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Questo articolo è uscito sul numero 2/2023 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio.

L’industria della moda rappresenta uno dei settori più inquinanti al mondo rispetto alle emissioni di CO2. Secondo l’Agenzia europea dell’Ambiente, nel 2020 il consumo medio di prodotti tessili per persona nell’UE ha richiesto 400 mq di terreno, 391 kg di materie prime, 9 m³ di acqua e ha causato un’impronta di carbonio di circa 270 kg. Si calcola che questo settore sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio e che produca rifiuti per oltre 92 milioni di tonnellate l’anno.

Inoltre, si stima che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari: il lavaggio di indumenti sintetici rappresenta il 35% del rilascio di microplastiche primarie nell’ambiente. Il fast fashion, facendo largo uso del poliestere, si basa proprio sulla produzione rapida – fast – di capi sintetici: prodotti a basso costo, sempre alla moda e di tendenza, che diventano rapidamente un rifiuto.

Secondo il report Textile Exchange Preferred Fiber and Materials Market del 2021, con una produzione annua di circa 57 milioni di tonnellate, pari a circa il 52% della produzione mondiale di fibre nel 2020, il poliestere è la fibra più utilizzata al mondo. Il rischio che ne deriva è che attraverso il lavaggio in lavatrice degli abiti realizzati con questo materiale si aumenti la presenza di microplastiche nei mari. Microplastiche che vengono ingerite dagli animali marini e finiscono poi sulle nostre tavole, con gravi conseguenze per la salute, l’ambiente e gli ecosistemi.

I costi del fast fashion

Magliette a 5 euro, pantaloni a 20 euro e maglioncini a 30 euro: come è possibile mantenere questi prezzi e continuare a fare profitto? Rinunciando a qualcosa. Se un prodotto costa oggettivamente troppo poco, è perché il suo prezzo non è solo monetario. E il prezzo del fast fashion è altissimo, non solo in termini di impatto sull’ambiente, ma anche dal punto di vista dell’impatto sociale ed economico.

Il fast fashion rappresenta un settore in crescita, il cui valore di mercato globale è stato stimato nel 2022 in oltre 106 miliardi di dollari e si prevede che continuerà a crescere nei prossimi anni, aumentando il suo già altissimo impatto sull’ambiente e sulle persone.

La raccomandazione dell’Unione Europea per l’economia sociale

 

Un fenomeno che ha spinto l’Unione Europea ad affrontare la questione nell’ambito del piano d’azione per l’economia circolare sollecitando una maggiore sostenibilità del settore moda e chiedendo il rispetto dei diritti umani, sociali, del lavoro e dell’ambiente nella produzione di abiti e tessuti. Un tema ampio che richiede un ripensamento generale del settore e la definizione di nuove strategie per ridurre al minimo l’impatto ambientale delle imprese di settore.

Un’alternativa è possibile

Un’alternativa al sistema del fast fashion, però, è possibile. Ne è la prova Francesca Mitolo, fashion designer e fondatrice di teeshare, un progetto di unione tra moda responsabile e arte, lontano dall’idea di serialità propria del fast fashion. Francesca ha lavorato dal 1999 presso studi stilistici in Italia e Spagna seguendo la ricerca tendenze, scelta tessuti e sviluppo collezione per brand sportswear principalmente donna, finché nel 2013 non ha deciso di dare vita al suo progetto di moda sostenibile.

Francesca, cosa ti ha spinta a cercare un’alternativa al fast fashion?

Nella mia esperienza come consulente in Spagna ho avuto la fortuna di lavorare a lungo per un marchio con produzione locale. Proprio in quel periodo ho iniziato a pensare di fare qualcosa, unire tutte le mie esperienze lavorative e personali, accendere una luce per far vedere anche agli altri i meccanismi sempre più distorti del fast fashion.

Mi sono autofinanziata e da gennaio 2013 ho ideato il progetto teeshare, un connubio tra arte e moda responsabile. Teeshare nasce dal desiderio di creare una controtendenza alle migrazioni produttive all’estero, dall’idea di avere un prodotto fatto in Italia che metta al centro le persone, riconoscendone l’importanza e il valore

Quali sono state le sfide principali nel creare un brand di moda sostenibile come teeshare? Come le hai affrontate?

Sicuramente, avendo iniziato 10 anni fa circa, l’aspetto più complesso è stato quello di reperire dei materiali in linea con la mia filosofia progettuale e avere informazioni affidabili e puntuali per poter approfondire le mie competenze. Inoltre, sapevo fin da subito che non sarebbe stato immediato far comprendere alle persone che teeshare non voleva essere solo un brand, ma un progetto di cambiamento.

Ho affrontato tutto attraverso il dialogo con i fornitori e con i clienti attraverso lo storytelling anche per mezzo dei social network, collaborando con tante realtà diverse. Infine, mi sono messa in ascolto anche di me stessa: se c’è stato o c’è qualcosa che voglio realizzare e, durante il processo produttivo e di ricerca, emerge che non corrisponde ai miei valori, semplicemente scelgo di non farlo.

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Mi dicevi che teeshare “mette al centro le persone, riconoscendone l’importanza e il valore”: come si traduce nel concreto questa frase?

Scelgo di lavorare con laboratori italiani, cooperative, comunità, persone, pensionati, artigiani e amici. Collaboro con artisti, designer e realtà che condividono la filosofia teeshare. La filiera produttiva è trasparente: sul mio sito, ogni attore che partecipa al progetto viene menzionato ed è visibile a tutte e tutti. Cerco di far emergere attraverso la mia comunicazione il sapere e la bellezza dei fornitori con i quali scelgo di collaborare.

Come si realizza un prodotto davvero sostenibile?

La sostenibilità è un processo. Come tale, avrà sicuramente un inizio e si protrarrà nel tempo senza giungere mai al termine. E tutto questo in un percorso di costante miglioramento e con un approccio olistico che parte dal pensare anche al fine vita di un capo di abbigliamento, passando attraverso la scelta dei materiali fino ad arrivare alle persone che lo confezionano o creano e allo studio del messaggio da far arrivare a chi sceglie di acquistarlo.

Qual è il valore aggiunto che un progetto come teeshare può portare alle comunità?

Il mio impegno per la comunità si traduce in rén collective. Nel 2018 ho incontrato delle persone speciali, un gruppo di professionisti con i miei stessi valori, passioni e idee sulla moda. Insieme abbiamo fondato rén collective, un’associazione non-profit a supporto di brand, micro imprese, professionisti e studenti che vogliono integrare pratiche sostenibili nella propria attività o formazione.

Forniamo approfondimenti e informazioni costantemente aggiornate tramite il nostro magazine e i nostri canali social. Creiamo opportunità di network e tavole rotonde di settore tramite eventi fisici e online. Mettiamo la nostra conoscenza al servizio del settore pubblico inviando raccomandazioni e partecipando a consultazioni a livello nazionale e internazionale.

Un guardaroba aperto per chi cerca un nuovo impiego

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Da circa un anno ho rielaborato il progetto teeshare anche attraverso l’apertura di un laboratorio sperimentale di stampa artistica su carta e stoffa, si chiama PÖI ed è qui che voglio concentrare la mia visione di unione tra carta e tessile. Inoltre, vorrei proporre dei progetti moda solo se realmente utili: di vestiti ce ne sono fin troppi e se devo realizzarne altri ci deve essere una motivazione… sicuramente una collaborazione con qualche altra realtà, una moda pluralista che abbraccia tutte le peculiarità che ci circondano.

Con rén stiamo collaborando insieme a numerose realtà a MMR, un network di brand, aziende, produttori, associazioni e professionisti. MMR è una riunione di voci, storie ispiranti, buone pratiche, interrogativi, luoghi in cui il cambiamento è già iniziato. Abbiamo sempre creduto che il cambiamento cominci da una presa di coscienza e passi attraverso collaborazioni tra realtà affini: MMR risponde a un bisogno condiviso di far sentire all’unisono le esigenze di un settore frammentato.

Foto di copertina: Unsplash.com