Prima del 2020, il dibattito sulla progettazione delle aree di lavoro era un tema per addetti ai lavori, oscillante tra due modelli opposti. Da un lato, gli open space, celebrati per la loro capacità di stimolare la comunicazione informale e l’innovazione tra i colleghi. Dall’altro, gli uffici tradizionali o gli spazi riservati, considerati essenziali per garantire concentrazione, produttività individuale e benessere mentale. Trovare un equilibrio tra collaborazione e privacy era già una sfida, ma in Italia riguardava ancora una minoranza di realtà aziendali.
Il grande esperimento forzato
Pre-pandemia lo smart working era una pratica poco diffusa, regolato in forma volontaria dalla Legge 81 del 2017 e circoscritto proprio nel cuore produttivo del sistema: le piccole e medie imprese. Come ricordavano i dati dell’Osservatorio Smart Working del 2019, per la stragrande maggioranza delle imprese italiane, il modello di riferimento rimaneva quello della scrivania fissa e della presenza quotidiana in ufficio.
Poi, la pandemia di Covid-19 ha agito da acceleratore forzato e potentissimo, imponendo un ripensamento radicale non solo delle modalità di lavoro, ma anche degli spazi fisici che le ospitano. Le esigenze di distanziamento e sicurezza, unite all’adozione massiccia del lavoro da remoto, hanno costretto anche le PMI più tradizionali a sperimentare. Hanno dovuto superare in fretta il concetto di postazione fissa, introducendo uffici con postazioni condivise e imparando a gestire team che operano in configurazioni ibride, in parte in presenza e in parte da remoto.
Ma come si è tradotto, nella pratica quotidiana, questo storico cambiamento? E, soprattutto, cosa ne pensano i lavoratori? A queste domande ha provato a rispondere la ricerca La riorganizzazione degli spazi di lavoro nelle PMI italiane dopo la pandemia di Covid-19, recentemente pubblicata sulla rivista Welfare e Ergonomia. Attraverso un’approfondita indagine qualitativa che ha raccolto la voce di 90 dipendenti in 30 PMI in tutta Italia, lo studio ha messo a fuoco le strategie, le preferenze e le criticità emerse in questo nuovo scenario.
Oltre l’open space: l’equilibrio dinamico dei nuovi spazi di lavoro
Dalle interviste non è emerso un manuale di istruzioni universale ma un principio chiaro: le PMI hanno scelto la via dell’ibrido, combinando in modo creativo spazi aperti e chiusi. Questo approccio non è la copia di modelli internazionali, ma una risposta pragmatica a vincoli e opportunità, plasmata dalla cultura aziendale, dalle risorse a disposizione e dalla natura delle attività svolte.
L’eterogeneità delle soluzioni rispecchia la varietà del tessuto produttivo italiano. In una microimpresa del Nord Ovest, un IT specialist raccontava come il problema delle videochiamate lavorative in open space sia stato risolto in modo informale, spostandosi in una stanzetta quando serve maggiore concentrazione oppure in una modalità maggiormente stabile ricorrendo all’uso di Call Pods (box acustici, piccoli spazi autonomi che ritagliano la privacy necessaria per fare telefonate senza distrazioni e senza disturbare i colleghi nel cuore degli open space). All’estremo opposto, in una media impresa del Sud, un’impiegata amministrativa descriveva con entusiasmo le postazioni modulari che possono essere riconfigurate a piacimento, permettendo di passare dalla riunione di team al lavoro concentrato nello stesso ambiente.
Proprio l’open space rimane l’elemento più dibattuto, un’arma a doppio taglio i cui effetti dipendono spesso dalle priorità individuali. Quello che emerge non è una semplice dicotomia tra spazi aperti e chiusi, ma un equilibrio dinamico che le aziende negoziano giorno per giorno tra esigenze operative, preferenze individuali e scelte organizzative. Lo spazio fisico diventa così il dispositivo attraverso cui le imprese interpretano la nuova normalità lavorativa.
Dalla casa all’ufficio: anche il nuovo benessere è ibrido
Uno degli aspetti più significativi emersi dalla ricerca è che le preferenze tra lavoro in sede e da remoto sono profondamente influenzate dalle condizioni di vita personali.
Una consulente legale del Centro Italia, con una casa spaziosa e un ufficio domestico ben attrezzato, lavora da remoto senza difficoltà. All’opposto, una sua collega, trasferitasi dal Sud in un piccolo appartamento nel Nord Est, preferisce nettamente recarsi in sede, riservando lo smart working quasi esclusivamente per i periodi in cui torna in meridione dalla sua famiglia di origine.
Le aziende e la ricerca di un nuovo ecosistema per il lavoro ibrido
Questa centralità della persona, con le sue esigenze abitative e di benessere, non è sfuggita alle aziende più attente. In una media impresa del Nord Ovest, ad esempio, hanno addirittura creato un’ala benessere con corsi gratuiti di yoga e pilates: iniziativa nata proprio dal chiedere direttamente ai dipendenti cosa avrebbero preferito per migliorare la propria vita lavorativa. I casi raccolti dimostrano che il confine tra vita professionale e privata è maggiormente labile. Progettare spazi di lavoro efficaci significa quindi guardare oltre le mura aziendali, ponendo al centro la conciliazione vita-lavoro e creando un ecosistema di benessere che dall’azienda si prolunghi fino a casa, senza invadere gli spazi personali.
Dallo spazio fisico al progetto organizzativo: implicazioni per il futuro
I risultati di questa ricerca dipingono un quadro chiaro: la riorganizzazione degli spazi nelle PMI italiane non è stata dettata da un modello precostituito, ma si è rivelata un processo adattivo e contestuale. Le soluzioni ibride, l’equilibrio dinamico tra collaborazione e privacy, e l’influenza delle condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori mostrano che non esiste una formula universale, ma percorsi diversificati, plasmati dalle specificità di ogni azienda.
Alla luce di queste evidenze, la qualità dello spazio fisico si conferma una leva strategica a tutti gli effetti, cruciale per attrarre e trattenere i talenti, sostenere la produttività e promuovere il benessere organizzativo. Per le PMI, investire in soluzioni flessibili e modulari, in grado di supportare tanto il lavoro individuale quanto la collaborazione informale, significa valorizzare quella cultura organizzativa spesso basata su relazioni interpersonali strette e su processi decisionali agili, tipici di queste realtà.
Lo studio suggerisce che lo spazio fisico non può più essere considerato un mero “contenitore” di attività. Si sta sempre più affermando come un vero e proprio dispositivo organizzativo e culturale, capace di influenzare attivamente i comportamenti, la cultura aziendale e la capacità di un’organizzazione di essere inclusiva, adattiva e resiliente. Comprendere queste dinamiche, ascoltando anche la voce dei lavoratori e delle lavoratrici, non è quindi un esercizio accademico, ma un passaggio fondamentale per navigare con successo la complessità della nuova normalità lavorativa. Perché progettare lo spazio di lavoro oggi significa, in definitiva, progettare il futuro dell’organizzazione stessa.