7 ' di lettura
Salva pagina in PDF

La rilevanza di quello che vari osservatori hanno definito welfare informale, o modello “migrante-in-famiglia”, per il soddisfacimento dei crescenti bisogni quotidiani di cura di un elevato numero di famiglie italiane è nota da tempo e non dà segno di esaurirsi.

Le radici di questo fenomeno sono da rintracciarsi, da un lato, nel quadro demografico-sanitario che rivela come nel nostro paese si viva sempre di più ma non meglio: secondo l’Istat, nel 2017 quasi un terzo degli over 65 (e quasi la metà degli over 75) hanno gravi difficoltà a svolgere almeno un’attività quotidiana di tipo domestico; circa un anziano su due soffre di almeno una malattia cronica grave o è multi-cronico.

Dall’altro, a fonte di bisogni crescenti, l’investimento pubblico in soluzioni di cura va contraendosi. Nel 2015, le risorse destinate dai Comuni alle politiche di welfare territoriale dedicate agli anziani sono inferiori del 5% a quelle disponibili nel 2005. Nel quinquennio 2010-2015 Istat osserva un calo della spesa per servizi residenziali di circa il 3% (in un quadro complessivo caratterizzato da un’estrema disomogeneità territoriale), mentre il tasso di anziani assistiti in regime di Assistenza Domiciliare Integrata è inferiore al 3% (e metà dei Comuni italiani non offre tale servizio). Al contempo, l’indennità di accompagnamento, misura nazionale erogata senza condizioni di reddito e senza vincoli sulla sua spesa, ha a sua volta contribuito a stimolare la nascita di un mercato in cui un numero crescente di famiglie acquistano servizi di cura, in larga misura offerti da donne di origine straniera. Se sempre Istat evidenzia come il bisogno di assistenza degli anziani con gravi difficoltà nelle attività di cura alla persona sia risolto, in oltre la metà dei casi, con l’aiuto di una persona del nucleo familiare, le risorse di cura interne alla famiglia vanno costantemente riducendosi, a causa del crescente numero di donne nel mercato del lavoro, e del ridotto numero di figli, che riducono lo stock dei caregiver familiari disponibili. Il persistente familismo italiano dunque, mostra segni di profonda trasformazione, e delinea un quadro in cui il ruolo svolto dalle donne migranti gioca un ruolo cruciale.

Alla luce di queste premesse, diventa dunque interessante analizzare alcune recenti tendenze sia sul piano della composizione etnico-nazionale dei lavoratori domestici che su quello delle politiche migratorie, che contribuiscono a modellare le caratteristiche dei lavoratori che possono accedere a tale forma di impiego così come le loro condizioni occupazionali. Questa riflessione prende le mosse da tre concetti che, nella riflessione sociologica contemporanea, hanno assunto un’importanza crescente nell’analisi del lavoro di cura straniero: l’intreccio tra regimi di genere, regimi di cura e regimi migratori.

Il termine "regime" si riferisce qui all’organizzazione e ai corrispondenti codici culturali della politica e delle pratiche sociali entro cui la relazione tra attori sociali, stato, mercato e famiglia è articolata e negoziata. In uno specifico regime di genere, l’organizzazione del lavoro domestico e di cura è vista come l’espressione di un copione culturale in cui compiti e responsabilità sono codificati come femminili o maschili. I regimi di cura, nel più ampio scenario dei regimi di welfare, concernono invece tutte quelle forme di regolazione pubblica che contribuiscono a generare una specifica allocazione di compiti e responsabilità di cura tra lo Stato e gli attori sociali. Questi includono l’importo ed il tipo di assistenza fornita (es. indennità assegni di cura, prestazioni in denaro, politiche fiscali, servizi…) da parte del pubblico, del volontariato o del settore privato, nel contesto di specifici discorsi nazionali e locali su ciò che costituisce l’assistenza appropriata e chi dovrebbe fornirla. Infine, i regimi migratori includono tutte quelle forme di regolazione che, in diverso modo, influenzano l’impiego di lavoratori domestici migranti: politiche di immigrazione che disciplinano l’ingresso, l’uscita e il regolamento e l’attribuzione dei diritti agli individui (e ai loro familiari), politiche antidiscriminatorie, di integrazione, e così via. Per alcuni esempi di studi che adottano tale quadro interpretativo si veda ad esempio: Bonizzoni (2014); Lutz & Palenga-Möllenbeck (2010); Williams & Gavanas (2008).

Recenti tendenze osservabili nel settore domestico e di cura: uno sguardo agli occupati nel settore

Il lavoro domestico e di cura rappresenta uno dei principali sbocchi occupazionali per le donne straniere in Italia e, al contempo, uno dei settori più fortemente segregati – sia in termini di genere che di origine etnico-nazionale – del mercato del lavoro italiano. Nel 2017, le donne rappresentavano infatti l’88,3% degli occupati e gli stranieri il 73,1%. Anche se tale pronunciata femminilizzazione ed etnicizzazione del comparto riflette una tendenza strutturale di lungo periodo (che ha avuto inizio attorno agli anni ’70 del secolo scorso), si osservano alcune sue recenti tendenze che ci invitano a leggere le possibili implicazioni di regimi migratori che, come si vedrà, sono nel tempo diventati sempre più restrittivi.

Il primo dato che possiamo osservare riguarda il numero complessivo di occupati nel settore, con particolare riferimento alla nazionalità e alla specifica nicchia occupazionale (colf o assistenti domiciliari).


Figura 1. Occupati nel settore domestico per nazionalità (2007-2017)
Fonte: elaborazione su dati INPS, Osservatorio Nazionale Lavoratori domestici

 

Figura 2. Numero di occupati come colf e badanti
Fonte: elaborazione su dati INPS, Osservatorio Nazionale Lavoratori domestici


Dal 2012 – ultimo anno in cui si è osservato un picco, riconducibile, come già nel 2009, agli effetti (piuttosto contenuti) dell’ultimo programma di regolarizzazione di manodopera in condizione di irregolarità che è stato attuato in Italia – il numero di occupati nel settore domestico si contrae sensibilmente, passando da 1.011.356 a 864.526 unità. Mentre il numero di badanti mostra una moderata crescita (passando da 364.205 a 393.478 occupati) quello di colf cala sensibilmente (ritornando di fatto ai numeri pre-sanatoria).

Il secondo mutamento riguarda invece la composizione etnico-nazionale della forza lavoro. Innanzitutto, cresce costantemente la quota di italiani, rappresentando, nel 2017, il 27% del totale. Ciò può essere interpretato, con ogni probabilità, come l’effetto combinato della crisi economica che ha ampliato il numero di donne italiane che si sono mosse alla ricerca di un impiego nel settore, così come dei tassi di naturalizzazione crescente dei migranti nel nostro paese (oltre 200 mila solo nel 2016). Sia che si tratti di lavoratori nativi o di stranieri che hanno ormai alle spalle significativi percorsi di integrazione sul territorio, resta il fatto che la componente nazionale occupa una nicchia specifica e – sotto diversi aspetti – privilegiata del settore. Molto più numerosi tra le colf che tra le badanti, lavorano prevalentemente part-time e sono scarsamente rappresentati nel settore in co-residenza, come confermato dai dati Domina analizzati dalla Fondazione Leone Moressa (secondo cui l’incidenza dei lavoratori italiani è del 10%).
 

Figura 3. Ore settimanali per nazionalità
Fonte: elaborazione su dati INPS, Osservatorio Nazionale Lavoratori domestici


Politiche migratorie e lavoro di cura: divergenze e disallineamenti

L’andamento degli occupati riflette, come precedentemente accennato, uno stretto legame con il ruolo giocato dalle politiche migratorie che, negli anni, hanno mostrato un orientamento sempre più restrittivo nella misura in cui si è nel tempo ristretta – fino di fatto ad azzerarsi – l’opportunità, da un lato, dei lavoratori di origine straniera in condizione di irregolarità di ottenere un permesso per motivi di lavoro (tramite procedure di regolarizzazione) e, dall’altro, dei lavoratori stranieri di entrare legalmente in Italia con un visto per lavoro non-stagionale (tramite i decreti-flusso).

 

Figura 4. Flussi migratori, regolarizzazioni e richieste di asilo (1995-2016)  
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati Istat/Ministero dell’Interno.




Figura 5. Sbarchi sulle coste italiano e domande di asilo 
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati Istat/Ministero dell’Interno.

Tale approccio è da ricondursi, da un lato, alla crisi economica che ha avuto, complessivamente, un impatto profondo sui livelli di occupazione dei lavoratori stranieri – anche se il settore domestico e di cura ne ha risentito molto limitatamente. Dall’altro, si segnala (a partire dal 2011 con la cosiddetta “emergenza Nord Africa” e successivamente in seguito agli eventi in Siria e in Libia), un incremento negli sbarchi e nei flussi di migranti “umanitari”, riflesso nella costante crescita di domande d’asilo. Questi neo-arrivati trovano un difficile aggancio con la richiesta di manodopera in questo settore, trattandosi soprattutto di flussi composti da giovani migranti uomini, che dunque più difficilmente rispondono alle aspettative di genere associate al lavoro di cura che molte delle famiglie esprimono. Inoltre, la logica delle migrazioni umanitarie, in cui l’opportunità di acquisire uno status legale è determinata da specifiche valutazioni intorno alla condizione di vulnerabilità, mal si concilia con le specifiche esigenze del mercato del lavoro, come ben evidenzia il caso dei richiedenti asilo che, pur se regolarmente occupati, si trovano costretti a ricadere nell’irregolarità (e dunque alla perdita dell’impiego) qualora la propria domanda si trovasse ad essere respinta.

Riflessioni conclusive

In un quadro di costante accrescimento dei bisogni di cura, si osserva dunque una contrazione delle soluzioni di mercato, quantomeno sotto il profilo della forza lavoro contrattualizzata.

Quanto ciò segnali un’effettiva diminuzione degli occupati o, invece, un allargamento delle dimensioni del settore informale, come conseguenza, da un lato, di un’informalità scelta (a causa, ad esempio, delle minori capacità di spesa delle famiglie) o, dall’altro, di un’informalità subita a causa del significativo restringimento delle opportunità di regolarizzazione dei neo-arrivati (come spesso è, appunto, il caso delle lavoratrici di cura, specie se in co-residenza) è un interrogativo che rimane aperto ma meritevole di seria considerazione. In entrambi i casi, infatti, emergerebbero serie lacune nell’opportunità di trovare nel lavoro delle donne migranti una soluzione efficace, equa e sostenibile per i bisogni di cura della popolazione italiana. Come abbiamo visto, la crescente componente dei cittadini italiani nel settore non ha del resto le caratteristiche che lo rendono un’alternativa realisticamente praticabile, ribadendo la natura sostitutiva e complementare di questo specifico segmento di manodopera.

La “doppia crisi” (economica ed umanitaria) non ha certo giovato ad una ripresa del dibattito sulla regolazione delle migrazioni economiche. Le restrizioni che, su questo versante, sono state legittimate dal crescente tasso di disoccupazione straniera prima – e dai crescenti flussi di migranti umanitari poi – non hanno infatti tenuto conto delle specifiche caratteristiche del settore domestico: meno soggetto ai cicli economici ma anche regolato da aspettative di genere rispetto alla desiderabilità dei fornitori di cura segnato da forti resistenze al cambiamento. In un quadro di bisogni di cura crescenti e di regimi di cura stretti tra la diminuzione dei caregiver familiari da un lato e l’inadeguatezza della spesa pubblica dall’altro, la crisi negli equilibri della riproduzione sociale si gioca dunque attorno ad un tema – quello dei regimi migratori – attorno a cui è urgente (r)innovare la nostra capacità di definirne senso e prospettive.