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Gli ultimi dati Istat segnalano che la disoccupazione italiana (soprattutto quella giovanile) continua a salire, a dispetto dei primi segnali di ripresa. Lo spettro della «crescita senza lavoro», già sperimentata negli anni Novanta, rischia di condannare milioni di italiani all’insicurezza economica e sociale anche nell’anno appena iniziato.

Incolpare il governo Letta per questa situazione sarebbe ingeneroso: nell’ultimo semestre sono state adottate varie misure per salvare l’occupazione esistente ed incentivare le assunzioni. Il ministro Giovannini ha appena presentato a Bruxelles il Piano di attuazione della cosiddetta «garanzia giovani», che si propone di razionalizzare l’orientamento professionale e i servizi per l’impiego. L’approccio del «cacciavite» ha una logica inoppugnabile, ma per scongiurare lo spettro della crescita (o peggio: del ristagno) senza lavoro occorre una strategia più ambiziosa.

Matteo Renzi si è candidato a raccogliere questa sfida e sta ultimando il Jobs Act. A chi gli chiede perché ha scelto un’espressione inglese, il neosegretario risponde che «vuole fare come Obama». Con tutto il rispetto, suggeriamo un’altra risposta. In inglese jobs non significa «lavoro» (che si dice work ), ma «posti di lavoro». Il termine rimanda cioè esplicitamente al problema oggi più urgente per il nostro Paese: dove e come, esattamente, si possono creare nuovi impieghi? Se Renzi vuole dire e fare qualcosa di innovativo è a questa domanda che deve rispondere.

Quali sono i settori economici su cui puntare per guadagnare competitività e al tempo stesso espandere la domanda di lavoro, di «buon» lavoro? Perché a questo dobbiamo mirare: far sì che il maggior numero di giovani possa accedere a lavori «di qualità», quelli che valorizzano competenze e talenti nei settori di punta dell’economia.

Dal sommario del Jobs Act anticipato ieri sembra che Renzi e la sua squadra si stiano muovendo in questa direzione. Si parla, certo, di strumenti e regole (nuove tipologie contrattuali, semplificazione normativa, ammortizzatori sociali e così via), ma si parte dalla identificazione di quei comparti che promettono una crescita durevole e inclusiva (ricca di jobs, appunto): dal turismo al made in Italy, dalle nuove tecnologie alla riconversione energetica, dalle infrastrutture ai nuovi servizi di welfare.

Se questo è l’approccio prescelto, sarebbe utile avviare subito un confronto con i protagonisti di tali settori. Lo si è detto già tante volte, ma è bene ripeterlo: sono le imprese e non le leggi che creano posti di lavoro. Restano ovviamente fondamentali anche il dialogo con i sindacati e i diritti, purché ragionevoli. In Europa ci sono molti esempi di lavori nuovi in settori nuovi, capaci di conciliare qualità, produttività e sicurezza sociale. È una partita che possiamo vincere anche noi, con il giusto mix di lungimiranza e pragmatismo. 

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere delle Sera del 9 gennaio, p.1.

 

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