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In meno di un anno, il Jobs act è passato dal libro dei desideri alla Gazzetta Ufficiale. Lo scarno sommario di punti «formulato insieme ai ragazzi della segreteria» ( eNews di Matteo Renzi, 8 gennaio 2014) ha dato luogo ad un’ampia riforma, approvata con la legge delega dello scorso 10 dicembre. Il cammino è stato difficile e turbolento: aver tagliato il traguardo è un indubbio segnale positivo. Verso l’Europa, i mercati finanziari e gli investitori stranieri. Ma soprattutto verso l’interno. Il nostro mercato del lavoro può ora diventare più efficiente e più equo. Come tutti i grandi cambiamenti, il Jobs act ha suscitato incertezza e qualche timore nell’opinione pubblica e dure critiche da parte sindacale. È perciò utile richiamare alcuni elementi di fatto di questa riforma e interrogarsi sui suoi probabili effetti.

Iniziamo col ripetere che per chi oggi ha un posto a tempo indeterminato non cambierà nulla. Il cosiddetto contratto a tutele crescenti (uno dei piatti forti della riforma) si applicherà solo ai nuovi rapporti di lavoro e offrirà a moltissimi precari, soprattutto giovani, la possibilità di assunzione in forma stabile. Non un posto fisso garantito, a prova di licenziamento. Ma un impiego senza scadenza pre-fissata, questo sì. Rispetto alla situazione attuale, sarà un grande miglioramento. Con una prospettiva temporale lunga i giovani possono impostare piani di carriera e di vita che non sono neppure immaginabili quando si è costretti a ragionare di mese in mese.

La revisione degli ammortizzatori sociali (altro pilastro fondamentale della riforma) offrirà dal canto suo quella protezione universale contro la disoccupazione che l’Italia non ha mai avuto. È davvero strano che le dispute sul Jobs act in seno al Pd e ai sindacati abbiano trascurato questo aspetto, che dagli inizi del Novecento è stato al centro dei programmi e delle lotte politiche di tutte le sinistre europee. La Naspi (Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego) corrisponderà a chi perde il lavoro una indennità pari a circa il 75 per cento dello stipendio per un massimo di 24 mesi. Verranno inoltre sperimentati due sussidi aggiuntivi: l’assegno di disoccupazione (Asdi) per quei lavoratori con carichi di famiglia e senza altre fonti di reddito che non sono ancora riusciti a ricollocarsi alla scadenza della Naspi; e un assegno (chiamato Dis-Coll) per i collaboratori a progetto che restano senza lavoro. Quando saranno a regime, gli ammortizzatori sociali italiani diventeranno i più inclusivi e per molti aspetti i più avanzati d’Europa. Certo, serviranno risorse adeguate. Ma nel bilancio pubblico i margini ci sono, soprattutto se si riuscirà a riportare la Cassa integrazione alle sue funzioni «fisiologiche».

Per una valutazione completa del Jobs act bisogna ovviamente aspettare i decreti delegati mancanti. Occorre varare un codice semplificato del lavoro, che sfrondi l’attuale pletora di forme contrattuali (in particolare le «co-co-pro» fasulle). E serve al più presto un’Agenzia nazionale che coordini i servizi per l’impiego e la formazione professionale.

Ma veniamo ai possibili effetti del Jobs act. Crescerà l’occupazione? Questo è ciò che importa agli italiani. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha azzardato una stima: 800 mila posti di lavoro in tre anni. Se così accadesse, sarebbe un bel successo. Tutto dipenderà però dal comportamento delle imprese e, più in generale, dall’andamento dell’economia. Superato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le piccole aziende salteranno il fatidico «fossato» dei 15 dipendenti e ne assumeranno altri utilizzando il contratto a tutele crescenti? Con maggiore flessibilità e forti incentivi fiscali, le imprese medie e grandi smetteranno di delocalizzare e torneranno a creare posti di lavoro stabili in Italia? Arriveranno gli investitori stranieri? E, soprattutto, ripartiranno gli ordini e i consumi? Le risposte a queste cruciali domande non dipendono solo dall’azione di governo: si tratta in ultima analisi di scelte e comportamenti dei vari soggetti economici. Il Jobs act va perciò visto come una condizione necessaria, ma non sufficiente per superare la crisi e far crescere il lavoro.

Agli inizi di un nuovo anno, è giusto mostrare un po’ di ottimismo. Grazie al Jobs act, possiamo dire che il bicchiere delle riforme ha cominciato a riempirsi. Non aspettiamoci miracoli; piuttosto, come ha giustamente detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, «ciascuno faccia la sua parte al meglio». Se la legge delega verrà attuata in tutti i suoi tasselli, è lecito però sperare che nel 2015 l’assillo della disoccupazione allenti la sua morsa, soprattutto sui giovani e le fasce più fragili della nostra società. Con l’aria che tira, sarebbe una realizzazione non da poco.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 3 gennaio 2015

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