioni sociali. Due parole chiave: il management cioè la gestione e la trasversalità. Altre professioni sono più settoriali. Il disability manager deve avere più competenze e si deve avvalere di altre figure per avere un quadro d’insieme, quindi prendere in considerazione tutti gli aspetti, quello psicosociale, quello più legato ad un discorso di ausili, più formativo (nel caso di una persona non vedente magari deve fare riferimento al tiflologo) per riuscire a gestire al meglio l’inserimento lavorativo. Le altre figure non hanno questa finalità ma si occupano di diversi aspetti, mentre il disability manager deve arrivare ad un efficace inserimento lavorativo. Per questo si deve avvalere di tutti gli altri supporti e delle discipline con cui gli altri professionisti lo possono coadiuvare.


Ad esempio come si raccorda il lavoro svolto dal disability manager in azienda con i precedenti percorsi formativi, spesso curati dall’educatore sociale o dallo psicologo?

Il disability manager deve interagire con l’organizzazione e organizzazione vuol dire gli altri colleghi, team di lavoro, strutture, management, tutta una rete che l’educatore non ha così a stretto contatto, è un passo oltre. Si mira all’inclusione lavorativa di qualità della persona con disabilità, non basta metterla seduta ad una scrivania. Ci deve essere tutto un contorno. Il disability manager deve poi monitorare questo inserimento.  Il disability manager deve conoscere la persona con disabilità ma anche il contesto e i flussi comunicativi.

Il 25 novembre presso il Politecnico di Milano ci sarà il primo convegno italiano sul disability management: come si è arrivati alla realizzazione di questo momento? Quali sono gli obiettivi e gli auspici al riguardo?

Arriviamo a questo step molto significativo. È stato molto faticoso, non è un evento da poco, ma sono molto contenta di esserci arrivata.

Il nostro obiettivo è sicuramente parlare di questo tema, mettere il focus su questo tema che diventa sempre più centrale nelle organizzazioni ma non è ancora diffuso come dovrebbe essere. Abbiamo deciso di farlo, da una parte con il mondo accademico, dall’altra parte con alcune grandi realtà che indubbiamente stanno mettendo in atto best practice su questo tema e vogliono riflettere per portare sempre più valore aggiunto all’impresa. Non dimentichiamoci che il business è sempre l’obiettivo, non sono ONLUS, non sono associazioni, l’obiettivo è la produttività, l’inclusione va bene ma è sempre per il business. L’inclusione favorisce il business se vista nella giusta ottica; è il discorso che si faceva qualche anno fa per i siti accessibili e i siti non accessibili. Quando di è scoperto che farne due (NdA uno accessibile e uno non accessibile) costava molto di più che farne uno solo fatto bene seguendo le norme di accessibilità. Se un sito è fatto bene e accessibile funziona per un non vedente ma anche per un ipovedente, una persona con dislessia o straniera. Facendolo a parte si crea ghettizzazione non inclusione.

Conosco tutti i relatori e devo dire che sono di qualità. Abbiamo cercato di coprire tutti gli aspetti, da quello scientifico, a quello legislativo, al territorio come dimensione importante dando spazio anche al terzo settore. Per chiudere la tavola rotonda abbiamo scelto un intervento molto interessante dal punto di vista economica per sottolineare il vantaggio economico dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità tenuto dal prof. Guido Migliaccio dell’Università del Sannio.
I relatori sono tutti intervenuti con entusiasmo, ora speriamo nel pubblico.

Un’ultima domanda: lei lavora in un contesto strettamente connesso con le tecnologie digitali: che ruolo possono giocare questi strumenti per il miglioramento della qualità di vita delle persone con disabilità?

Fondamentale.

La tecnologia ha invaso la vita di tutti; per la persona con disabilità è decisamente qualcosa di più, è un prolungamento che mi permette di raggiungere una certa qualità di vita e di migliorarla. Molti aspetti della mia vita sono migliorati nel corso degli anni con l’evoluzione della tecnologia, penso a qualunque ambito, domestico, scolastico, sociale…

Non voglio dire che sia la panacea di tutti i mali e possa sostituire gli strumenti più tradizionali come il bastone bianco, il cane guida, un semplice accompagnamento o un libro in braille. Ha permesso però di superare tantissimi problemi come la mobilità, con un’app si può fare la spesa da casa, il social che ti ha portato il mondo in casa, internet ci ha aperto il mondo, poi tutta una serie di strumenti che ci hanno permesso di superare certe difficoltà, come un’app che quando viaggio in treno mi dice in che stazione mi trovo (utile quando il treno non è vocalizzato), un’app che attraverso l’audio-descrizione sincronizzata mi permette di andare al cinema da sola. Ho un’app per tutto.