5 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Come spesso abbiamo sottolineato, oltre ad essere rilevante sotto il profilo dell’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro, lo smart working rappresenta un’opportunità per promuovere un diverso modello di intendere ed organizzare il lavoro. Proprio per questa ragione, Luca Solari, Professore ordinario di Organizzazione aziendale presso l’Università degli Studi di Milano, in questo contributo evidenzia come il lavoro agile possa essere uno strumento strategico per le PA e, in particolare, per le Università italiane.


L’identità dell’università

L’università è un’organizzazione che è nata come comunità tra docenti e discenti allo scopo di favorire il trasferimento del sapere e farlo uscire da una visione monadica. Nel suo modello originario convive l’idea che il suo purpose abbia a che fare con il sapere e che il sapere nasca da una relazione aperta e dialettica tra componenti diverse, ma interdipendenti. Vista in questa prospettiva, l’università è nativamente multistakeholder e pubblica nel senso di comunitaria.

Il suo modello originario tuttavia ha preso strade diverse in relazione all’emergere di un approccio all’organizzazione di grandissimo successo che ha colonizzato ogni istituzione, pur essendo nato nell’alveo delle prime imprese complesse del novecento, il taylor-fordismo. Le università oggi spaziano tra un modello esplicito di impresa (come ad esempio le grandi università americane e le università private in Italia), caratterizzato da processi decisionali e managerialità di stampo strumentale e una specializzazione di natura funzionale alla generazione di valore economico-finanziario, e un modello burocratico-amministrativo (tipico delle università pubbliche, soprattutto nelle tradizioni latine) caratterizzato dalla ritualità delle procedure e delle regole formali e da una specializzazione di natura disciplinare volta alla totale compliance con la norma, anche a prescindere dal suo vero significato o obiettivo.

Tra i due estremi delle università come istituzioni troviamo modelli ibridi che possono avere come oggetto la differenziazione tra cicli di higher education (ad esempio con un modello di impresa per i programmi Master e uno più istituzionale per i bachelor) o la differenziazione per utenza (come il caso della politica di differenziazione delle rette per gli studenti non comunitari messa in atto dagli atenei olandesi che tratta in logica di impresa quest’ultimi).

Il (vero) tramonto del taylor-fordismo è vicino?

Il taylor-fordismo è stato dato più volte per morto, ma è sempre rinato dalle sue ceneri. Una prima volta i sistemi socio-tecnici sembravano destinati a rivoluzionare la fabbrica integrata, poi è stata la volta del modello Toyota. Non dobbiamo stupirci, visto che la pervasività del modello taylor-fordista, dovuta certamente alla sua funzionalità, è ben descritta anche da Burawoy (1985) che lo identifica come elemento genotipico sia della fabbrica capitalista sia di quella comunista.

Ancora oggi la maggioranza delle organizzazioni è progettata e gestita secondo i dettami di quel modello, anche se temperati nel tempo da interventi istituzionali che hanno fornito un argine alla strutturazione e specializzazione di ogni attività di lavoro.

Nella mia personale traiettoria di ricerca volta a capire come conquistare nel mondo delle organizzazioni la libertà “pratica”, quella di tutti i giorni, quella del mondo della vita (lebenswelt), l’emergere dello smart working non è quindi semplicemente un oggetto di ricerca in astratto, ma un’opportunità che si apre ad un diverso modello di progettazione del lavoro e quindi, in un unico punto di contatto con le visioni marxiste della società, un possibile modello diverso di configurazione della società.

Lo smart working o lavoro agile, come preferisco chiamarlo, è un elemento di una transizione che non abbiamo ancora pienamente compreso ma che affonda le sue radici nella crisi dei modelli strutturati di derivazione weberiana e taylorista ancora largamente dominanti, fatti da un mix di confini, ruoli, standardizzazione, procedure, gerarchia e controllo. Questa “taylorizzazione” (unita all’assolutizzazione e astrazione dei principi burocratici dalla realtà pratica) è stata particolarmente evidente nell’evoluzione dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione in Italia e molto pervasiva e dannosa nelle università, la cui origine storica è essenzialmente comunitaria e ideale.

Il potenziale dello smart working per la trasformazione della PA

Se la particolare diffusione dello smart working nelle imprese può rispondere ad esigenze di isomorfismo rispetto ad un’evoluzione dei modelli di valore dei clienti che spingono per esempio verso una maggiore attenzione alla sostenibilità e all’innovazione, la sua introduzione nella PA (e cosa che per me più conta nelle università) apre alcuni interessanti opzioni di cambiamento.

Il primo problema è che il potenziale rivoluzionario dello smart working attraversa la lente della regolazione della PA che ne limita la portata. Un esempio è la direttiva n. 3 del 2017 che pone molta enfasi su «promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Anche se poi richiama altri temi come la valorizzazione delle risorse umane e la razionalizzazione delle risorse strumentali disponibili nell’ottica di una maggiore produttività ed efficienza, la responsabilizzazione del personale dirigente e non, la riprogettazione dello spazio di lavoro, la promozione e più ampia diffusione dell’utilizzo delle tecnologie digitali e il rafforzamento dei sistemi di misurazione e valutazione delle performance, sembra quasi che il focus sia l’agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Si tratta di una versione che prelude ad uno smart working che lascia inalterato il nucleo tecnico del lavoro e il modello di funzionamento organizzativo limitandosi ancora una volta ad inserire degli elementi volti a temperarne le conseguenze sulle persone.

In realtà, nessuna modifica dell’organizzazione del lavoro può prescindere da una visione e l’introduzione di qualsiasi tecnologia è caratterizzata da imbrication (Leonardi, 2011), ovvero intersecarsi di organizzazione e tecnologia. La tecnologia abilita nuovi comportamenti, ma il contesto organizzativo struttura queste potenzialità in modi inaspettati e a sua volta può scoprire nelle tecnologie nuove funzionalità d’uso non ipotizzate dagli stessi progettisti. L’organizzazione in questo senso è un sistema vitale che interagisce con la tecnologia e se ne appropria più che esserne influenzata in una logica puramente determinista.

Una smart university?

Viviamo in un mondo nel quale la tecnologia abilita forme di relazione sempre meno mediate (nel bene e nel male), quindi, qualsiasi scelta di smart working necessita di una trasformazione basata sulla centralità di ogni stakeholder (per le università e non solo, studenti, istituzioni, imprese, ecc.) e deve essere attivata parallelamente a tali trasformazioni pena la creazione di ambiguità che non può che risultare dannosa.

Il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche nel quale opero ha da tempo avviato riflessioni parallele ma convergenti per interpretare questo fenomeno, godendo della presenza di Percorsi di secondo welfare e del Laboratorio di ricerca Pathos (People and Technology for Human and Organizational Sustainability) e avendo la fortuna di non dover subire la pressione deterministica di chi in altri contesti affronta lo smart working con una visione riduttiva di stampo puramente tecnologico, grazie anche al supporto dei fornitori di queste tecnologie.

Su questa base, in un confronto nell’ambito della settimana dello smart working ho condiviso alcuni dei presupposti per un’introduzione virtuosa dello smart working nelle università (e a mio avviso più in generale nella Pubblica Amministrazione).

Che cosa serve dunque perché le università diventino davvero smart? In primo luogo, serve una buona organizzazione, nella quale il modello sia concentrato sugli stakeholder e la loro esperienza e non sui presidi e sulle articolazioni che sono l’eredità di un modello centralista (che purtroppo è ancora dominante e andrebbe messo in discussione con più coraggio). Lo smart working è una spinta verso l’essenziale, verso la riduzione di tutti quegli orpelli un po’ ritualistici che hanno riempito i nostri processi (ad evidenza non solo nella PA, peraltro…) per arrivare al senso reale delle azioni che mettiamo in campo.

Poi, servono buoni leader, responsabili che hanno una cultura della prestazione e del task e non del comando e controllo e che vedono lo smart working come l’occasione tutelata per mettere mano ad un modello di partecipazione e di condivisione meno monarchico, nel quale le differenziazioni dei contributi determinino lo status e il riconoscimento e non la tirannia della qualifica formale, spesso determinata da fattori differenti da quelli relativi al buon funzionamento organizzativo.

Infine, serve una cultura del risultato e non della procedura o dell’adempimento formale, una cultura che identifichi la misura come strumento di orientamento e non come giudizio, uscendo dall’accentuazione apparentemente mercatistica, ma in realtà puramente assolutistica dell’impianto di riforma voluto dal ministro Brunetta.

Se questo non riceve la giusta attenzione, rischiamo che lo smart working sia solo un po’ di telelavoro; che è meglio di niente, ma non rappresenta certo una trasformazione sostanziale per l’università.

Bibliografia

Burawoy, M. (1985), The politics of production: Factory regimes under capitalism and socialism, Verso Books.
Leonardi, P.M. (2011), When flexible routines meet flexible technologies: Affordance, constraint, and the imbrication of human and material agencies, in “MIS Quarterly”, 35(1), pp.147-167.