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La scoperta di un modello meridionale 1

L’idea di raggruppare Italia, Spagna, Portogallo e Grecia in un unico “modello di welfare dell’Europa meridionale” è emersa negli anni Novanta, all’incrocio di tre dibattiti. Il primo ruotava attorno alla tipologia dei regimi di welfare di Esping-Andersen. Questa includeva solo l’Italia, come membro del regime conservatore-corporativo, sollecitando un interesse a inserire nella tipologia anche gli altri tre Paesi. Il secondo dibattito si concentrava sul processo di modernizzazione della “nuova Europa meridionale” dopo l’avvento della democrazia. Questo filone forniva molti spunti per comprendere la transizione e invitava a un’analisi più ravvicinata delle caratteristiche e del ruolo delle politiche sociali in questi Paesi. Il terzo dibattito, promosso dalla Commissione Europea dopo il Trattato di Maastricht, si focalizzava sulla diversità socioeconomica e sulla convergenza all’interno dell’UE. L’analisi di un nuovo set di dati quantitativi e qualitativi rivelò le specificità del cluster dell’Europa meridionale, accanto ad altri modelli regionali.

Sulla base di questi tre dibattiti, in un mio articolo del 1996 evidenziavo alcune caratteristiche comuni del “modello sud-europeo”:

  • un sistema di mantenimento del reddito frammentato e internamente polarizzato: prestazioni generose, soprattutto pensionistiche, per alcuni gruppi (ad esempio, dipendenti pubblici e lavoratori dei settori economici centrali) e sostegno debole per altri (autonomi, lavoratori irregolari, occupati nell’economia informale);
  • l’assenza di una rete di sicurezza di base, in particolare di uno schema nazionale di reddito minimo per individui e famiglie con risorse insufficienti;
  • sistemi sanitari universalistici: nonostante la frammentazione occupazionale nel mantenimento del reddito, i quattro Paesi avevano introdotto servizi sanitari nazionali con accesso libero e gratuito per tutti i cittadini, trattando dunque la salute come un diritto fondamentale;
  • un basso grado di “stateness”, cioè la vulnerabilità delle istituzioni di welfare alle pressioni partitiche, spesso con pratiche clientelari.

In quell’articolo sostenevo che questi quattro elementi costituivano una sindrome piuttosto coerente. Da una prospettiva di sviluppo, individuavo alcuni fattori come determinanti plausibili: la tardiva e incompleta formazione di un’economia moderna (debole fordismo); un forte familismo, sostenuto da una Chiesa forte e dalle sue norme di “sussidiarietà sociale”; un’eredità di polarizzazione ideologica; un’ampia competizione partitica basata sul patronato in un contesto di debolezza statale, soprattutto nelle aree arretrate.

Un ruolo meritevole di attenzione in questo contesto era giocato dalla divisione interna della Sinistra. In ambito sanitario, la comune determinazione a promuovere una copertura universale portò all’istituzione di servizi sanitari nazionali, considerate vittorie sugli interessi conservatore-corporativi. Tuttavia, nell’area delle prestazioni monetarie, in particolare le pensioni, le divisioni tra comunisti e socialisti, nonché tra sindacati massimalisti e riformisti, portarono a politiche dualiste: lotta per migliori benefici per i lavoratori industriali “core” e accettazione di sostegni più deboli, talvolta particolaristici, per i lavoratori marginali. Queste dinamiche contribuirono agli squilibri interni dei sistemi di protezione sociale.

La sindrome dell’Europa meridionale ebbe importanti implicazioni distributive. La vecchiaia risultava generalmente più protetta rispetto ad altri rischi del ciclo di vita. Inoltre, all’interno di ciascun rischio sociale, esisteva un forte divario di protezione tra “insider” e “outsider”. Questa “doppia distorsione” (funzionale e distributiva) produceva effetti visibili di ri-stratificazione, filtrati da età, genere, settore occupazionale e area di residenza.

Riforme e ricalibratura: un bilancio sostanziale

Questo quadro conobbe una trasformazione significativa nei quindici anni successivi. Una graduale ricalibratura interessò sia la struttura della spesa per il welfare sia il disegno istituzionale della protezione sociale, riducendo la frammentazione e rafforzando le politiche di inclusione. In questo scenario l’UE giocò un ruolo importante nel promuovere cambiamenti e convergenza verso standard comuni. Allo stesso tempo, le differenze interne alla regione – già visibili all’inizio degli anni Novanta tra Spagna e Portogallo da un lato, e Italia e Grecia dall’altro – aumentarono ulteriormente. Il modello sud-europeo si evolse in direzioni diverse, senza però cancellare le affinità di fondo tra i quattro Paesi.

La crisi dell’euro determinò un netto arretramento di questi trend. La divergenza tra l’Europa meridionale e i Paesi “core” dell’UE aumentò di nuovo. Le misure di ridimensionamento in Spagna e Portogallo (reddito minimo, assegni per figli, sanità) li riallinearono a Italia e Grecia. Dalla metà degli anni 2010, con la ripresa economica, la spesa sociale tornò a crescere, soprattutto in aree tradizionalmente trascurate – lotta alla povertà, prestazioni familiari, protezione dalla disoccupazione. Ancora una volta, i Paesi iberici mostrarono maggiore dinamismo rispetto a Italia e Grecia sul fronte degli investimenti sociali.

Successivamente, dopo la crisi del Covid-19, Next Generation EU fornì risorse e incentivi per una nuova fase di ricalibratura, questa volta dallo strumento monetario ai servizi sociali. I dati Eurostat mostrano una sensibile riduzione delle distorsioni funzionali e distributive. Soprattutto in Spagna e Portogallo, gli squilibri di genere si sono ridotti, in particolare nei livelli occupazionali. Tuttavia, la transizione all’economia dei servizi non ha superato la segmentazione del mercato del lavoro. L’espansione delle politiche attive e delle indennità di disoccupazione non ha raggiunto le nuove categorie di outsider, in particolare i giovani lavoratori precari e i Neet.

Dagli anni Novanta si è inoltre registrato un chiaro rafforzamento dello Stato e del suo apparato amministrativo. Oggi disponiamo di ampi dataset comparativi su patronato partitico, clientelismo e legami tra partiti ed elettori. Emergono due indicazioni: i sistemi politici dell’Europa meridionale mostrano ancora indicatori più negativi rispetto ai Paesi continentali e settentrionali, ma tali indicatori sono notevolmente migliorati rispetto all’inizio degli anni Novanta.

Il processo di europeizzazione ha quindi rafforzato le capacità istituzionali degli Stati meridionali, riducendo gli spazi per il patronato partitico. La tradizionale contrapposizione tra una sinistra massimalista, fortemente anticapitalista e anti-occidentale, da un lato, e una sinistra riformista e socialdemocratica, dall’altro, si è attenuata. L’universalismo del welfare è diventato un obiettivo condiviso, che la sinistra radicale lega a temi di rinnovamento democratico e riforma economica più ampia. Una sinistra divisa resta comunque una caratteristica comune dei Paesi dell’Europa meridionale. Allo stesso tempo, soprattutto in Italia, è emersa una nuova destra, caratterizzata da forti posizioni anti-immigrazione ed euroscettiche, e da una decisa difesa dei benefici degli insider.

La “policrisi” ha portato a una crescente “ibridazione” dei modelli di welfare regionali tradizionali in tutta Europa. Resta da capire se sia giunto il momento di abbandonare il modello sud-europeo come categoria analitica, o se sia ancora utile mantenerlo per cogliere persistenze (anche se mascherate) di affinità intra-regionali o di nuove somiglianze.

Il modello sud-europeo e l’analisi comparata: un bilancio teorico

Quando fu delineata, l’idea di un modello sud-europeo distinto ricevette numerosi commenti costruttivi e alcune critiche. Nella seconda metà degli anni Novanta, i “tre mondi” di Esping-Andersen erano al massimo dell’attenzione accademica. L’aggiunta di un quarto regime fu considerata marginale, se non fuorviante, rispetto alla classificazione mainstream. Eppure, il mio obiettivo non era mettere in discussione la famosa trilogia nella sua struttura analitica. Al contrario, volevo suggerire un’estensione potenzialmente fruttuosa a variazioni interne nei gradi di de-mercificazione/de-stratificazione (ad esempio le differenze di protezione tra rischi e gruppi sociali), alle caratteristiche dell’amministrazione del welfare oltre che alle formule di prestazione (ad esempio, il grado di “stateness”), o alla fornitura dei servizi sanitari – un dominio importante di de-mercificazione/de-stratificazione non considerato dalla operazionalizzazione originaria dei regimi di welfare.

La caratterizzazione del modello sud-europeo ha guadagnato crescente rilevanza nei dibattiti comparativi negli anni, ispirando nuove ricerche non solo nella regione dell’Europa meridionale, ma anche in altri contesti. È un peccato che la letteratura sui “modelli di welfare” non abbia colto appieno l’ampiezza euristica della mia proposta. Il tipo “mediterraneo” è ancora spesso considerato una forma “conservatrice” e clientelare di Stato Sociale, in una fase iniziale di sviluppo.

Il termine “modello” fu scelto in analogia con il dibattito scandinavo, ma risultava in parte fuorviante. Ciò che avevo in mente era piuttosto la nozione coniata da Francis Castles nel 1993 di “famiglie di nazioni” caratterizzate da profonde affinità: attributi culturali e istituzionali (idee, pratiche, principi giuridici, politiche) legati alla prossimità geografica e a un passato comune, come nel caso dei Paesi nordici. Più che una vera e propria affinità in senso castlesiano, l’Europa meridionale mostrava, a mio avviso, somiglianze o “somiglianze di famiglia”; una rassomiglianza sfuggente ma evidente quasi intuitivamente osservando i Paesi di quest’area. Nei dibattiti epistemologici, la somiglianza di famiglia è qualcosa di più di una semplice similarità superficiale tra fenomeni disgiunti: è l’espressione di una configurazione sottostante o di un principio ordinatore condiviso dai casi.

Le somiglianze di famiglia sono la materia prima di una ben nota procedura analitica delle scienze sociali: la costruzione di “tipi ideali”. Questi si formano attraverso l’estrazione di attributi da diversi casi storici che si assomigliano sotto una certa prospettiva (non solo il “welfareness” degli Stati meridionali, ma anche il loro grado di stateness nel fornire welfare). I tipi (e più in generale le categorie analitiche) sono costruzioni epistemiche legate a specifici interessi di ricerca. Sono costruzioni realistiche, radicate in un mondo sociale autonomo. Ma non sono mere immagini speculari di quel mondo secondo un modello di verità corrispondente: è il ricercatore o la ricercatrice che sceglie le somiglianze su cui concentrarsi, guardandole attraverso le lenti di un insieme di significati e valori culturali.

Una semplice lista di somiglianze osservate tra Paesi non basta per renderle degne di analisi comparativa. Per quest’ultima, occorre argomentare plausibilmente che quelle somiglianze costituiscano un insieme coerente riconducibile a un contesto antecedente distinto. Inoltre, va assunto (e poi mostrato) che tale insieme produca differenze nelle opportunità di vita delle persone e/o nelle dinamiche conflittuali e di trasformazione istituzionale. Con il senno di poi, credo che l’argomento sviluppato negli anni Novanta a sostegno di un tipo meridionale distinto di stato sociale abbia effettivamente rivelato somiglianze di famiglia interessanti e prima inosservate, con effetti sistemici teoricamente rilevanti nei quattro Paesi, riflettendo traiettorie di sviluppo simili e generando esiti distributivi analoghi.

Il diffuso riferimento alla nozione di “modello dell’Europa sud-europeo” come ispirazione per la ricerca sul welfare anche fuori dal contesto europeo è forse l’indicatore più significativo della fecondità scientifica di questa nozione. L’elevata frammentazione e polarizzazione interna del mantenimento del reddito (spesso accompagnata da una copertura sanitaria universale, come in Brasile o Corea del Sud), l’assenza o la debolezza della rete di sicurezza e la manipolazione clientelare delle prestazioni sono caratteristiche comuni della protezione sociale in vari Paesi del mondo in via di sviluppo. Nell’identificare e spiegarle, gli studiosi stanno traendo beneficio dal filone di ricerca sul modello sud-europeo, che si avvicina ormai al suo trentesimo compleanno.

Un’agenda di ricerca per il futuro

Dato l’innegabile fatto della ricalibratura (funzionale e distributiva), possiamo considerare “esaurito” il valore euristico del concetto di modello sud-europeo per i quattro Paesi per i quali fu originariamente elaborato? Gli Stati sociali di quest’area si sono “normalizzati”, superando i ritardi e le carenze storiche? Sono diventati parte integrante di una “famiglia” di Nazioni internamente differenziata, ma in ultima analisi unitaria, caratterizzata da combinazioni locali di un comune bacino di somiglianze di famiglia?

Possiamo proporre una risposta articolata. In primo luogo, negli ultimi trent’anni si è verificato un processo di “convergenza” tra gli Stati sociali europei attorno a un insieme di obiettivi e strumenti di politica sociale oggi formalmente riconosciuti, monitorati e sostenuti dall’UE. Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali e il Quadro di Convergenza Sociale ne sono i simboli più emblematici, i prodotti e i punti di riferimento. Esistono ancora variazioni nazionali, ma al di sopra di una soglia qualitativa e quantitativa comune. In questo senso, il valore euristico delle tipologie tradizionali – e dei criteri analitici su cui si basavano – è chiaramente diminuito. Un “turista marziano” in visita in Europa incontrerebbe probabilmente politiche sociali molto simili nei diversi Paesi, che si tratti di Spagna, Belgio o Finlandia.

In secondo luogo, tutti gli Stati sociali oggi affrontano sfide simili o addirittura comuni, sempre più filtrate dall’UE (transizioni verde e digitale, competizione sistemica con altre regioni del mondo, shock economici e finanziari, rischi catastrofici, ecc.). Anche qui, al di sopra di una soglia comune, possiamo ipotizzare che le eredità di sviluppo giochino ancora un ruolo, come ulteriori risorse o vincoli. In Europa meridionale, l’alto debito pubblico o l’invecchiamento demografico (due eredità di sviluppo, precisamente) costituiscono chiaramente un vincolo, mentre la forza delle solidarietà familiari (persistenti anche dopo la rivoluzione di genere) può rappresentare un asset per affrontare shock improvvisi a livello macro, meso e micro. Perfino la bassa “stateness” può aver lasciato in eredità dinamiche positive in termini di reti locali, capitale sociale e strategie di mobilitazione delle risorse a sostegno dello sviluppo economico (come suggerisce la letteratura sul “clientelismo virtuoso”).

Se questo è vero, allora l’agenda di ricerca sul modello sud-europeo è tutt’altro che esaurita. Essa non si limita ai resoconti retrospettivi di ricalibratura/normalizzazione, ma deve includere l’analisi dei vincoli persistenti e, soprattutto, delle nuove opportunità derivanti dalle traiettorie e dalle eredità di sviluppo. Questa nuova parte dell’agenda potrebbe rivelare dinamiche positive interessanti e controintuitive, ancora presenti accanto ad alcune vecchie caratteristiche. Potrebbe inoltre favorire un rinnovamento degli strumenti analitici e, non da ultimo, offrire preziose indicazioni per le politiche pubbliche, a livello nazionale, europeo e persino globale.

 

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Note

  1. Questa è la traduzione del testo in inglese usato durante il keynote speech alla Conferenza ESPAnet 2025.