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La riforma del mercato del lavoro deve ispirarsi al modello tedesco. Così ha detto il 1° settembre Matteo Renzi, allineandosi a molte autorevoli voci italiane ed europee. Per i non addetti ai lavori sorgono spontanee due domande: perché dobbiamo imitare proprio la Germania? E in che cosa, esattamente? Rispetto all’Italia, la performance occupazionale tedesca è di gran lunga più brillante. A fine luglio il tasso di disoccupazione era al 4,9%, di contro al 12,6% in Italia. Nel caso dei giovani, il divario diventa impressionante: circa 8% in Germania, più del 42% in Italia. Lo stesso vale per l’occupazione femminile: 72% contro il 50%. I livelli odierni sono stati conquistati passo dopo passo dalla Germania nel corso dell’ultimo decennio, a dispetto della crisi.

Nel 2003 la prima economia Ue era considerata il grande malato d’Europa, con tassi di disoccupazione persino più alti di quelli italiani. Il modello tedesco si presta a essere un punto di riferimento proprio per la sua capacità di creare posti di lavoro, anche in tempi difficilissimi. A che cosa è dovuto questo «miracolo»? La risposta più comune, anche a Berlino, è questa: il merito è delle cosiddette riforme Hartz, introdotte dal Cancelliere socialdemocratico Schröder fra il 2003 e il 2005. Si è trattato di quattro diversi pacchetti legislativi che hanno ridotto la generosità delle prestazioni pubbliche, riorganizzato i servizi per l’impiego, introdotto nuove tipologie di lavoro flessibile e di sussidi ai bassi salari. Secondo molti esperti, le riforme Hartz sono però solo una parte della verità, e forse non la più importante.

Il successo è soprattutto figlio della moderazione salariale negoziata fra imprese e sindacati, grazie al peculiare sistema tedesco di relazioni industriali. Hanno inoltre svolto un ruolo di primo piano la stabilità dell’euro e la disponibilità di credito a buon mercato: entrambi hanno permesso alle imprese di rimanere competitive. In poche parole, l’Unione economica e monetaria ha fatto molto bene alla Germania.

Va inoltre detto che le riforme Hartz hanno dato luogo a luci e ombre. Moltissimi giovani, donne e ultracinquantenni sono ad esempio intrappolati nei cosiddetti minijobs: lavori part time pagati 400 euro al mese (anche se spesso integrati da trasferimenti pubblici, che consentono di raggiungere i 1.000 euro). Questo spiega perché, pur essendo ritenute responsabili del miracolo, le riforme Hartz siano a tutt’oggi molto impopolari fra l’opinione pubblica, criticate soprattutto da quel partito socialdemocratico che dieci anni fa incaricò un consigliere d’amministrazione della Volkswagen (Peter Hartz, appunto) di presiedere una Commissione tecnica per le riforme.

Se teniamo conto del quadro completo, quale lezione può l’Italia trarre dall’esperienza tedesca? Alcuni fattori che hanno giocato un ruolo positivo in Germania da noi remano contro. La stabilità dell’euro è un bene per il sistema Italia, ma erode i margini delle nostre imprese e la loro propensione ad assumere. Lo spread ha alzato il costo del credito, penalizzandoci fortemente negli ultimi ani. Queste dinamiche andrebbero ricordate oggi al governo tedesco per contrastarne la filosofia dei «compiti a casa»: non tutto dipende dalle riforme interne. Nella misura in cui queste ultime possono fare la differenza, la lezione tedesca non è né chiara né univoca. Non si può fare «copia e incolla», occorre approfondire i dettagli delle riforme Hartz per individuarne i lati davvero positivi.

In base alle ricerche disponibili, le misure più virtuose sembrano essere state: la riforma dei servizi per l’impiego (compresi i voucher) e il potenziamento della formazione professionale; i sussidi per l’auto-impiego; alcuni aspetti (non tutti) dei contratti «mini» e «midi» (fino a 600 euro). Se c’è uno staff tecnico nel governo Renzi che sta riflettendo sul Jobs Act, farebbe bene a concentrarsi soprattutto su questi elementi. Resta il terzo fattore di successo sopra menzionato: le relazioni industriali e la contrattazione salariale. Su questo fronte la Germania ha davvero molto da insegnare. Ma ad apprendere non può essere solo il governo. Occorrono l’interesse e la disponibilità delle parti sociali: entrambe. E qui, a dire il vero, i segnali di cambiamento sono molto pochi, anche sul piano della capacità di analisi e della definizione di priorità strategiche.

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