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I Regolamenti di amministrazione condivisa sono strumenti giuridici che disciplinando la collaborazioni tra i cittadini e enti locali per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni. Negli anni i regolamenti sono cresciuti in qualità e quantità, permettendo di dare concretezza al principio di sussidiarietà orizzontale in più luoghi. Ce ne siamo occupati nella nostra ultima inchiesta per Corriere Buone Notizie: di seguito trovate l’articolo con cui Paolo Riva contestualizza il tema; qui invece trovate il commento di Lorenzo Bandera sul ruolo di questi strumenti alla luce dei cambiamenti in atto nel welfare locale e della crisi pandemica.

Nonostante la pandemia, il 2020 può dirsi un anno positivo per l’amministrazione condivisa. I cittadini attivi, che in tutta Italia si prendono cura dei beni comuni, hanno affrontato tante difficoltà, ma hanno anche potuto contare su alcune buone notizie. Di fronte al Coronavirus, la sussidiarietà orizzontale non è arretrata e ora si appresta a compiere vent’anni in crescita.

Uno strumento in crescita

Il concetto, per il quale le istituzioni sono tenute a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini in attività di interesse generale, è entrato in Costituzione con la riforma del 2001. Secondo Daniela Ciaffi, vicepresidente di Labsus – Laboratorio per la sussidiarietà, “per molto tempo è rimasto confinato nei convegni dei giuristi”. Poi, nel 2014, anche grazie a Labsus, il Comune di Bologna ha approvato il primo regolamento per l’amministrazione condivisa in Italia ed il principio ha trovato concretezza.

Grazie a questo strumento giuridico, semplici cittadini e amministrazioni pubbliche possono stipulare patti di collaborazione in maniera agile ed efficace, con maggiori tutele e minore burocrazia. Come raccontato anche sullo scorso numero di Buone notizie, gli ambiti in cui intervenire sono molteplici e, riprende Ciaffi, “negli ultimi sette anni la crescita è stata verticale, entusiasmante”.

Se l’amministrazione condivisa fosse un computer, i regolamenti sarebbero l’hardware mentre i patti il software. Insieme, funzionano e, ad oggi, i Comuni italiani che li usano sono 247, tra cui molti capoluoghi. Il dato è in crescita e potrebbe aumentare ulteriormente nei prossimi anni, proprio per le buone notizie arrivate nel 2020.

Nuove opportunità, oltre la pandemia

La prima è la sentenza 131 della Corte costituzionale. Il pronunciamento, considerato storico per come ha definito i rapporti tra pubblica amministrazione e Terzo Settore, è significativo anche per un altro motivo.  “La sentenza – spiega il ricercatore di diritto costituzionale della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa Luca Gori – interpreta il principio di sussidiarietà orizzontale, ma si potrebbe ragionare che la Corte sia pronta a valorizzare l’amministrazione condivisa in tutte le sue manifestazioni giuridiche”. Anche quelle in cui a prendersi cura dei beni comuni sono cittadini singoli o riuniti in gruppi informali. Può sembrare un dettaglio giuridico e, invece, è un punto importante: in un periodo di crisi dei corpi intermedi come quello attuale, anche un verdetto come questo potrebbe incoraggiare comuni e cittadini a darsi da fare.

La seconda buona notizia è che “l’amministrazione condivisa è stata praticata durante l’emergenza” da Coronavirus. Lo sostiene il rapporto 2020 di Labsus. Nonostante la pandemia, le attività di molti patti di collaborazione sono proseguite e nuovi patti sono nati, soprattutto in tre ambiti: raccolta di beni, relazioni e spazi verdi.

“La scelta di configurare il funzionamento dell’ente locale in modalità collaborativa si è rivelata corretta: non avevamo bisogno di una pandemia per capirlo, ma sicuramente lo stress da questa generato è stato una prova preziosa per apprezzarne pienamente la portata”, ha scritto Donato Di Memmo, funzionario del Comune di Bologna tra gli artefici del regolamento del 2014.

Terzo Settore protagonista

Ma in questo quadro quale è il ruolo del Terzo Settore? “Da protagonista”, risponde Ciaffi. I numeri lo confermano: quasi il 35 per cento dei patti di collaborazione censiti coinvolge delle associazioni. Per la vicepresidente di Labsus, l’amministrazione condivisa non è una forma di concorrenza agli enti più strutturati quando un modo per non sprecare le tantissime energie della società civile.

In Toscana lo sanno bene. Qui, ogni capoluogo di provincia ha il suo regolamento per l’amministrazione condivisa e anche la Regione ha approvato un provvedimento in materia. Il merito è anche del Cesvot, il centro servizi per il volontariato regionale che dal 2015, sul tema, ha fatto un capillare lavoro di informazione, formazione e sperimentazione pratica.

“Con l’amministrazione condivisa, le organizzazioni di volontariato possono giocare un ruolo importante e incontrare i cittadini, soprattutto i più giovani che spesso faticano ad intercettare”, riflette Riccardo Andreini di Cesvot. “È una partita – conclude – in cui tutti possono vincere”. Ed è una partita che si gioca su un campo sempre più grande.

Nuove applicazioni per i patti

Di recente, gli oggetti dei patti di collaborazione sono diventati più complessi ed eterogenei. “Da un lato, si è passati dalla gestione di piccole aree verdi alla riqualificazione di interi edifici o quartieri. Dall’altro, ci si è cominciati ad occupare anche di beni immateriali, come la memoria condivisa o la cura delle relazioni”, racconta Luca Gori.

A Latina, per esempio, a novembre, il Comune ha firmato un patto con un gruppo di psicologi che organizzano attività gratuite per il benessere durante la pandemia. L’evoluzione è positiva, ma non priva di rischi, tra cui quello di snaturare l’amministrazione condivisa. Patti e regolamenti hanno avuto successo perché uniscono tutele e flessibilità e, conclude Daniela Ciaffi, perché “sono strumenti democratici, paritari e aperti a tutti”.

La sfida, ora, è fare in modo che rimangano tali.

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 30 marzo 2021 nell’ambito della collaborazione tra Secondo Welfare e Buone Notizie; è qui riprodotto previo consenso dell’autore.