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Fermarsi e riflettere sul proprio lavoro consulenziale, di formazione, di accompagnamento dei gruppi e delle organizzazioni, è importante per garantire e tutelare la libertà e la qualità dei processi partecipativi. Riflettere “significa piegarsi, curvarsi per guardare e quindi sostare su qualche cosa che si è incontrato” (Olivetti Manoukian 2023). Nell’ottica della ricerca-azione, la teoria e le conoscenze acquisite sul campo sono strettamente interconnesse tra loro: la teoria serve per intervenire sulla realtà e cambiarla, l’azione a sua volta arricchisce la conoscenza e la capacità di costruire quadri interpretativi che sostengono i processi di intervento nei contesti organizzativi e sociali. (Lewin 2005).

OPERA

Nel lavoro formativo e consulenziale esistono innumerevoli tecniche che facilitano la partecipazione delle persone e una di quelle che Pares utilizza si chiama OPERA (ne avevamo già parlato qui, ndr). Si tratta di una tecnica di partecipazione guidata messa a punto da Innotiimi-icg, società di consulenza europea che accompagna processi di innovazione organizzativa in imprese private, sociali e in istituzioni pubbliche (Maino 2016). OPERA è una sorta di focus group guidato volto a facilitare la riflessione individuale e il confronto collettivo su un tema o una questione definita e condivisa con/tra le persone che partecipano (Cau, Maino, 2016). Si parte da una domanda guida e viene chiesto alle persone coinvolte di considerare se la domanda è pertinente, chiara, esplicativa; se ciòè centra la questione che ci si propone di affrontare insieme, sulla quale avviare un confronto. Forse c’è qui una anticipazione del noi, si tratta, quello della definizione congiunta della domanda, di un momento di convergenza minimale e generale, quanto basta per poter ragionare e riflettere insieme. In fondo è un po’ come definire il campo di interesse e di indagine, si cerca di attivare un noi ancora embrionale, interlocutorio, necessario al lavoro di indagine che seguirà attraverso la tecnica.

Le lettere che compongono la parola OPERA corrispondono a cinque fasi, che segnano il passaggio graduale dal pensiero individuale ad una produzione collettiva (fig.1):

  1. Opinioni personali, gli apporti individuali costituiscono l’innesco di un confronto ragionato con altre persone;
  2. Pensieri in coppia o in trio, gli spunti individuali si arricchiscono e contaminano attraverso l’approfondimento intersoggettivo;
  3. Esposizione, si ascoltano le idee prodotte;
  4. Rilevanza, i gruppi votano le idee proposte;
  5. Aggregazione, insieme al gruppo in plenaria si aggregano le idee e i contributi per favorire l’emersione di un pensiero collettivo (Cau, Maino, 2016).
Figura 1. Cosa significa “OPERA”

In sintesi dunque le persone vengono sollecitate a rispondere individualmente ad una domanda guida che innesca idee, proposte, azioni concrete e sostenibili. Il successivo passaggio le vede coinvolte in una fase di condivisione ed elaborazione in coppia o in piccolo gruppo, fino ad arrivare all’esposizione, votazione e infine aggregazione e messa in ordine delle idee.

Nel processo di passaggio dall’io al noi è importante curare alcuni aspetti, affinché le persone che partecipano non vivano un’esperienza di perdita delle proprie idee ma piuttosto possa essere un’opportunità per incontrare l’alter. La figura che si occupa della facilitazione ha un ruolo cruciale nell’aiutare il gruppo a transitare verso una sintesi, frutto di un’elaborazione corale. Certamente scriverne è più semplice rispetto alla sua applicazione pratica sul campo ma questo è l’obiettivo verso cui proviamo a dirigerci, attraversando insieme il caos del reale che è una pluralità di pensieri, di idee, di esperienze, di osservazioni sulla realtà e sui contributi delle altre persone.

Ripensando alle esperienze sul campo proverò a fissare alcune variabili da attenzionare durante l’utilizzo di OPERA e non solo.

Il ruolo della mediazione

Chi facilita si trova a giocare un ruolo di mediazione in tutte le fasi della tecnica e soprattutto prova ad abilitare le persone che partecipano, affinché assumano esse stesse questo approccio. Si prova a creare un setting protetto (della cui importanza avevamo già parlato qui, ndr), fissando delle premesse iniziali che aiutino le persone a sospendere il giudizio e moderare eventuali conflitti. Questi ultimi, nell’immaginario collettivo, sono vissuti in maniera negativa e dolorosa ma in realtà il conflitto è intrinseco all’esperienza del vivere e rappresenta la norma statistica, non è qualcosa né di bene né di male in sé. Conflitto, dal latino “conflictus”, richiama il significato di “urtare, battere insieme” ed è proprio insieme che è possibile favorire l’emersione di soluzioni nuove, inedite e diverse (Castelli 1996).

Di-simmetrie generative

Proteggere e valorizzare le di-simmetrie dei saperi e delle conoscenze è vitale per tutelare le divergenze e la presa di parola da parte di tutte le persone che partecipano. Questo assunto si basa sul presupposto teorico che la diversità e la parzialità sono considerate delle risorse preziose da cui partire per co-costruire insieme nuove conoscenze (Wenger, 2006). In quest’ottica nessuna persona è esperta in modo incontrovertibile, nemmeno la persona professionista che si occupa della facilitazione, ma ciascuna è portatrice di conoscenze e competenze parziali che, mescolandosi nel gruppo, mettono in moto un potente motore generativo. Parlare di ricerca-azione piuttosto che di ricerca-intervento esprime proprio questa sottolineatura, per sollevare, in primo luogo la figura consulente e in secondo luogo il gruppo, da un compito insostenibile e precario: portare soluzioni salvifiche e risolvere situazioni rischiose (Brunod e Olivetti Manoukian 2008) e ricollocare nel gruppo di lavoro una responsabilità collettiva per il processo e gli esiti del confronto, della ricerca, della riflessione collettiva.

La co-conduzione

Strettamente connesso al punto precedente è il tema della co-conduzione. Le conduzioni di gruppi di lavoro possono essere singole o prevedere la presenza di due figure di conduzione (più raramente un numero maggiore). Nelle situazioni di co-conduzione, giocare due ruoli diversi nella facilitazione serve a mettere a disposizione e in scena saperi, conoscenze, competenze diverse. Si crea uno spazio di ascolto e confronto accessibile a tutte le persone, anche a coloro che si sentono “meno esperte”, in cui sentire di poter prendere parola senza timore di giudizio. Si protegge il fatto di dare voce a tutte e tutti e non solo a chi si dichiara apertamente e viene considerata una persona esperta sul tema. La co-conduzione innesca processi di empowerment individuale e a cascata sul gruppo, tenendo conto di tre fattori chiave:

  • il controllo, il sentimento di fiducia nelle proprie competenze;
  • la consapevolezza critica, che corrisponde alla capacità di comprendere la situazione in cui ci troviamo;
  • la partecipazione, che riguarda proprio l’azione e rappresenta il motore per il cambiamento (Santinello, Dallago, Vieno, 2009).

E senza ulteriori giri di parole essere in due è sempre meglio per la semplice regola che quattro occhi sono meglio di due nell’osservare, due teste sono meglio di una per pensare e ci si può aiutare nel facilitare i momenti di lavoro collegiali.

Dare spazio ma senza obbligare

Nel ruolo di facilitazione è importante garantire che tutte le persone abbiano uno spazio di parola, un tempo equilibrato senza prevaricazioni. Creare contesti e spazi per facilitare il confronto e la presa di parola è importante ma senza per questo obbligare tutte le persone a dover per forza intervenire. Ciò non significa che non si abbia nulla da dire ma semplicemente, a volte, si ha bisogno di un tempo più dilatato per pensarci sù. Rispetto a questa attenzione, OPERA è di aiuto: fissa da prima un tracciato di lavoro, dà spazio alla riflessione individuale, riserva del tempo al confronto a due o in piccolo gruppo, consente di ascoltare i pensieri delle altre persone, spinge a riconsiderarli attraverso la fase di sottolineatura (rilevanza).

Noi (= Ioⁿ)

La fase finale dell’aggregazione (il quinto step della tecnica) è il momento in cui al gruppo si chiede di provare a mettere ordine agli stimoli emersi dal lavoro in sottogruppi e che sono stati esposti e votati. Una fase molto delicata, che pesa inizialmente sulle spalle della figura di facilitazione perché le persone hanno bisogno di comprendere cosa gli stiamo chiedendo e in che modo vorremmo farlo. Dopo un iniziale silenzio osservativo, le persone si lasciano coinvolgere e propongono uno schema aggregativo. In questa fase è molto importante che le persone provino a mediare tra tutti i contributi emersi, assumendo una logica inclusiva e collaborativa, senza voler imporre la propria visione individuale.

La figura di facilitazione deve mettersi in una posizione di ascolto attivo, per tradurre e mediare le rappresentazioni, riportate dalle persone, con le persone. In particolare prestando particolare attenzione a non imporre o orientare troppo “la lettura della realtà, la configurazione delle problematiche”, sulla base di rappresentazioni che risentono della storia soggettiva, del ruolo professionale, della cultura della propria organizzazione di appartenenza (Marabini 2023).

Se gli elementi, affrontati nei punti precedenti, sono stati attenzionati, aumentano le probabilità che il risultato finale sia davvero espressione e sintesi di un Io che è diventato un Noi (= Ioⁿ). Ciò non significa che il risultato sia sempre garantito ma questo è quello verso cui proviamo a tendere. Una sintesi che sia qualcosa di più e di diverso della semplice somma dei singoli contributi, delle singole idee, riprendendo il principio fondamentale della Gestalt1. In queste occasioni si realizza qualcosa di simile ad un focus group, un gruppo di discussione guidata su un tema specifico e non si può parlare di gruppo in senso vero e proprio, perché vengono a mancare gli elementi centrali: il destino comune; la rete di ruoli interconnessi; il sentimento di appartenenza (Lewin 2005).

Il noi si lega piuttosto al risultato del lavoro, rappresenta l’esito della partecipazione delle persone in un tempo limitato: ad esempio cittadine e cittadini che hanno la possibilità di orientare le politiche pubbliche, al termine della tecnica il gruppo si scioglie con la promessa di consegnare il tutto alla pubblica amministrazione. In altri casi invece proprio a partire dall’esperienza casuale di partecipazione si costituiscono gruppi informali che proseguono il lavoro di ricomposizione e approfondimento con un’attività di scrittura e di ulteriore riconsiderazione in altri momenti che possono venire concordati.

Non solo momenti per fare ma momenti per stare

Per esplorare le dinamiche che si sono sviluppate nel corso del processo partecipativo sarebbe utile e interessante prevedere dei brevi momenti finali in cui chiedere direttamente alle persone: come si sono sentite, quali emozioni hanno provato, quali erano le attese, se sono riuscite a sperimentare in modo efficace logiche collaborative e di mediazione, come hanno percepito il passaggio progressivo dal lavoro individuale fino ad arrivare al gruppo in plenaria, in che modo hanno provato a confrontarsi sulle tematiche. La tecnica è intensa e se capiamo che la stanchezza è sopraggiunta potremmo pensare di utilizzare un brevissimo questionario online, che ci permetterà di fissare alcune questioni da affrontare nell’incontro successivo quando previsto. Se vogliamo creare uno spazio generativo dobbiamo prenderci cura di coloro che partecipano.

 

Questo contributo è parte del Focus tematico Collaborare e partecipare, che presenta idee, esperienze e proposte per riflettere sui temi della collaborazione e della partecipazione per facilitare cooperazione e coinvolgimento. Curato da Pares, il Focus è aperto a policy maker, community maker, agenti di sviluppo, imprenditori, attivisti e consulenti che vogliono condividere strumenti e apprendimenti, a partire da casi concreti. Qui sono consultabili tutti i contenuti del Focus.

 

Bibliografia

  • Brunod M., Olivetti Manoukian F., La ricerca-azione nelle organizzazioni in una prospettiva psicosociologica, in Colucci F. P., Colombo M., Montali L., (a cura di), La ricerca.intervento, pp. 147-172, il Mulino, Bologna, 2008.
  • Castelli S. (1996), La mediazione, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Cau M., Maino G. (2016), Kit per Progettare in Partnership, Non Profit Network – CSV Trentino, Trento.
  • Lewin K., (2005), La teoria, la ricerca, l’intervento, il Mulino, Bologna.
  • Maino G. (2023), La scrittura nella facilitazione delle comunità di pratica, Percorsi di secondo welfare, 23 marzo 2023.
  • Maino G. (2016), Come usare OPERA per partecipare, Mainograz, 9 dicembre 2016.
  • Marabini C., Agire con un approccio di comunità, in Camarlinghi R., d’Angella F. (a cura di), Il lavoro sociale in ottica di comunità, pp. 49-60, Animazione Sociale, Torino, 2023.
  • Olivetti Manoukian F., L’operatore sociale di comunità, in Camarlinghi R., d’Angella F. (a cura di), Il lavoro sociale in ottica di comunità, pp. 74-83, Animazione Sociale, Torino, 2023.
  • Santinello M., Dallago L., Vieno A. (2009), Fondamenti di psicologia di comunità, il Mulino, Bologna.
  • Wenger E. (2006), Comunità di pratica, Raffaello Cortina Editore, Milano.

 

 

Note

  1. La psicologia della Gestalt (dal tedesco Gestaltpsychologie, ‘psicologia della forma’ o ‘rappresentazione’) è una corrente psicologica incentrata sui temi della percezione e dell’esperienza. Nata e sviluppatasi agli inizi del XX secolo in Germania (nel periodo tra gli anni dieci e gli anni trenta), proseguì la sua articolazione negli Stati Uniti, territorio nel quale i suoi principali esponenti erano immigrati durante il periodo delle persecuzioni naziste. Continua a leggere su Wikipedia.