Il 22 novembre 1984, sulle pagine di Repubblica, Saverio Tutino1 lanciava un appello: “Avete un diario nel cassetto? Non lasciate che vada in pasto ai topi del Duemila. Cercate nelle soffitte e nei cassetti i cartelli d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini delle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vita”.
Quell’annuncio segnava la nascita dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che oggi custodisce oltre 10.600 storie di persone comuni. Nel 2013 quell’archivio si è trasformato in un luogo unico: il Piccolo Museo del Diario, dove le memorie individuali si intrecciano in un percorso multisensoriale che restituisce un racconto collettivo dal basso dell’Italia contemporanea.
“Chi entra lì si sente parte di un racconto, non si sente escluso”, spiega Natalia Cangi, direttrice dell’Archivio. Le storie raccolte – dai partigiani ai fascisti della Repubblica di Salò, dai migranti ai detenuti, dalle lettere d’amore ai biglietti delle Fosse Ardeatine – parlano a tutti, perché raccontano l’umanità. Il museo non è un luogo dell’abbandono, ma dell’ascolto, dove la memoria si fa bene comune, accessibile a storici, artisti, studiosi e cittadini, e capace di generare connessioni, senso e appartenenza. Un “vivaio della memoria”, come lo chiamava Tutino, uno specchio di ciò che siamo e un seme di ciò che potremmo diventare, ma anche volano per l’economia del territorio, tanto da valergli il soprannome di “paese dei diari”.
Quarant’anni fa, Tutino non poteva immaginare che esperienze come la sua avrebbero contribuito alla nascita di quello che oggi viene definito il welfare culturale.
La cultura come terapia
Come spiega il Cultural Welfare Center – un centro di competenza multidisciplinare sul rapporto cultura e salute – si tratta di “un modello integrato di promozione del benessere e della salute attraverso pratiche fondate su arti visive, performative e sul patrimonio culturale”.
Per la sociologa Roberta Paltrinieri, docente all’Università di Bologna, il welfare culturale si articola in due direzioni. La prima è salutogenica: la cultura come strumento terapeutico. “La partecipazione culturale può diventare una vera e propria prescrizione medica”, spiega. È il caso dei progetti di “art on prescription” nel Regno Unito o, in Italia, del progetto Custodire Memorie, avviato nella provincia di Bergamo.
Nato dalla collaborazione tra Accademia Carrara e il Centro Alzheimer di Gazzaniga, il progetto porta riproduzioni di opere d’arte all’interno del centro, accompagnate da stimoli sensoriali. I pazienti scelgono un’opera da un grande album e, con il supporto di terapisti ed educatori museali, iniziano un percorso di evocazione che dà voce a ricordi, sentimenti e frammenti di vita. L’opera d’arte non cura, ma accompagna; non guarisce, ma connette.
Nel tempo, il progetto si è esteso anche ai caregiver, con incontri nei musei per condividere esperienze e trovare sollievo. Seduti in cerchio davanti a uno o due dipinti, in un setting semplice ma potente, i partecipanti hanno potuto parlare di sé, conoscersi, creare legami. Per molti, il museo è diventato non solo un luogo di bellezza, ma uno spazio familiare.
“Molto spesso il museo è visto come un luogo d’élite”, racconta Lucia Cecio, responsabile dei servizi educativi della Carrara. “Qui diventa uno spazio in cui sentirsi accolti, ascoltati, non giudicati. Anche questo è benessere”.
Oggi 20 Rsa bergamasche ospitano riproduzioni d’arte per attività di arteterapia, e operatori formati da Ats Bergamo portano avanti il progetto in autonomia. Il museo si trasforma così in un servizio per le persone, capace di generare inclusione, appartenenza e nuova socialità. Le persone tornano, acquistano la card annuale, non solo per vedere una mostra, ma per sentirsi parte di una comunità.
La cultura per la trasformazione dei territori
La seconda direzione del welfare culturale guarda alla cultura come motore di trasformazione sociale e territoriale. In questa prospettiva, le persone diventano co-costruttori di significati e nuove narrazioni. Come spiega Paltrinieri, “in questa seconda accezione, il welfare culturale non è più destinato solo alle fragilità, ma alla comunità del suo complesso”. Dove c’è la partecipazione di tutti, per la sociologa, c’è più appartenenza e coesione sociale e questo favorisce la tenuta dei territori.
È stata la Convenzione di Faro del 2005 (ratificata in Italia nel 2020) a segnare un cambio di paradigma: il patrimonio culturale non è più solo delle istituzioni, ma delle comunità. In questa prospettiva, non è più centrale la distinzione tra pubblico e privato, né il possesso giuridico di un bene: ciò che conta è la relazione con il patrimonio, la possibilità di prendersene cura in modo condiviso. Come ricorda Paltrinieri, si parla sempre più spesso di comunità di patrimonio, gruppi di cittadini che si attivano per tutelare, valorizzare e far vivere luoghi culturali – spesso dimenticati – come piazze, ex spazi religiosi, siti archeologici o edifici storici restituiti all’uso pubblico.
Queste esperienze si concretizzano spesso in patti di collaborazione tra enti pubblici, fondazioni e Terzo Settore. La co-progettazione diventa uno strumento cruciale per costruire pratiche sostenibili e condivise e il patrimonio culturale non è più un oggetto da conservare, ma un terreno su cui gli abitanti di un luogo possono attivarsi.
In questo modo, il welfare culturale si inserisce nel solco del secondo welfare: un’integrazione dal basso del welfare pubblico, in grado di intercettare bisogni complessi come la solitudine, difficilmente affrontabili con gli strumenti tradizionali. E non è un caso che i ricercatori del Laboratorio Percorsi di secondo welfare facciano riferimento a queste dinamiche anche con il termine welfare socio-culturale, per rimarcare maggiormente l’impatto diretto che la cultura ha anche sul sistema di protezione sociale.
Come descrivono Roberta Paltrineri e Giacomo Manzoli nel libro “Welfare culturale: La dimensione della cultura nei processi di Welfare di Comunità”: “Ripensare al ruolo della cultura nell’ambito del welfare significa allontanarsi da un’ottica assistenziale, di risposta prestazionale o riparativa ai bisogni espressi. (…) I sistemi di welfare si devono preoccupare di proteggere, tutelare, far evolvere le capacità delle fasce più fragili. Al contempo, sempre più devono diventare strumenti di coesione sociale, intesa come leva di sviluppo essenziale nella prospettiva di mettere tutto il complesso della popolazione in condizione di esprimere al meglio le proprie capacità, competenze, modalità di espressione personale e professionale”.
Storia di una rigenerazione partecipata
Una comunità di patrimonio in azione è visibile nel cuore del centro storico di Genova. Il progetto Don Gallo e la città vecchia, realizzato dalla Comunità di San Benedetto al Porto insieme a Compagnia di San Paolo, ha dato vita a un interessante esperimento di welfare culturale partecipativo.
L’obiettivo era chiaro: trasformare un patrimonio documentale in una narrazione collettiva, capace di far autoaffermare una comunità e riqualificare un luogo cittadino. Per questo è nata una progettazione partecipata che ha coinvolto abitanti, associazioni, comitati di quartiere, commercianti e realtà LGBTQ+, storicamente legate a quel territorio e alla figura di Don Gallo2. Due tavoli di lavoro hanno guidato workshop, incontri pubblici e momenti di confronto per costruire un racconto capace di rappresentare la complessità del quartiere Prè e, al contempo, rilanciare i suoi valori fondativi: accoglienza, rispetto, lotta alle disuguaglianze.
Il cuore pulsante di questo progetto è Piazza Don Gallo, una piazza nata dalle macerie della guerra cui non era mai stato dato un nome che oggi è stata restituita alla città come spazio di memoria attiva. “Volevamo far vivere i contenuti di Don Gallo nella sua piazza, nel suo quartiere, dove ha lottato per anni per i diritti di tutti”, racconta Marco Malfatto della Comunità di San Benedetto. Qui, grazie a un’app interattiva collegata all’archivio, i contenuti raccolti – omelie, discorsi, fotografie – sono fruibili dai passanti e adattabili ai temi sociali più attuali, dalla pace alla giustizia sociale. Questo spazio urbano oggi è animato da eventi, assemblee, momenti di socialità e autogestione, che hanno portato anche alla nascita dell’associazione “Vicini dei Caruggi”.
Qui, la memoria non è più solo un’eredità da custodire, ma una risorsa viva che costruisce appartenenza e rende visibile una comunità che prima non lo era, tramite la voce di chi quei luoghi li abita ogni giorno.
L’importanza della memoria per l’autoaffermazione
Tutti i progetti descritti hanno un comune denominatore: la memoria.
Non come archivio statico, ma come processo di ricostruzione collettiva.
La memoria collettiva, sosteneva il filosofo francese Maurice Halbwachs, non è la somma di memorie individuali, ma un’elaborazione condivisa, costruita con narrazioni, simboli, rituali. È ciò che consente a una comunità di riconoscersi, rielaborare il passato e immaginare il futuro.
Per Paltrinieri la stessa “cultura si fonda ed è inscindibilmente legata alle dinamiche della memoria collettiva”, ma la memoria non è mai definitiva né scontata: è fragile, mutevole, va tenuta viva, riletta, negoziata. Il significato del 25 aprile, ad esempio, va continuamente rinnovato, raccontato alle nuove generazioni, adattato ai linguaggi di oggi, perché non perda forza o venga svuotato, ma allo stesso tempo si arricchisca di nuovi significati.
Il welfare culturale si muove proprio in questa direzione: trasforma la memoria in leva per costruire relazioni e favorire l’inclusione. Coinvolge chi c’era e chi è arrivato dopo, chi appartiene da sempre a un luogo e chi lo sta imparando ad abitare. In questo senso, la memoria non è solo ciò che si tramanda, ma ciò che si costruisce insieme, anche tra persone che non hanno condiviso le stesse storie.
Le digital library di Riverrun
“O le memorie, soprattutto quelle recenti, diventano uno strumento per creare relazioni, connessioni e processi inclusivi, oppure sono esercizi che non servono, che non ci danno significati”, ha scritto Ilda Curti, docente, formatrice e consulente su politiche comunitarie, sviluppo locale, politiche di rigenerazione urbana e integrazione, progettazione culturale. “Fare memoria senza porsi il problema del cambiamento significa cristallizzare le identità e le memorie di un luogo, di un territorio e di una comunità. Significa musealizzarle”.
Ed è proprio contro la musealizzazione statica delle memorie che si colloca il lavoro di Riverrun Ets, hub culturale che lavora su innovazione sociale e sviluppo locale attraverso pratiche artistiche e partecipative. Teatro, podcast, gamification, storytelling, arte relazionale: sono gli strumenti con cui l’organizzazione promuove progetti di welfare culturale ad alto impatto sociale.
Con la piattaforma digitale Memorabilia, Riverrun aiuta le comunità marginalizzate a costruire archivi digitali collettivi, raccogliendo e organizzando le memorie private degli abitanti. Lo scopo è contrastare la dispersione della memoria familiare e rafforzare l’autonarrazione di chi spesso non ha voce nei contesti ufficiali.
A Roma, Riverrun ha realizzato archivi partecipativi di comunità nei quartieri Tufello, Tor Marancia e Città Giardino, dove QR code in mosaico assemblati da bambini e ragazzi e disseminati sul territorio del quartiere permettono a chiunque di accedere ed esplorare i materiali degli archivi. Progetti simili sono in corso anche in altre regioni d’Italia, tra cui la Sardegna. Sono casi interessanti di welfare socio-culturale che racconteremo in prossimi articoli. Ogni abitante può inserire direttamente i propri materiali – lettere, foto, video – contribuendo a un “album di famiglia” pubblico, in continua evoluzione. Sono esperienze di welfare culturale che, non solo contrastano narrazioni stereotipate, ma rafforzano i legami sociali, riattivano creatività e offrono strumenti di autodeterminazione.
Come afferma Lorenzo Mori, ideatore e progettista culturale di Riverrun, “la vera opera non è l’archivio in sé, ma il processo che lo genera. La storia e la cultura locale non sono oggetti da conservare o vendere, ma pratiche vive che radicano relazioni, emozioni e desideri, che aiutano a elaborare paure collettive e a immaginare futuri condivisi”.
Attraverso archivi partecipati come quelli che Riverrun sta promuovendo, la memoria diventa bene comune e le comunità – anche quelle più fragili o periferiche – riscoprono la propria storia come strumento per immaginare un futuro diverso, più inclusivo, più giusto, più loro. Nelle prossime puntate di questa serie, che si chiama #MemorieAttive, vedremo come.
#MemorieAttiveQuesto è il primo articolo di #MemorieAttive, la serie su come il welfare socio-cultura possa essere motore di cambiamento, realizzata da Percorsi di secondo welfare per Riverrun . |
Note
- Saverio Tutino (1923–2011) fu partigiano, giornalista, scrittore. Studente a Milano, dopo l’8 settembre 1943 si rifugiò in Svizzera per sfuggire alla leva fascista. Lì aderì al Partito Comunista e organizzò il rientro clandestino in Italia per unirsi alla Resistenza. Con il nome di battaglia “Nerio”, combatté nelle formazioni garibaldine in Valle d’Aosta e nel Biellese, dove divenne commissario politico. Nel dopoguerra fu redattore del Politecnico, poi giornalista per Vie Nuove, l’Unità (da Parigi e L’Avana), e infine per la Repubblica, di cui fu tra i fondatori. Nel 1984 fondò a Pieve Santo Stefano l’Archivio diaristico nazionale, dando vita anche a un concorso annuale. Con Duccio Demetrio creò nel 1998 la Libera Università dell’Autobiografia.
- Don Andrea Gallo (Genova, 1928 – 2013) è stato un sacerdote genovese noto per il suo impegno a fianco degli ultimi, degli emarginati e delle persone escluse. Formatosi tra i Salesiani, lasciò la congregazione nel 1964 per entrare nella diocesi genovese, dopo contrasti legati al suo approccio educativo basato sulla fiducia e sull’autogestione. Cappellano al riformatorio Garaventa e poi viceparroco al Carmine, fu allontanato dalla Curia per le sue predicazioni radicali e per il suo attivismo sociale e politico. La sua parrocchia era diventata un punto di riferimento per giovani, militanti, persone emarginate, transgender. Nel 1970, dopo il suo trasferimento forzato, fondò la Comunità di San Benedetto al Porto, che divenne un simbolo di accoglienza, lotta per i diritti e azione concreta sul territorio.