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Il tema della non autosufficienza rappresenta una delle principali sfide di rinnovamento dei sistemi di welfare da più di un decennio. Questo non solo a livello europeo ma in particolare nel nostro Paese, che ha progressivamente provato a colmare il divario con i principali Stati membri. A partire dagli anni Duemila è stato registrato l’aumento, sebbene modesto in prospettiva comparata, di risorse dedicate a questo settore sia a livello nazionale (si pensi in particolare al Fondo per la non autosufficienza, istituito nel 2007) che a livello locale. E si è assistito a un ripensamento dell’insieme degli interventi rivolti alla non autosufficienza. Tuttavia questo sviluppo, per quanto apprezzabile, non è stato in grado di modificare in modo incisivo la fisionomia complessiva dell’assistenza agli anziani e ha subito una battuta di arresto a causa della crisi economica e sociale dell’ultimo decennio, crisi che ha riacceso – in generale – il dibattito su come promuovere un modello sociale in grado di conciliare coesione sociale, crescita economica e innovazione e, in particolare, ha rilanciato una riflessione su come intervenire nel campo dell’assistenza familiare e del lavoro di cura.

È in questo contesto e di fronte a sfide di questa portata che hanno progressivamente assunto (e sempre più assumeranno) grande importanza esperienze e progettualità che partono dal basso, che si sviluppano nei territori grazie a nuove forme di partnership tra soggetti pubblici e non pubblici, che si imperniano sull’investimento e sull’innovazione sociale per spostare il baricentro verso interventi rivolti alla promozione sociale e destinati a superare una logica rivolta solo alla protezione sociale (Maino 2015; 2017). Attività che hanno anche beneficiato delle risorse e dell’impegno del livello regionale, anche grazie ai fondi europei (attualmente attraverso la Programmazione POR FSE 2014-2020), puntando a promuovere il raccordo e l’integrazione tra servizi e tra quei settori di policy cruciali per rafforzare dinamiche di coesione sociale (politiche per l’invecchiamento attivo, politiche di LTCe domiciliarità, politiche del lavoro e di conciliazione, politiche di innovazione e sviluppo locale).

Assistenza familiare e lavoro di cura: di cosa parliamo?

A fronte del progressivo invecchiamento della popolazione, dei mutamenti della struttura familiare e delle conseguenze socio-economiche della crisi, il tema dei servizi di cura per gli anziani in condizioni di non autosufficienza è oggi una delle sfide più importanti a cui le società avanzate devono necessariamente trovare risposte sostenibili, mettendo al centro i soggetti fragili bisognosi di cura. La dovuta attenzione deve però essere garantita anche a chi offre il proprio lavoro nell’ambito della cura e dell’assistenza, attraverso la valorizzazione del ruolo di chi si prende cura – professionalmente o all’interno del proprio ambito familiare – di persone non autosufficienti. Il lavoro di cura non è quindi rilevante solo sul piano individuale, ma rappresenta un bene comune, che appartiene e arricchisce la società intera: la cura è una componente fondamentale del benessere dell’intera cittadinanza.

Per assistenza familiare si intende l’insieme delle prestazioni e dei servizi di cura che la famiglia assegna a una figura esterna (l’assistente familiare appunto, più spesso chiamato/a badante), per assicurare al proprio congiunto, fragile o non autosufficiente, un aiuto concreto nello svolgimento delle attività quotidiane, un supporto mirato ai bisogni di assistenza e un sostegno “relazionale” sotto forma di compagnia e/o sorveglianza. L’assistenza familiare consente ai figli (o a chi ha la responsabilità di cura nei confronti della persona non autosufficiente) di trovare un ragionevole equilibrio tra la gestione dei propri impegni lavorativi e familiari e il desiderio di prolungare la permanenza della persona anziana presso il proprio domicilio, rispondendo così all’aspettativa dell’anziano di preservare la sua autonomia, la continuità con le proprie abitudini e la vicinanza ai propri affetti. Consente anche di garantire all’anziano un aiuto qualificato e un’attenta vigilanza nell’arco della giornata e permette alla famiglia di gestire nel migliore dei modi possibili il periodo di attesa che precede l’ingresso in una struttura sanitaria o in una casa di riposo.

Nella generalità dei casi l’assistenza familiare si svolge presso l’abitazione dell’anziano. Tuttavia sono frequenti anche situazioni in cui è richiesta al di fuori del domicilio, come quando la persona non autosufficiente è ospite in una casa di riposo, è ricoverata in ospedale o in una residenza sanitaria, soggiorna in una località turistica o termale. Inoltre, l’assistenza familiare deve integrarsi con i servizi di assistenza domiciliare che la famiglia stabilisce in collaborazione con il Servizio socio-assistenziale fornito dal Comune di residenza. In questo caso gli/le assistenti domiciliari e l’assistente familiare svolgono mansioni differenti, ma condividono lo stesso progetto di cura.

Assistenza familiare e lavoro di cura “insistono” sulla figura dell’assistente familiare. Si tratta di una lavoratrice (meno frequentemente un lavoratore) che opera presso il domicilio della persona anziana – fragile, malata o non autosufficiente – per rivolgerle un servizio personalizzato di cura, di compagnia e di sorveglianza, così come è stato definito con la sua famiglia e, quando possibile, anche con la stessa persona assistita. L’assistente familiare quindi “entra in famiglia” per espletare quei compiti di accudimento dell’anziano che una volta erano ripartiti tra i membri della famiglia stessa e sostenuti quasi esclusivamente dalle donne (Solera 2012).

Per quanto riguarda il lavoro di cura professionale, nel 2016 in Italia sono stati registrati 866.747 lavoratori/trici domestici (Direzione Generale dell’Immigrazione e delle politiche di integrazione 2017). Si tratta di personale domestico assunto come colf (487.272 persone) e come assistente familiare (379.046). Secondo una stima dell’Istituto di Ricerca Sociale (IRS) sono però complessivamente 840.000 in Italia gli/le assistenti familiari: un numero, questo, che tiene conto degli/delle assistenti familiari regolari e irregolari (Laboratorio Politiche Sociali 2017). In coerenza con quanto avviene nel lavoro di cura non retribuito, sono le donne ad essere maggiormente impiegate nel lavoro domestico e di cura professionale (82,2%). Venendo all’origine, il 49,6% dei lavoratori domestici è di provenienza extracomunitaria e nel Nord-Ovest i lavoratori domestici stranieri superano addirittura la metà (60,2%) (Direzione Generale dell’Immigrazione e delle politiche di integrazione 2017).

L’assistente familiare è quindi, per lo più, una donna di origine immigrata, anche se negli ultimi tempi si osserva un maggior ricorso a donne connazionali. Si tratta in ogni caso di profili professionali molto diversi tra loro (Merotta 2016): per età (sia donne giovani che donne più mature); per formazione (alcune hanno concluso la scuola dell’obbligo, altre hanno conseguito un diploma o una laurea e altre ancora possiedono titoli di studio in campo sanitario); per esperienza lavorativa (da chi ha assistito un proprio familiare a chi è in grado di seguire casi più complessi, fino alle patologie legate alla demenza); per paese di provenienza, con bagagli culturali e linguistici diversi tra di loro e da quelli dell’assistito.

Si tratta quindi di una fetta di mercato fortemente segregata: nel lavoro domestico si concentrano in particolare donne e lavoratori stranieri, gruppi maggiormente esposti al rischio di povertà ed esclusione sociale (Cibinel 2016). Il lavoro dell’assistente familiare è anche esposto a una serie di rischi professionali legati al carico fisico e emotivo del lavoro di cura (Spanò 2006) e presenta alcune caratteristiche che lo rendono particolarmente impegnativo: un esempio su tutti è la convivenza, che determina il nascere di forti esigenze di conciliazione negli/nelle assistenti familiari (Alemani et al. 2016). Sono infine le condizioni di lavoro a destare preoccupazione: meno della metà degli/delle assistenti familiari è assunto con regolare contratto di lavoro. La restante parte si trova quindi a prestare il proprio lavoro in un contesto domestico senza alcuna tutela infortunistica e senza nessuna garanzia di rispetto dei diritti del lavoratore e della lavoratrice (giusta retribuzione, riconoscimento della malattia, ferie e permessi).

Continuità assistenziale e integrazione socio-sanitaria

I profondi cambiamenti sociali intervenuti in questi anni, con le ricadute sull’organizzazione familiare e il progressivo allungamento della vita media, hanno sollecitato una crescente domanda di nuovi servizi a supporto del lavoro di cura e dell’invecchiamento e richiedono una grande attenzione in termini di continuità delle cure e integrazione tra servizi, in primis tra quelli socio-sanitari.

Le regioni hanno attivato nel corso degli anni diverse iniziative per favorire la continuità assistenziale delle persone anziane e/o non autosufficienti al fine di uniformare le modalità operative di gestione di pazienti ultra 65enni non autosufficienti. Sono state così messe a punto e approvate DGR che si basano su collaborazioni, sotto forma di protocolli d’intesa, tra ospedali e centrali operative attivate dai Distretti sanitari sui territori. Tali collaborazioni favoriscono l’attivazione di servizi e prestazioni che possano confluire in percorsi di tipo residenziale o domiciliare. Anche le ASL e i Comuni hanno lavorato nel corso degli anni per favorire l’integrazione sociale e socio-sanitaria nei loro territori. Tale sforzo si è concretizzato principalmente nell’istituzione di servizi rivolti a alcuni gruppi di utenti, tra cui gli anziani e le persone non autosufficienti. Il più importante e il più diffuso (sebbene presenti caratteristiche distintive da regione a regione) è lo Sportello/Punto/Centro Unico Socio-Sanitario, che rappresenta una porta d’accesso unica a tutti i servizi che implicano la collaborazione tra sociale e sanitario.

Dove presente tale sportello (generalmente collocato presso la sede del distretto della ASL) collabora con l’ospedale nel rientro a domicilio della persona non autosufficiente. Si rivolge però anche alle persone non autosufficienti non ricoverate. In entrambi i casi la persona o, più probabilmente, la sua famiglia si recano allo sportello per richiedere un accompagnamento. Tale accompagnamento è costruito sulle esigenze della persona a seguito di una valutazione effettuata dall’Unità di Valutazione Geriatrica (UVG), un’unità valutativa multidimensionale e multi-professionale. Al momento della richiesta la persona viene inserita in un percorso di valutazione che può esitare nella permanenza a domicilio oppure nel ricovero in residenze sanitarie assistenziali, centri diurni Alzheimer, ricovero di sollievo.Lo sportello raccoglie la documentazione necessaria anche grazie alla collaborazione con i Medici di Medicina Generale (MMG). La valutazione finale è il risultato di un’istruttoria insieme sanitaria e sociale. La prima è realizzata dal personale medico-infermieristico dell’UVG mentre la seconda è effettuata dal Comune competente e si compone di una valutazione della condizione sociale e della condizione economica del richiedente. L’UVG fa quindi un lavoro di ricomposizione delle istruttorie e attribuisce un livello di intensità assistenziale (normalmente espresso in un punteggio numerico) e eventualmente un carattere di urgenza.

Ci sono territori particolarmente attenti alla continuità assistenziale e a questo fine garantiscono l’attivazione dell’UVG quando la persona è ancora ricoverata. Tuttavia, nonostante le istruttorie avvengano prima delle dimissioni, il responso dell’UVG in genere arriva comunque diverse settimane dopo. Questa collaborazione tra territorio e ospedale contribuisce a accorciare i tempi di attesa ma purtroppo non riesce a fornire un aiuto tempestivo alle famiglie che si trovano così a dover gestire “da sole” il rientro a domicilio di un congiunto non più autosufficiente. A questo problema alcuni sportelli offrono risposta sviluppando servizi aggiuntivi, tra cui ad esempio la messa a disposizione di elenchi di persone che si rendono disponibili a lavorare come assistenti familiari.

Sportelli informativi: una presenza territoriale diffusa

I temi della non autosufficienza, dell’invecchiamento e dell’assistenza familiare non sono affrontati unicamente dai servizi sanitari. Gli enti locali e le ASL in molti casi attivano servizi territoriali, che sono oggi diffusi più o meno capillarmente in tutte le regioni. Questi servizi, spesso implementati nella forma di sportelli informativi, si rivolgono a utenze specifiche ma parimenti interessate dal tema della non autosufficienza e dell’assistenza familiare. Si tratta dei Servizi Informativi per anziani e stranieri e degli Sportelli Badante.

Il servizio/sportello informativo per gli anziani (spesso chiamato Spazio anziani) si rivolge alla popolazione ultra 65enne e svolge diverse funzioni: promuove e sostiene progettualità a favore degli anziani proposte dai servizi sociali territoriali e supporta l’area anziani di questi ultimi nella predisposizione dei progetti individuali e nella realizzazione di interventi e iniziative di sensibilizzazione; collabora con le ASL nella predisposizione di progetti specifici e di attività di integrazione e programmazione inter-istituzionali nell’ambito degli interventi per la non autosufficienza; gestisce servizi di emergenza rivolti agli anziani (sempre presenti o attivati periodicamente, ad esempio durante il periodo estivo); offre consulenza e assistenza rispetto ad alcuni servizi attivati localmente come la consegna del pasto a domicilio e il supporto economico alla domiciliarità; in alcuni territori gestisce, infine, l’accreditamento dei fornitori dei servizi domiciliari e dei Presidi per anziani e la relativa rendicontazione.

Alcuni territori hanno attivato anche lo “Sportello Badante” che, in sostituzione o in affiancamento al servizio informativo per gli anziani, offre consulenza rispetto al tema della non autosufficienza e dell’assistenza familiare. Alcuni Comuni attivano presso questo servizio anche piccole banche dati di assistenti familiari. Infine ci sono i servizi/sportelli informativi per gli stranieri che, similmente allo sportello informativo per gli anziani, si rivolgono alla popolazione di cittadinanza o origine straniera. Presso questi sportelli gli utenti possono trovare informazioni rispetto ai propri diritti e alle opportunità a cui hanno accesso. In alcuni Comuni questi servizi forniscono anche supporto nella ricerca del lavoro e collaborano con i servizi sociali territoriali e/o con il locale Centro per l’Impiego (CPI).


L’accesso ai servizi e la sfida dell’integrazione

L’accesso rappresenta una delle principali sfide per i servizi, in particolare per quelli che si rivolgono a persone e famiglie in difficoltà e a rischio di esclusione sociale. L’accesso al servizio è però solo una parte dell’architettura più ampia disegnata per supportare le persone nell’esercizio dei propri diritti e nell’utilizzo dei servizi disponibili. Un sistema di accompagnamento alla non autosufficienza e di promozione dell’assistenza familiare dovrebbe considerare l’integrazione socio-sanitaria e la continuità assistenziale come elementi fondamentali di qualsiasi intervento. La centralità dell’integrazione con i servizi sanitari è tanto più fondamentale se si prendono in considerazione le situazioni di emergenzialità, in cui le persone e le famiglie si trovano a dover affrontare una situazione di non autosufficienza imprevista e definitiva tendenzialmente a seguito di un ricovero ospedaliero. I servizi da coinvolgere per favorire una presa in carico integrata sono in particolare l’ospedale, in quanto coinvolto in percorsi di continuità assistenziale, le ASL e i MMG, che rappresentano i principali presidi sanitari a livello locale. Per questo è auspicabile favorire (eventualmente con incentivi anche di tipo economico) la complementarietà delle iniziative realizzate con i servizi sanitari. In particolare, al fine di sostenere le famiglie in situazione di emergenzialità, andrebbero sostenuti progetti che favoriscano una presa in carico precoce della persona e determinino un espletamento più rapido delle istanze burocratiche (ricorso allo Sportello Unico Socio-Sanitario, richiesta di invalidità civile, ecc.). In questo senso è importante sottolineare che alcune esperienze realizzate territorialmente hanno evidenziato come l’integrazione socio-sanitaria possa essere talvolta implementata con maggior facilità attraverso processi bottom-up e a partire proprio dall’attivazione del personale sanitario (Cibinel et al. 2017).

Accanto agli enti locali che, come abbiamo visto, si sono dotati di moltissimi servizi e sportelli rivolti a una o più porzioni di soggetti toccati dal tema complesso dell’assistenza familiare (sportelli informativi per stranieri e per anziani, punti di accoglienza per esigenze socio-sanitarie, ecc.) sono attivi a livello territoriale numerosi soggetti privati e del privato sociale. Un nuovo modello di intervento nell’ambito della non autosufficienza dovrebbe quindi puntare a sostenere iniziative miranti a favorire il collegamento e l’integrazione tra tutti i servizi e gli sportelli attivati da enti pubblici e privati, profit e non. In questo senso, all’interno dell’azione di integrazione, dovrebbe inoltre essere perseguito uno specifico obiettivo di ottimizzazione delle risorse e di superamento di sovrapposizioni tra servizi e interventi.

La questione dell’integrazione tra servizi e iniziative chiama quindi in causa il più ampio tema del coinvolgimento degli stakeholder. Il welfare attuale può trovare nel coinvolgimento di attori del secondo welfare nuove opportunità in termini di risorse e progettualità. Particolare attenzione deve essere rivolta innanzitutto a favorire il coinvolgimento nel nuovo sistema di Regione, enti locali e enti gestori delle funzioni socio-assistenziali, agenzie per il lavoro, CPI, soggetti del Terzo Settore che erogano servizi nell’ambito della cura e dell’assistenza. Devono però essere stimolati a partecipare ai nuovi interventi anche attori inediti come le fondazioni (di comunità, di origine bancaria, di partecipazione); le imprese (che potrebbero essere coinvolte ad esempio in azioni di promozione del welfare aziendale); i sindacati, fondamentali nella progettazione di iniziative di welfare contrattuale e territoriale; CAF e patronati, che possono fornire alle persone e alle famiglie un supporto qualificato in ambito burocratico e amministrativo; l’associazionismo, che rappresenta una ricchezza (sebbene non in maniera omogenea sul territorio nazionale) e può apportare contributi significativi all’implementazione di azioni rivolte agli/alle assistenti familiari e interventi di welfare comunitario.

Nel coinvolgimento di tutti questi attori un nuovo modello di governance multi-attore dovrà farsi garante della qualità delle iniziative proposte e dei soggetti coinvolti (che devono possedere competenze significative e, qualora ritenuto fondamentale per l’implementazione delle azioni, un forte radicamento territoriale); dovrà farsi garante della trasparenza dei processi intrapresi e promuovere una logica di co-progettazione e co-produzione; dovrà coinvolgere le reti informali e convogliarle in soluzioni che, oltre a rimanere alla portata dell’intera cittadinanza, sappiano garantire sostenibilità, qualità e integrazione (ad esempio attraverso il rimando a punti di riferimento locali come MMG e farmacie); dovrà infine investire sulla comunicazione coinvolgendo tutti i soggetti interessati affinché diventino a loro volta un canale di informazione, diffusione delle pratiche e dei servizi e promozione degli interventi.

Questo articolo è tratto dal Quaderno di Approfondimento "Le sfide della non autosufficienza. Spunti per un disegno organico per la copertura della non autosufficienza", curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali con il supporto scientifico di Assoprevidenza.