“Perché dobbiamo ancora parlare di parità di genere?”. È forse una delle domande più frequenti che si sente quando si affronta il tema, spesso seguita da affermazioni come: “siamo nel 2025, mica nel medioevo!”
Parlare di parità di genere oggi sembra un esercizio superfluo.
La sensazione è che, nel 2025 appunto, l’uguaglianza tra uomini e donne sia ormai un principio acquisito, formalmente riconosciuto dalle leggi, tutelato dalle istituzioni e pressoché condiviso dal senso comune. Mentre le donne votano, studiano, lavorano, guidano imprese e governi, gli uomini sembrano sempre più ricercare una partecipazione attiva nelle responsabilità di cura familiare. Anche il linguaggio è cambiato (e continua a evolvere) per rappresentare questa ritrovata sensibilità.
E quindi la domanda suona quasi come un paradosso: se tutto questo è vero, perché dobbiamo ancora parlare di parità di genere?
Un parità formale, ma non sostanziale
Nonostante gli incentivi europei e nazionali, persiste una significativa distanza tra uguaglianza “giuridica” (quella formalmente sancita dalla Costituzione, dai Trattati Europei, e dalle Convenzioni Internazionali) e uguaglianza “reale”, ossia quella che riscontriamo nella vita di tutti i giorni e nei dati concreti sull’occupazione femminile, sul gender pay gap e sulla segregazione occupazionale.
Nel 2024, il tasso di occupazione femminile in Italia è di circa 19 punti percentuali (pp) inferiore alla media europea, con poco più di una donna su due (57,4%) inserita nel mercato del lavoro. Nonostante un leggero miglioramento del trend occupazionale negli anni, 3 donne su 4 si dimettono a causa delle difficoltà riscontrate nel conciliare responsabilità di cura e vita lavorativa (da 74,7% nel 2023 a 77,5% nel 2024) (INL 2025).
Su ciò si innesta una sotto-rappresentazione delle donne non solo in alcuni settori economici (tradizionalmente più remunerativi, come le carriere STEM) ma anche ai vertici delle organizzazioni e, più in generale, della società – nonostante entrino nel mercato del lavoro con livelli di istruzione mediamente più alti dei loro colleghi. Non è un caso che l’Italia si collochi all’87° posto nella rilevazione del Global Gender Gap Report (WEF 2025) sui 147 Paesi analizzati, e al 35° posto tra i 40 che rientrano nell’area europea.
Una questione (non solo) di linguaggio
Il dibattito sulla lingua italiana non è mai stato così acceso come negli ultimi anni: l’utilizzo della schwa, dell’asterisco, di forme sia maschili che femminili e altri escamotage per contrastare l’utilizzo del maschile sovra-esteso sono forse i primi argomenti che ci vengono in mente quando parliamo di parità di genere. Perché?
Perché il linguaggio non si limita a descrivere passivamente la realtà, ma la plasma in modo attivo, dando forma a ciò che è pensabile, nominabile e riconoscibile.
Potremmo quindi parlare di quanto sia importante declinare al femminile le professioni al fine di rendere reale il riconoscimento della possibilità anche per le donne di intraprendere determinati percorsi di carriera che fino ad un recente passato erano loro preclusi: pensiamo, a tal proposito, che solo dal 19631una legge ha garantito alle donne il pieno accesso a tutte le professioni e cariche pubbliche.
Ma fare attenzione al linguaggio non significa solo questo. Significa puntare i riflettori su un grande assente dal dibattito sulla parità di genere tanto quanto sulla conciliazione: l’uomo.
Alcuni dati sul loro coinvolgimento fanno ben sperare: ad esempio, è positivo e in crescita il trend legato all’utilizzo del congedo di paternità, che è passato dal 19% degli aventi diritto nel 2013 al 64% del 2023 (l’abbiamo mostrato qui). Tuttavia, meno di un uomo su due (43%) considera insufficiente la possibilità di realizzare la conciliazione vita-lavoro (Legacoop, Ipsos 2024) (ne abbiamo parlato qui) e ancora meno (21,1% nel 2024) sono gli uomini/padri che si dimettono per motivazioni connesse con la cura della prole (INL 2025).
Il tema qual è? È che le politiche di genere o le misure di conciliazione hanno sempre un unico target di riferimento: le donne. Ovvio, dirà chi sottolinea come siano proprio le donne a far emergere maggiormente i propri bisogni di conciliazione. Tuttavia, così facendo addossiamo ancora una volta la responsabilità del cambiamento (oltre che della cura) sulle spalle delle donne e continuiamo a rimandare una riflessione altrettanto fondamentale: qual è (o quale dovrebbe/potrebbe essere) il ruolo degli uomini (e dei padri) nella promozione della parità di genere e, di conseguenza, nella conciliazione?
Il ruolo delle imprese: la sfida del welfare aziendale
Un discorso analogo possiamo farlo per ciò che riguarda il ruolo delle imprese. Alle imprese che ci chiedono “Perché dovrei investire sulla parità di genere?” non possiamo semplicemente rispondere “Perché ce lo chiede l’Europa” – o il PNRR. Sono ormai numerose le evidenze scientifiche che dimostrano come la riduzione delle disuguaglianze (di genere, ma non solo) sia associata non solo a un ambiente lavorativo più sicuro, ma anche a migliori performance economiche, a una maggiore capacità innovativa e a sistemi produttivi più resilienti.
In questa direzione, il welfare aziendale e le pratiche di conciliazione vita-lavoro in azienda possono essere delle leve utili alle organizzazioni per promuovere equità, inclusione e benessere. Vi possono essere tante strategie di welfare per favorire un cambiamento culturale e sostanziale nelle imprese. Da un lato è possibile organizzare dei corsi di formazione relativi alle tematiche della parità; oppure si possono attuare delle strategie di sensibilizzazione per approfondire le questioni del linguaggio e dell’equità dei ruoli tra i generi.
Possono poi essere messe in campo tante altre soluzioni di welfare volte a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di quelli lavorativi: si possono predisporre strumenti di flessibilità organizzativa e oraria, permessi extra legem e meccanismi per favorire il rientro al lavoro, smart working e nuovi modelli organizzativi che utilizzano la tecnologia per migliorare il work-life balance. Vi potrebbe poi essere la predisposizione di servizi per lavoratori e lavoratrici con figli (convenzioni con asili nido, dopo-scuole e pre-scuola, ludoteche, ecc), servizi di assistenza per dipendenti con genitori anziani (supporto sanitario domiciliare, acquisto di dispositivi medici, servizi di trasporto). Ma anche strumenti di sanità integrativa, legati, ad esempio, alla prevenzione legata al genere e al supporto psicologico di qualsiasi forma.
Il progetto CHECK
Questi e molti altri sono stati i temi al centro del percorso formativo che Percorsi di Secondo Welfare ha svolto con le imprese coinvolte in CHECk – Challenge Equality in Employment and Care, progetto2 finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma CERV che si propone di ridurre il divario di genere nell’occupazione in Italia, Spagna e Lituania incentivando pratiche di conciliazione tra vita lavorativa e vita privata, coinvolgendo attori pubblici e privati.
La formazione svolta da Percorsi di Secondo Welfare nell’ambito di CHECk ha riguardato più di 35 imprese3, che hanno partecipato coinvolgendo, oltre ai e alle dipendenti, anche manager HR e responsabili decisionali che si occupano di lavoratori e lavoratrici. A partire da settembre, ci sono stati 8 momenti di confronto e scambio, da 6 ore ciascuno, in cui si sono alternate lezioni frontali e attività laboratoriali. L’obiettivo è stato quello di far acquisire le competenze di base per progettare azioni volte a promuovere una partecipazione equilibrata di donne e uomini al mercato del lavoro, la parità di condizioni di lavoro e, più in generale, migliorare il benessere delle persone.
Per favorire il cambiamento nelle organizzazioni, il percorso formativo si è concluso con la stesura da parte dei manager di un piano di azione contenente le strategie e gli interventi per il benessere e l’uguaglianza di genere in azienda.
In questo modo, anche grazie all’azione di Percorsi di Secondo Welfare, si è puntato a incentivare attivamente l’innovazione organizzativa delle realtà che hanno partecipato. Con la speranza che la domanda “perché dobbiamo ancora parlare di parità di genere?” abbia trovato risposte utili a guidare gli interventi delle imprese. E abbia permesso di immaginare iniziative – di welfare aziendale, e non solo – che, oltre alle parole, portino con loro anche i fatti sulla parità di genere.
Note
- Legge 9 febbraio 1963, n. 66. Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni. (GU Serie Generale n.48 del 19-02-1963)
- Capofila dell’iniziativa è Fondazione Albero della Vita mentre Percorsi di secondo welfare è partner scientifico. Gli altri partner sono Diversity Development Group (Lituania), Fondazione Sodalitas (Italia) e Fondazione Surt (Spagna); sono inoltre coinvolte in qualità di partner associati quattro autorità locali: Regione Lombardia, Comune di Milano, ATS Milano e l’Amministrazione del Municipio della Città di Vilnius.
- Le imprese coinvolte sono state: ACF – Actuator Fluid Control, Aims International Italia, Ametek, Arteria, Betoncablo, Bird & Bird Società tra Avvocati, Development Engineering Automation, Eidosmedia, Fedabo, GEA, Gestio Performace, Gibaplast, ISMO, Kriptia, Lee Wrangler Italy, Movi, Pink Frogs Cosmetics, Pusterla 1880, Q Print, Sangalli, Security Trust, SG Advisory, Sidonio, Sierra Italy, Simky, Sinergie, Sintex, Stampytal, Uniesse Novachem, Value Services Spa.