Vittorio Parsi è uno dei più noti e perspicaci studiosi italiani di relazioni internazionali. È anche ufficiale di riserva della marina militare. Non sorprende dunque che il suo ultimo libro s’intitoli Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale?. Peraltro l’autore ci racconta che una prima stesura del libro fu fatta durante una traversata sulla nave Vespucci da Montreal a Livorno nel 2017. Ossia fra le due sponde di quel Nord Atlantico intorno a cui furono poste le basi, nel corso del Novecento, dell’ordine liberale, appunto.

Affermazione e sviluppo dell’ordine liberale

Con questa espressione – comunemente usata in scienza politica – Parsi fa riferimento all’insieme di regole e istituzioni volte a stabilizzare il sistema internazionale e creare le condizioni per un corretto funzionamento dei mercati e della sovranità nazionale. Pace e sicurezza sono infatti necessari per favorire sia il “dolce commercio” (come lo chiamava Montesquieu) e dunque la prosperità, sia lo stato di diritto e la democrazia rappresentativa.

Lo zenit di questo ordine liberale si ebbe nel cosiddetto Trentennio Glorioso (1945-1975) quando, soprattutto in Europa occidentale, si realizzò un compromesso virtuoso tra liberalismo, socialdemocrazia e economia sociale di mercato all’interno degli Stati nazionali. Un compromesso alimentato e sorretto esternamente da una rete sempre più fitta di istituzioni multilaterali volte a limitare al massimo l’uso della forza e massimizzare invece quello della legge. L’aggettivo “liberale” sta proprio a indicare l’ambizione di sottoporre l’anarchia internazionale al governo del diritto internazionale, incentivando nello stesso tempo gli Stati al rispetto dei diritti umani.

Il delicato equilibrio fra mercati aperti, sovranità nazionale socialdemocratica e ordine internazionale liberale si ruppe durante gli anni Settanta del secolo scorso, sulla scia della crisi economica globale. Al suo posto è emerso un nuovo ordine che Parsi definisce neo-liberale, volto a spostare i pesi a favore dei mercati e del capitale. Ho sempre trovato l’etichetta “neo-liberale” piuttosto fuorviante. Ciò che con essa si vuole significare è infatti la crescente egemonia, a partire dagli anni Ottanta, di una particolare scuola di liberalismo economico, quella che fa capo soprattutto a Hayek. Una scuola secondo cui, appunto, la sfera del mercato deve essere quella che orienta tutte le altre sfere della società e che, soprattutto, deve disciplinare la sfera politica.

Meglio sarebbe (almeno in italiano) chiamare il nuovo regime instauratosi a partire dagli anni Ottanta “neo-liberista”. Altrimenti si rischia di svalutare anche il sostantivo – liberalismo, appunto – che nelle sue accezioni politiche, istituzionali e sociali faceva parte a pieno titolo dell’ordine precedente, quello dei Trenta Gloriosi, e che resta oggi una componente imprescindibile anche per progettare un nuovo ordine (che, non a caso, Michele Salvati propone di definire “liberalismo inclusivo”).

Il neo-liberismo e l’aumento delle disuguaglianze

L’ordine neo-liberista ha avuto innanzitutto una dimensione interna: ha scardinato il modello economico e sociale noto come embedded capitalism (un capitalismo sottoposto a regole e affiancato da politiche sociali) attraverso strategie di de-regolazione e abolizione delle barriere alla concorrenza e al libero movimento. In questo modo si è ribaltato il rapporto fra mercato e democrazia: quest’ultima ha dovuto rispettare crescenti i vincoli del capitalismo e diventare “conforme al mercato”, anche quando creatore di diseguaglianze inique.

Come hanno mostrato i lavori di Branko Milanovic e Thomas Piketty, l’ultimo cinquantennio ha assistito ad una crescita senza precedenti della polarizzazione fra i redditi. La dimensione esterna dell’ordine neo-liberista ha invece prescritto lo smantellamento delle barriere al commercio, promuovendo una globalizzazione “spinta” dei mercati.

In questo nuovo contesto, aggiunge Parsi, si sono attivate anche altre dinamiche “destrutturanti”. L’ascesa dei populismi, in Europa e negli Stati Uniti. La deriva isolazionista dei questi ultimi, o comunque l’erosione della loro capacità di leadership mondiale. L’ascesa di potenze autoritarie come la Russia e soprattutto la Cina. La polverizzazione delle minacce di sicurezza, sulla scia del terrorismo jihadista. La crescente importanza di tecnocrazie sopranazionali o globali. Sotto il peso di questo fardello di sfide, il “vascello dell’Occidente” ha imboccato una rotta molto rischiosa, che l’ha infine portato a scontrarsi con un vero e proprio iceberg, ossia lo scoppio della pandemia di Covid.

Una nuova rotta per l’Occidente?

A differenza del vero Titanic, secondo Parsi il vascello galleggia ancora. Ma è severamente danneggiato.

Dunque è necessario rimetterlo in condizione di navigare, costruendo un nuovo ordine che ricostituisca, sotto nuove spoglie, l’equilibrio fra mercato, democrazia liberale e welfare a livello sia interno sia internazionale. Alla fine del libro, l’autore discute di people’s capitalism, di eguaglianza di capacità (e non solo di reddito), di una nuova UE che stabilizzi e costruisca sul piano NGEU (Next Generation EU, ndr), di nuove istituzioni internazionali. È difficile che gli Stati Uniti possano recuperare la loro “benevola” egemonia liberale. Ma il pericolo da scongiurare è che possa instaurarsi una nuova egemonia globale cinese, fondata sul modello di un capitalismo “dall’alto”, senza stato di diritto, democrazia e con pochissimo welfare.

Il libro si conclude con un’ultima metafora marinara: una nave è il suo equipaggio, ciò che davvero conta è la qualità della componente umana. Che non si esaurisce nelle competenze, ma comprende anche i valori, la capacità di scegliere una rotta per convinzione e non solo per interesse. Forse, mentre era a bordo della Vespucci, Parsi si è riletto anche po’ di Weber. Il libro si chiude infatti con un appello agli intellettuali e agli scienziati sociali perché forniscano nuove chiavi di lettura, nuove spiegazioni, nuovi quadri teorici. La magnitudine della crisi pandemica ci mette di fronte a una discontinuità di portata epocale. È in questi momenti, diceva Weber, che le idee, le “immagini del mondo” possono fare la differenza. Facendoci abbandonare la rotta del naufragio e aprendo, auspicabilmente, nuovi sentieri di prosperità e pace.

 


Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 3 luglio 2022 col titolo “C’è bisogno di Weber per salvare l’Occidente” ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.