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A oltre tre anni dall’arrivo in Italia delle persone ucraine fuggite dalla guerra, rimane essenziale comprendere come le città abbiano organizzato accoglienza e sostegno, così da valorizzare le pratiche più efficaci e trasferirle in futuri contesti di crisi. Specialmente ora che si intravede il termine della Temporary Protection Directive e che il contesto politico europeo generale fa dubitare di un possibile rinnovo.

L’attivazione del meccanismo della protezione temporanea, prevista dalla Direttiva 2001/55/CE dell’Unione Europea e attivata per la prima volta solo nel 2022, ha consentito una risposta rapida e coordinata all’arrivo dei cittadini ucraini sui territori, garantendo accesso immediato ad alloggio, sanità, istruzione e lavoro, senza le lunghe procedure d’asilo. I titolari di protezione temporanea, secondo la normativa, possono spostarsi liberamente nell’Unione Europea, scegliendo il Paese di destinazione sulla base delle proprie reti sociali e aspettative. Spesso prediligendo la città. Soprattutto quelle in cui già vivevano comunità ucraine.

Uno studio di prossima pubblicazione analizza come alcune grandi città nel nostro Paese abbiano risposto all’arrivo di queste persone. Di seguito si propongono alcune evidenze che emergono da questa analisi.

Le città in prima linea

In Italia, le richieste di protezione si sono concentrate nelle aree dove la diaspora ucraina era già numerosa e radicata, come Milano, Napoli e Roma. Qui e in altri contesti urbani, legami familiari, reti di sostegno e opportunità occupazionali hanno agito da “magnete”, dimostrando anche come le infrastrutture sociali costruite nel tempo dalle comunità migranti possano trasformarsi in leve decisive per una gestione più umana e partecipata dell’accoglienza. 

Fin dai primi giorni di guerra, dunque, a gestire l’accoglienza degli sfollati sono state soprattutto le città, chiamate a organizzarsi in tempi rapidi per offrire supporto e coordinare attori diversi. Un nostro recente studio – non ancora pubblicato – “Italian Cities as Arenas of Collaborative Governance in the Ukrainian Emergency: What Role for Diasporic Communities?” analizza come le città di Milano, Napoli e Torino abbiano risposto a questa emergenza.

Le tre esperienze mostrano approcci diversi ma complementari, rivelando come la capacità di attivare sinergie tra istituzioni, Terzo Settore e comunità diasporiche possa fare la differenza tra una gestione frammentata e un vero e proprio modello di governance collaborativa.

Milano: una governance strutturata e multilivello

A Milano, la gestione dell’emergenza si è basata su un modello di governance solido e multilivello, capace di coordinare Comune, Terzo Settore e filantropia. Dopo l’invasione russa del febbraio 2022, l’amministrazione ha attivato il programma Milano Aiuta Ucraina, in collaborazione con la Fondazione di Comunità di Milano, per sostenere le reti di accoglienza diffuse che avevano spontaneamente ospitato la buona parte dei profughi.

L’iniziativa si è innestata sulla rete territoriale QuBì, promossa da Fondazione Cariplo contro la povertà infantile, riconvertita in infrastruttura di coordinamento per i nove municipi. Grazie a questa rete è stato possibile mappare i bisogni delle famiglie ucraine, attivare operatori sociali di quartiere e canalizzare oltre 1,2 milioni di euro di donazioni verso servizi di mediazione linguistica, sostegno psicologico e percorsi educativi.

La presenza di una diaspora ampia e organizzata, insieme a una forte leadership comunale, ha trasformato un’accoglienza inizialmente organizzata con una logica informale in un sistema integrato di welfare collaborativo.

Napoli: un welfare comunitario e di prossimità

La risposta alla crisi ucraina di Napoli ha mostrato la capacità del territorio di costruire solidarietà anche in un contesto caratterizzato da risorse scarse. Già prima dell’esplosione del conflitto, la città ospitava una delle comunità ucraine più numerose d’Italia – circa 20.000 persone, in gran parte donne impiegate nel lavoro domestico e di cura – che si è subito attivata per offrire ospitalità e sostegno ai nuovi arrivati.

Il Comune ha potuto contare su una rete consolidata di progetti FAMI, in particolare CHIC e Yalla, realizzati con Dedalus, ActionAid e altre organizzazioni del Terzo Settore. Queste collaborazioni hanno permesso di adattare rapidamente servizi già esistenti – sportelli legali, mediazione linguistica, supporto psicologico e inserimento scolastico – alle esigenze dei profughi ucraini. Le comunicazioni tra istituzioni e attori sociali si sono sviluppate anche attraverso canali informali, come gruppi WhatsApp tra funzionari, mediatori e associazioni.

Pur in assenza di grandi fondazioni o di risorse private paragonabili a quelle milanesi, Napoli ha dimostrato come un welfare di prossimità, fondato su fiducia e partecipazione comunitaria, possa generare buone politiche di accoglienza.

Torino: frammentazione e occasioni mancate

 A Torino, invece, la gestione dell’arrivo dei profughi ucraini ha evidenziato le criticità di un sistema frammentato, segnato da scarsa coordinazione e tensioni politiche tra governi locale e regionale. Pur avendo accolto circa 4.000 persone nei primi mesi, la città non ha potuto contare sul capitale sociale e politico di una diaspora strutturata – appena 990 residenti prima del 2022 – né su una regia comunale capace di integrare gli interventi.

Le iniziative del Comune di Torino, della Giunta regionale del Piemonte e delle Fondazioni di origine bancaria e non solo (tra cui Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Specchio dei Tempi e ENI Foundation) si sono mosse su “binari paralleli”, senza una strategia condivisa. Il progetto Spazio Comune, sostenuto da Unhcr e dall’Associazione Mosaico, ha rappresentato un raro punto di contatto operativo, offrendo mediazione linguistica e orientamento, ma non è riuscito a coordinare le molteplici risorse disponibili.

Il risultato è stato un mosaico di azioni isolate: significative sul piano umanitario, ma incapaci di evolvere in un sistema di governance collaborativa.

Cosa insegnano questi tre casi?

Dall’analisi tra le tre città emerge che le comunità di origine straniera, se riconosciute come veri attori di governance,possono fungere da ponte tra istituzioni e cittadini, rafforzando la coesione sociale.

Inoltre, il ruolo dei Comuni appare cruciale per la loro capacità di coordinare reti pubbliche, private e comunitarie; consente di trasformare risorse frammentate in risposte efficaci, e di costituire un punto di contatto affidabile per i vari attori della governance. Filantropia e Terzo Settore, invece, risultano determinanti solo se inseriti in strategie pubbliche condivise.

L’esperienza dell’accoglienza ucraina, in sintesi, dimostra che le città italiane possono essere dei veri e propri laboratori di welfare urbano, dove crisi ed emergenze si trasformano in occasioni di innovazione sociale. In questa prospettiva, la governance collaborativa incarna pienamente lo spirito del secondo welfare: un modello capace di unire istituzioni, società civile e diaspore per costruire comunità più inclusive e coese.

 

Foto di copertina: Daniele Franchi, unsplash.com