In Italia, il dibattito sulla disabilità ha attraversato negli ultimi anni una fase di rinnovata attenzione, su sollecitazione di due principali forze: da un lato, l’evoluzione normativa e istituzionale – basti pensare alla “Riforma per la disabilità” avviata con la Legge 227/2021 – e, dall’altro, la crescente consapevolezza sociale e culturale della necessità di superare un approccio meramente assistenziale.
Le linee guida internazionali, a partire dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), hanno infatti contribuito a spostare l’attenzione dalla “cura” intesa come tutela passiva alla partecipazione attiva della persona con disabilità alla vita comunitaria, riconoscendo il ruolo centrale delle relazioni, dell’inclusione e dell’autodeterminazione.
In questo contesto, il volume di Paolo Pantrini Oltre il velo di Maya della disabilità. Educatori in cerca di senso (Effatà Editrice, 2025) rappresenta un contributo prezioso, che propone un inedito percorso di riflessione teorico-pratica nata dall’esperienza sul campo dell’autore nella professione di educatore. L’immagine del “velo di Maya” – ripresa dalla tradizione filosofica indiana e reinterpretata da Arthur Schopenhauer – diventa metafora potente di ciò che spesso impedisce di vedere la persona con disabilità nella sua interezza: un insieme di pregiudizi, schemi e aspettative che offuscano lo sguardo e impediscono una relazione autentica.
Il velo di Maya che cela la persona con disabilità
L’itinerario proposto da Pantrini muove dalla definizione del “velo di Maya” che interviene dinanzi all’educatore o all’educatrice che opera nel campo della disabilità: esso è costituito da quell’insieme di filtri invisibili – pregiudizi, stereotipi, aspettative, paure – che condizionano la percezione della persona con cui lavora.
Questi condizionamente sono il prodotto di un intreccio di fattori culturali, professionali e personali: le etichette diagnostiche che tendono a definire l’individuo prima ancora di incontrarlo, le abitudini operative di impronta assistenzialista e medicalizzante, le esigenze organizzative dei servizi sanitari e socio-educativi, i modelli sociali che riducono la disabilità a una mancanza. Pantrini invita i lettori a riconoscere questo velo e a “scostarlo” consapevolmente, adottando uno sguardo fenomenologico capace di accogliere la persona nella sua unicità e complessità, per coglierne risorse, desideri e potenzialità non immediatamente visibili.
Nel panorama italiano, le politiche per la disabilità faticano ancora a tradurre i principi della CRPD in pratiche quotidiane, e la “presa in carico” si scontra spesso con carenze di risorse, frammentazione dei servizi e resistenze culturali. L’approccio di Pantrini offre uno spunto radicale: non basta rinnovare gli strumenti e aggiornare i dispositivi normativi, bisogna cambiare il modo di guardare degli operatori e delle operatrici che quotidianamente si interfacciano con la disabilità, dando corpo e gambe alle politiche.
Un educatore in viaggio: coordinate per una professione più consapevole
Oltre il velo di Maya della disabilità si sviluppa attraverso una narrazione fluida, che intreccia esperienza pratica e riflessione teorica, articolandosi intorno a tre assi portanti che guidano l’educatore in un percorso di riscoperta del proprio ruolo e del senso profondo dell’intervento e della professione.
Il primo asse è rappresentato dallo sguardo fenomenologico: una prospettiva che invita a mettere da parte preconcetti e classificazioni, a sospendere il giudizio, a osservare e ad accogliere ciascuna persona con disabilità “per come è”, nella sua soggettività, e non per come ci aspettiamo che sia. Lo sguardo fenomenologico è, in realtà, un sentire che investe tutti e cinque i sensi: la vista (capace di cogliere i dettagli e le capacità più nascoste della persona), l’udito (per ascoltare ed entrare in relazione attraverso l’empatia), il tatto (che può trasformarsi in contatto profondo e tangibile vicinanza), l’olfatto (nella consapevolezza dell’impatto che gli odori possono avere sull’atmosfera emotiva di ogni incontro) e il gusto (accogliendo ciascuna esperienza di amarezza o di dolcezza, ricercando la bontà).
Il secondo asse concerne la concezione integrale della persona, che Pantrini sviluppa richiamando in particolare la concezione di “persona” dello psichiatra Viktor Frankl. Questo approccio considera simultaneamente la dimensione biologica (il corpo nella sua condizioni di salute o di malattia, i processi fisiologici e i bisogni fisici), la dimensione psichica (sfera emotiva e cognitiva: pensieri, sentimenti, motivazioni, memoria, immaginazione) e la dimensione noetica (sfera spirituale che consente di attribuire significato alla vita, di esercitare libertà e responsabilità anche nelle condizioni più avverse). Per Frankl, questa dimensione trascende le altre due: se il corpo e la psiche possono essere limitati dalla malattia, la dimensione noetica conserva la possibilità di agire – per motivi spirituali, etici o artistici – nonostante le circostanze e i condizionamenti fisici/psichici, affermando così la dignità e unicità di ogni persona. Questa visione contrasta i riduzionismi che riconducono ogni aspetto della persona con disabilità alla sua patologia, perdendo di vista il soggetto nella sua totalità.
Infine, il terzo asse riguarda la ricerca del significato nel lavoro educativo, inteso non solo come mera applicazione di saperi o protocolli, ma come un cammino condiviso in cui senso, fiducia e possibilità di crescita sono costruiti insieme alla persona con disabilità. Anche di fronte a situazioni apparentemente “prive di senso”, in cui la presenza e l’intervento dell’educatore possono sembrare di utilità limitata (è il caso di utenti con disabilità grave, di famiglie molto complesse, di contesti lavorativi privi di risorse), è fondamentale per il professionista individuare il senso del proprio agire e accompagnare la persona con disabilità nella ricerca del proprio significato.
Dissipare il velo a partire dalla pratica quotidiana
Attraverso una riflessione ricca che intreccia dunque filosofia, pedagogia, letteratura ed esempi concreti derivanti dall’esperienza professionale, il libro di Pantrini fa emergere la complessità e la ricchezza delle situazioni quotidiane, offrendo al lettore strumenti di pensiero e stimoli per una pratica educativa più consapevole e umana. Ne deriva un testo denso e tuttavia accessibile, in cui la narrazione diventa strumento di mediazione tra la complessità teorica e l’esperienza quotidiana dell’educatore, chiamato a stare nella relazione con apertura, curiosità e disponibilità a lasciarsi trasformare tanto quanto a trasformare.
Questa impostazione si discosta da approcci più prescrittivi e “protocollari”, che rischiano di ridurre la persona a un insieme di bisogni da soddisfare. Al contrario, Pantrini insiste sull’incontro tra due soggettività e sull’importanza di non lasciare che la disabilità definisca interamente l’identità della persona. In un momento storico in cui la disabilità è spesso raccontata dai media e nel discorso pubblico in chiave eroica (si pensi agli atleti e alle atlete paralimpici e ai discorso attorno al “superare i propri limiti”) oppure in termini di deficit (le narrazioni che enfatizzano mancanze, barriere e costi sociali), il testo delinea uno spazio narrativo alternativo, che sprona a riconoscere e valorizzare le zone d’ombra, le contraddizioni e le sfumature che attraversano qualsiasi relazione, inclusa quella tra utente ed educatore.
Oltre il velo di Maya della disabilità è, in definitiva, un libro che parla di educazione ma anche di etica, di cura ma anche di filosofia della persona. Per chi lavora nel sociale, l’invito a dissipare preconcetti, etichette e paure per incontrare davvero la persona che si ha davanti è, in ultima analisi, un’occasione per trasformare i diritti e l’autodeterminazione normativamente sanciti in realtà ed esperienza concreta.