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Fondazione Bracco, in collaborazione con Percorsi di secondo welfare, ha deciso di promuovere un ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa italiane coinvolgendo osservatori privilegiati, studiosi ed esperti di varie discipline. L’obiettivo, alla luce delle nuove e complesse sfide sociali sollevate dalla pandemia di Covid-19, è ragionare trasversalmente sul ruolo che le Corporate Foundations del nostro Paese stanno giocando e potranno giocare nel prossimo futuro, inserendo tali riflessioni in un una cornice analitica il più possibile ampia e articolata. A questo scopo abbiamo chiesto a Laura Orestano, esperta di innovazione sociale, CEO di SocialFare – primo Centro per l’Innovazione Sociale italiano – e CEO di Cottino Social Impact Campus, di aiutarci a capire in che modo la valutazione dell’impatto sociale può influenzare le scelte delle Fondazioni di impresa italiane.


Nella nostra ricerca il 70% delle fondazioni di impresa dichiara di effettuare attività di misurazione e quantificazione dei propri interventi. Tuttavia solo poche di esse fanno ricorso a metodi di misurazione e analisi sofisticati come la valutazione d’impatto sociale. Qual è la sua opinione su questo dato?

Lo scenario relativo alla valutazione dell’impatto sociale, in termini di know-how e applicazione pratica, si sta evolvendo in modo direi sostanziale tra le Fondazioni d’impresa. Nel senso che alcune di esse si stanno dotando di metodi sofisticati ed anche rigorosi di valutazione laddove una quantità ancora ragguardevole, appunto quel 70% citato, effettua una misurazione dei propri interventi iniziando però ad interrogarsi di più e in modo più consapevole su come la propria visione e azione possano generare un cambiamento a medio-lungo termine. Il passaggio che vedo interessante è proprio qui. La gran parte delle Fondazioni di impresa si sta ormai chiedendo in modo sempre più strutturato: qual è la nostra visione? Quale cambiamento intenzionale e addizionale vogliamo apportare? Come lo valutiamo e raccontiamo? Queste domande, laddove accompagnate da un approccio aperto ad innovare, strumenti agili e metodi di misurazione che aiutino davvero a fare emergere l’azione intenzionale della specifica fondazione, rappresentano un passo culturale concreto dalla teoria alla pratica del cambiamento.


Perché la valutazione dovrebbe diventare una prassi anche per queste organizzazioni filantropiche?

Risponderò non focalizzandomi sull’aspetto puramente quantitativo che il concetto di valutazione contiene ma raccordando lo stesso ad un aspetto che per le organizzazioni filantropiche dovrebbe venire logicamente prima e che sostanzia la prassi della valutazione come “racconto di comunità” laddove racconto, etimologicamente parlando, è un rafforzativo del verbo contare/computare/calcolare e conserva l’idea del comunicare, riportare calcolato: il racconto è una relazione che si esprime in modo sensato, ordinato, credibile. La valutazione dell’impatto è appunto la progettazione di questo racconto che per una Fondazione filantropica non può che essere fatto ex-ante insieme alle comunità coinvolte, seguendo il senso della visione condivisa e rendendolo credibile grazie alle evidenze generate. Aggiungerei che la valutazione, come racconto di comunità, è sempre in evoluzione e richiede una preparazione di comunità e non solo lato fondazioni. Tutto questo è azione di sviluppo culturale centrale per le organizzazioni filantropiche e quindi non può che essere loro prassi intrinseca e di comunità.


Come si possono aiutare le fondazioni a sviluppare metodi e competenze per migliorare il proprio impatto sociale?

Credo che le Fondazioni oggi possano giocare un ruolo di agenti del cambiamento in modo ancora più “radicale” di quanto non abbiano fatto negli ultimi anni. Siamo in una grande transizione culturale che può andare sprecata se non siamo in grado di strutturarci, prima di tutto in termini di analisi ed interpretazione. Sviluppare metodi e competenze per migliorare il proprio impatto sociale significa divenire prima di tutto learning communities, comunità di apprendimento al proprio interno per potersi fare volano di apprendimento all’esterno per i territori e con le comunità di riferimento; non credo al cambiamento senza nuova conoscenza aperta, ibrida e accessibile e la sfida della nuova conoscenza è una sfida prima di tutto del riconoscere e proiettare la nostra frontiera cognitiva e anche immaginativa del mondo che vogliamo costruire e del riconscer-si attraverso la sperimentazione puntuale di azioni coerenti con la visione e rilevanti per i più.

Quanto ritiene sia importante, anche alla luce dell’impatto che il Covid sta avendo e avrà sul nostro sistema sociale, un investimento in questo ambito? Perché, nonostante l’emergenza, la corporate philanthropy dovrebbe rafforzare la sua dimensione strategica?

L’impatto del Covid e la crisi ambientale ci spingono non solo ad aiutarci reciprocamente ma ad attivarci velocemente insieme: non abbiamo tempo sufficiente per fare scelte moderate. È il tempo di investire in modo importante nell’accelerazione della nostra conoscenza e la corporate philanthropy dovrebbe partire proprio da qui sviluppando scenari what if per i quali serve, appunto, nuova ispirazione, esposizione, sperimentazione, condivisione, narrazione. La dimensione strategica si deve basare su nuovo know-how: così la corporate philanthropy può divenire davvero fondazione di futuro.

 

 Questo contributo è parte del ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa nell’era del Covid-19, promosso da Fondazione Bracco insieme a Percorsi di secondo welfare.