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Il mercato dei buoni pasto è in continua evoluzione. Come spiegato qui, è allo studio del Senato un DDL che mira ad alzare la soglia esentasse a 10 euro: ad oggi infatti i buoni pasto non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente e sono deducibili fino a 4 euro (se cartacei) e a 8 euro (se digitali) al giorno. L’intervento andrebbe così a influenzare un settore che in Italia vale circa 4,5 miliardi di euro ogni anno e coinvolge oltre 3,5 milioni di lavoratori e lavoratrici in circa 250.000 aziende.

Proprio allo scopo di approfondire gli effetti di questo cambiamento, TEHA – The European House Ambrosetti ha realizzato per Edenred Italia uno studio per stimare l’impatto di questa revisione della soglia esentasse dei buoni pasto. I risultati dello studio sono stati presentati lo scorso 18 settembre a Roma, durante un incontro a porte chiuse che ha coinvolto esperti del settore. C’eravamo anche noi di Percorsi di secondo welfare. Di seguito vi presentiamo in anteprima i dati più interessanti.

Buoni pasto a 10 euro: cosa succederebbe?

Allo scopo di approfondire l’impatto dell’aumento della soglia dei buoni pasto a 10 euro, il modello elaborato da TEHA – The European House Ambrosetti propone due scenari:

  • il primo prevede un aumento a 10 euro già nel 2026;
  • il secondo prevede un incremento graduale nel prossimo triennio, da 8 euro a 9 euro nel 2026, da 9 euro a 10 euro nel 2027 e da 10 euro a 11 euro nel 2028.

Considerando la quantità media di buoni pasto presenti sul mercato nell’ultimo decennio, TEHA ha perciò fatto una stima differenziata.

Nel primo scenario, in cui l’aumento a 10 euro avvenga già nel 2026, lo Stato avrebbe un costo – legato alle mancate entrate fiscali – pari a circa 75-90 milioni di euro; al contempo però avrebbe delle entrate tramite l’IVA generata dai maggiori consumi pari a 170-200 milioni1. Il beneficio netto per l’Erario potrebbe dunque valere tra i 95 e i 110 milioni di euro solo per il 2026.

Nel caso di aumento della soglia graduale nel prossimo triennio (da 8 euro a 9 euro nel 2026, da 9 euro a 10 euro nel 2027 e da 10 euro a 11 euro nel 2028) tale beneficio potrebbe valere tra 156 e 176 milioni di euro. Queste entrate ulteriori per lo Stato sarebbero “spalmate” nel corso dei tre anni considerati.

Si tratta di una stima interessante che, ancora una volta, mette in luce come la filiera dei buoni pasto non vada sottovalutata e considerata nella sua interezza. Come già raccontato qui, infatti, stando a una stima di SDA Bocconi, ad oggi il settore dei buoni pasto genera da solo un valore pari allo 0,75% del PIL nazionale, di cui lo 0,33% come impatto diretto (legato alle attività delle società emettitrici) e lo 0,42% come impatto indiretto ovvero legato alla filiera di esercizi commerciali e fornitori coinvolti. L’incremento della soglia di defiscalizzazione dei buoni porterebbe le imprese ad investire ancora di più e, di conseguenza, favorirebbe la crescita di tutto il settore.

I buoni pasto e il potere d’acquisto dei dipendenti

Oltre a rappresentare un’opportunità per incrementare i consumi e, quindi, gli introiti per lo Stato, non bisogna ovviamente dimenticare il valore per chi li utilizza data la capacità di incrementare nell’immediato il potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici.

La forte spirale inflattiva degli ultimi anni ha infatti ridotto le marginalità economiche delle persone e ha portato a una progressiva riduzione dei consumi. Per questo i buoni pasto rappresentano un supporto concreto che le imprese possono garantire in una prospettiva di integrazione della retribuzione.

Durante l’evento a porte chiuse Fabrizio Ruggiero, Amministratore Delegato di Edenred Italia, ha ricordato che “la soglia esentasse di 8 euro per i buoni pasto elettronici, stabilita nel 2020, riflette un contesto economico precedente all’attuale fase inflattiva. Oggi, per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie del ceto medio, un adeguamento rappresenta una misura strategica”. A supporto della sua tesi Ruggiero ha ricordato un caso concreto: “nel 2015 l’innalzamento del valore da 5 a 7 euro, a fronte di un costo per lo Stato di 58 milioni di euro, ha generato un beneficio netto per la finanza pubblica di 189 milioni, grazie a un extra gettito IVA di 248 milioni. È dunque una scelta che produce benefici misurabili per l’intero sistema”.

Questa opinione è condivisa anche da Matteo Orlandini, presidente di ANSEB, l’Associazione Nazionale delle Società Emettitrici di Buoni pasto. Secondo Orlandini “questa misura, che costerebbe alle casse dello Stato circa 70-80 milioni di euro l’anno, potrebbe garantire un supporto concreto ai lavoratori, che negli ultimi anni hanno dovuto fare i conti con l’aumento dell’inflazione e il carovita. Aumentare i buoni pasto fino a 10 euro vorrebbe dire consentire alle imprese di mettere in tasca ai dipendenti circa 450-500 euro ogni anno”. Non stupisce dunque che ANSEB sia a favore dell’intervento, “in modo particolare se fosse inserito a all’interno di un pacchetto di strumenti per rilanciare il ceto medio”.

Quest’ultima ipotesi di inserire l’aumento della soglia in un provvedimento più ampio dedicato al “ceto medio” appare senza dubbio condivisibile e interessante. Non è infatti pensabile che il solo intervento sui buoni pasto – come ipotizzato da qualcuno – possa avere un impatto decisivo sul miglioramento del potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici alle prese con i cambiamenti inflazionistici degli ultimi anni. L’inserimento della misura in una cornice più ampia rappresenterebbe invece una scelta lungimirante per intervenire in maniera più efficace in tale direzione.

 

Note

  1. In questo caso TEHA stima tra i 1,7 e i 2 miliardi di nuovi consumi generati dall’aumento dei buoni pasto.