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Il seguente articolo è ripreso integralmente dal numero 2/2020 di Rivista Solidea, pubblicazione curata dall’omonima Società di Mutuo Soccorso del Sociale e dedicata ai temi del lavoro, del welfare e della mutualità.

Nulla sarà come prima? E com’era “prima”? E dopo, come sarà? Nel periodo di lockdown e nelle fasi successive, la questione di genere, talvolta considerata un retaggio polveroso di un passato ormai superato, si è riproposta – nell’esperienza diretta delle donne – come una questione assolutamente attuale.

Sono emersi, infatti, tratti culturali radicati sul ruolo delle donne: pensiamo, per esempio, alla rapidità con cui i compiti di cura, educazione ed istruzione dei bambini sono usciti dallo spazio pubblico per rientrare in quello privato della famiglia – e all’interno di essa, spesso, alla cura prevalente delle donne –, a tutto il tema della composizione dei comitati vari per la gestione dell’emergenza, al rendersi ancora più evidente la fragilità della presenza delle donne nel mercato del lavoro. Queste criticità si innestano su tendenze pre-COVID e ci sollecitano a chiederci come potrebbe essere “il dopo”, nella doppia accezione di come temiamo potrebbe essere e come ci piacerebbe che fosse.

Accanto a questa riflessione, con la collaborazione della Rete NonunadimenoSiena e Atelier Vantaggio Donna, abbiamo voluto condividere anche alcuni pensieri ed emozioni a caldo scaturiti durante il periodo del lockdown. “Voci di donne” per aiutarci a leggere il tempo che stiamo attraversando. 


Com’era prima?

Ce lo dicono alcuni dati riferiti alla situazione italiana.

La vita delle donne e degli uomini:

  • il 22,1% delle donne ha un titolo di studio di livello universitario (il 16,5% degli uomini), ma le donne sono il 27% dei manager e guadagnano 14 Euro/h in meno rispetto ai colleghi uomini;
  • il 64% delle donne italiane frequenta i social, il 41% usa l’Internet banking;
  • il 97% delle donne e il 73% degli uomini si occupano quotidianamente della cura dei figli, l’81% delle donne e il 20% degli uomini di cucinare e/o dei lavori domestici;
  • l’età media del pensionamento per le donne è 58,4 anni, per gli uomini 57,8.

Il lavoro:

  • Il tasso di occupazione femminile è del 50,1%;
  • nel 2018 gli occupati part-time sono il 18,6% del totale; di questi oltre i 3/4 sono donne (32,4% del totale delle occupate). Il part-time è volontario per il 12,9% delle occupate, ma involontario per il 19,5%;
  • tra i lavoratori indipendenti, le donne rappresentano il 31,2% dei lavoratori autonomi, il 25,9% dei datori di lavoro, il 39,1% dei dependent contractor (né dipendenti né autonomi, i più fragili).

Lo spazio domestico:

Nel 2017 sono state 43.467 le donne che si sono rivolte ai Centri Antiviolenza; di queste il 67,2% ha avviato un percorso di uscita dalla violenza, tra loro il 63,7% ha figli. Le straniere sono state il 27% di quelle prese in carico.

Con il diffondersi del COVID-19, tutti ci siamo trovati ad affrontare una situazione inedita: siamo stati riportati in casa, in noi e nelle nostre famiglie e relazioni, nel nostro modo di lavorare e di stare nelle comunità. Si sono affastellati eventi, processi, sensazioni disorganiche, lasciandoci in un presente preoccupante e in assenza di un futuro comprensibile.

La casa, spazio di rigenerazione, dell’intimità, della elaborazione, si è trasformata per molti e molte – soprattutto donne: il 60% che ha preso parte all’indagine IPSOS per WeWorld “Donne e cura in tempo di COVID-19”, ha dichiarato di aver dovuto gestire tutto da sola, in un luogo troppo angusto in cui soddisfare tutti i bisogni dei membri della famiglia e contenere tutte le dimensioni della vita, spesso senza riuscire a dedicarvi gli spazi fisici e mentali necessari: lavoro, didattica a distanza, cura dei figli e dei familiari non autosufficienti, cura del soddisfacimento dei bisogni quotidiani, cura della relazione con i distanti (familiari, amici, amori), cura della salute nel periodo in cui ambulatori ed ospedali erano off limits.

In alcuni casi la casa ha manifestato il volto duro della prigione e della solitudine estrema: tra il 1 marzo e il 16 aprile 2020 sono state 5.031 le telefonate valide al numero antiviolenza 1522, il 73% in più rispetto allo stesso periodo del 2019.

Nella citata indagine di IPSOS per WeWorld, il 71% del campione di donne di età tra i 31 e i 50 anni ha dichiarato di aver gestito da sola il carico familiare e l’85% di quelle tra i 18 e i 30 anni di rendersi cura dei propri bambini senza aiuto.

Il cortocircuito dello smart working

Lo smart working – praticato in questa fase di emergenza senza che ci fosse la possibilità di organizzarlo in modo da valorizzarne appieno il potenziale e gestirne le criticità – ha manifestato numerose opportunità: possibilità di esprimere una certa autonomia organizzativa nel gestire il proprio lavoro, eliminazione dei tempi e dei costi di spostamento, maggior tempo per sé, maggior tempo per le relazioni.

Ha anche reso evidenti, però, i rischi legati alla solitudine del lavoratore (il lavoro rappresenta la possibilità per molte donne di costruire una rete di relazioni extrafamiliari, rete – al bisogno – di supporto, costruita spesso attorno alla macchinetta del caffè o durante la pausa pranzo), alle dinamiche aziendali e comunicative non adeguatamente presidiate, alle condizioni ambientali che possono – se non gestite – condizionare pesantemente la prestazione lavorativa.

Il corto circuito per cui smart working = lavoro da casa = lavoro compatibile con il contemporaneo svolgimento di compiti di cura, ha mostrato tutti i propri limiti. I social, i racconti delle donne (e anche degli uomini) in questi mesi ci hanno segnalato, in modo di volta in volta umoristico o drammatico, la fatica di conciliare il lavoro da casa, il contemporaneo impegno in attività di cura – talvolta dolorosamente ridotta a sorveglianza dei piccoli mentre si tentava di lavorare -, il conflitto di priorità tra lavoratori, studenti, persone che volevano navigare o giocare online, nell’accesso alle risorse informatiche e di rete della casa.

Come diceva con frustrazione A.A., mamma di un bambino di 3 anni, «non riesco a lavorare come vorrei e non riesco ad occuparmi di lui come vorrei."


Le soluzioni non possono avere carattere organizzativo

L’esperienza vissuta in questi mesi ci segnala che le soluzioni per conciliare le molteplici sfere della vita delle persone non possono solo avere un carattere organizzativo, ma devono riflettere dimensioni di valore e di realizzazione, a partire dalla cura di sé, delle proprie relazioni significative, della realizzazione personale attraverso il lavoro, lo studio, la partecipazione alla vita delle comunità.

Devono riflettere – infine – il carattere politico e pubblico della cura, che rappresenta il modo di dare cittadinanza all’umano.

Molte le donne (e gli uomini) che hanno avuto cura delle persone, accompagnandole a stare dentro questa esperienza così inattesa e difficile, hanno svolto un prezioso lavoro di mediazione tra l’individuo e quanto stava succedendo, tra la casa, la città e il contesto in cui è inserita:

  • genitori che hanno accompagnato i loro figli piccoli nella gestione di questa esperienza particolare, svolgendo un ruolo di supporto, traduzione e rielaborazione non solo rispetto all’apprendimento (didattica a distanza), ma anche all’elaborazione del lutto per la lontananza dagli amici e dai compagni, alle ansie e preoccupazioni per il futuro;
  • familiari di fragili confinati in casa e ancora più sprofondati in un isolamento che facilmente si traduceva in senso di abbandono, che si sono trovati a spiegare quanto accadeva, a contrattare valvole di sfogo alla reclusione, a provare a costruire orizzonti di un futuro prossimo più vivibile;
  • lavoratori dei servizi sanitari e di assistenza che hanno accompagnato le persone nei momenti più critici e in un ordinario e quotidiano disorientamento, aiutandole a vivere e a comprendere un mutato contesto;
  • lavoratori degli esercizi commerciali e delle farmacie che sono diventati per molti – soprattutto persone sole – il luogo di ancoraggio ad una dimensione fisica della realtà, altrimenti confinata agli schermi dei device e della televisione: quante persone cercavano il contatto umano andando a fare la spesa o all’edicola e hanno trovato la cassiera (o il cassiere) che ha spiegato perché tenere la mascherina, o chiesto notizie su come stava andando;
  • insegnanti che – non tutti e non sempre, ma in larga parte sì – hanno cercato, attraverso lo schermo del computer, non solo di trasmettere nozioni ma anche di rielaborare quello che stava succedendo.

Preoccupa l’occupazione femminile nella fase post acuta del covid

Numerosi sono stati gli esempi e le pratiche di solidarietà corta spontanea e/o organizzata, che riportano al centro il tema dell’avere cura, farsi prossimo, spesso anche attraverso i piccoli gesti dello scambiare due chiacchiere dal balcone, dell’andare a prendersi il pane, della video-chiamata, del buttare un occhio al vicino anziano per rassicurare il figlio lontano…

Il ruolo delle donne è stato centrale: nei servizi sanitari, di assistenza, tra gli insegnanti, tra gli operatori del commercio a contatto con la clientela, la loro presenza è preponderante. Del ruolo nelle famiglie abbiamo già detto.

Tuttavia, questo si scontra con la scarsa presenza delle donne nei luoghi delle decisioni pubbliche e dei vari comitati scientifici (citiamo l’operazione Boycottmanels, avviata su Facebook da Patrizia Asproni, la Presidente di Confcultura, per il boicottaggio di seminari e convegni in cui i relatori sono solamente maschi) e con gli ulteriori rischi che l’occupazione femminile corre nella fase post acuta del COVID e negli incerti scenari dell’autunno.

Una cultura profondamente radicata emerge nella tendenza che vede gli uomini riprendere più velocemente il lavoro fuori casa, anche perché in molte aziende vi è scarsa comprensione per l’uomo che segnala l’intenzione di condividere i compiti di cura con la propria compagna. La combinazione di una cultura che continua ad assegnare al maschio la responsabilità del mantenimento della famiglia con la tendenza pubblica a demandare all’interno della vita familiare la gestione dei figli e dei non autosufficienti, espongono le donne ad essere spinte ai margini della vita economica e sociale.

Alcune avvisaglie ci sono già: in Piemonte il 60,3% dei lavoratori in Cassa Integrazione in Deroga è donna (dati aggiornati al 2 giugno 2020, fonte Regione Piemonte) e d’altra parte le donne sono in Italia largamente impiegate nei settori a maggiore contatto con il pubblico (commercio, turismo, cura della persona, servizi educativi), tra i settori che rischiano di essere più ampiamente investiti dagli esiti di una crisi economica.

Che siamo di fronte a preoccupazioni concrete, che richiedono scelte politiche urgenti, è testimoniato anche dalla mozione presentata in Senato – prima firmataria Valeria Conzatti – per chiedere al governo di predisporre un piano straordinario a sostegno ed incentivo dell’occupazione femminile, mozione approvata a metà maggio da un Senato in cui i Senatori uomini erano, peraltro, per lo più assenti.

Uno sguardo al futuro

Concludiamo con uno sguardo al futuro, delle donne e degli uomini, ed alcuni interrogativi:

  • una nuova consapevolezza sulle tematiche di genere potrebbe essere una delle opportunità da cogliere e coltivare, coinvolgendo le giovani generazioni che magari stentavano a riconoscerle proprie e che le stanno vivendo sulla propria pelle?
  • lo sviluppo delle competenze digitali può essere una delle opportunità di questo tempo per accedere a nuove informazioni, saperi, reti e per il coinvolgimento in attività lavorative nuove? Possiamo pensare alla creazione di comunità di pensiero tecnico, sociale, economico, pedagogico che sviluppino le competenze specifiche in un’ottica di attenzione al genere, alle specificità e al valore di ognuno?
  • infine, potrebbe essere questo il tempo in cui, forzati dall’esperienza della vulnerabilità di ciascuno, si sviluppa una cultura della cura come dimensione pubblica, strettamente connessa alla polis, tanto nel suo rivolgersi alla comunità quanto al singolo?