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Da anni, in molte regioni italiane sono nate esperienze che, rispondendo all’emergenza migratoria, hanno risvegliato una nuova vitalità in luoghi che sembravano destinati all’abbandono. In questo articolo, pubblicato all’interno del numero 1/2019 di Rivista Solidea, rivista edita dall’omonima Società di Mutuo Soccorso, sono raccontate alcune esperienze di questi "territori accoglienti".

E se vi dicessimo che l’Italia è una vera e propria costellazione di “territori accoglienti”? Che da anni in Sicilia, Trentino, Lazio, Calabria, Toscana, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Campania sono in atto esperienze che, rispondendo all’emergenza migratoria, hanno risvegliato una nuova vitalità in luoghi che sembravano destinati all’abbandono?

È tutto vero. Documentato. E la prova è in una rete di organizzazioni del Terzo Settore che, di fronte all’arrivo sui loro territori di richiedenti asilo, rifugiati e detentori di varie forme di protezione internazionale hanno sperimentato soluzioni inedite, dando vita a luoghi che prima non esistevano e che, una volta strutturati, sono stati in grado di generare nuove opportunità.

Magari trovando soluzioni inedite di housing sociale, rigenerando spazi ed edifici; ma anche rilanciando professioni sull’orlo dell’estinzione, recuperando economie e risorse inutilizzate; dando vita a forme innovative di inclusione sociale e lavorativa con un forte impatto sull’economia locale. Nel novembre scorso, l’Università di Trento ha ospitato un workshop dedicato ai territori accoglienti italiani, per approfondire le esperienze più virtuose attualmente in corso.

Ora, quelle stesse buone pratiche sono state raccolte all’interno di un Libro Bianco e presentate a Montecitorio, al presidente della Camera Roberto Fico, nel mese di gennaio. Ne abbiamo parlato con Giulia Galera, ricercatrice dell’EURICSE, tra i promotori dell’evento, e curatrice del Libro Bianco.


Il vostro studio si è concentrato su trentun esperienze di “buone pratiche di organizzazione dell’accoglienza”, tutte caratterizzate da un preciso modo di intervenire su aree anche molto diverse del nostro Paese, al Nord, al Centro e al Sud. Se volessimo però costruire una “carta identità” di queste esperienze, per provare a definire un filo rosso riconoscibile in ciascuna di esse, quali elementi dovrebbero essere messi in evidenza?

In prima battuta direi che tutte le esperienze che abbiamo incontrato e studiato nascono e si sviluppano in territori dove sono presenti organizzazioni del Terzo Settore attive anche in altri ambiti e soprattutto ad alta partecipazione. Per queste organizzazioni è stata fondamentale l’attenzione alle potenzialità delle risorse del territorio: non si possono avviare percorsi di accoglienza senza avere presente le risorse tangibili e intangibili che possono essere attivate.

E poi occorre fare rete, lavorare in collaborazione con più soggetti del mondo profit e non profit e coinvolgere una vitale base di volontari. Quando un territorio può contare sulla partecipazione attiva dei cittadini, beh siamo già a metà dell’opera!


Però l’accoglienza dei migranti è un tema scomodo: spesso crea divisioni, disagi e non è facile per cittadini che già vivono situazioni di fragilità accettare di mettersi in gioco, incontrare modelli culturali diversi.

Certamente. E non bisogna mai trascurare di ascoltare i bisogni espressi dalla cittadinanza. Però, se si riescono ad attivare percorsi collettivi in cui l’accoglienza può essere uno stimolo per rispondere insieme anche ad alcune esigenze del territorio, l’intera operazione acquista un significato e un valore del tutto diverso per la comunità.

Si tratta, cioè, di pensare di fornire servizi rivolti a tutti i cittadini, senza creare un welfare dell’accoglienza e basta. In questo modo i luoghi dell’accoglienza diventano luoghi di incontro e creazione di opportunità. Come è accaduto per tutte le realtà che abbiamo incontrato.

E poi, altro passaggio fondamentale, occorre attivarsi per fare in modo di favorire l’autonomia delle persone che vengono accolte, in modo da valorizzarne le risorse. Solo in questo modo si può disinnescare la loro dipendenza dal sistema e lavorare per una reale inclusione che passa necessariamente anche attraverso il lavoro.

Due esempi di azione rigeneratrice sul territorio: le esperienze di PAC EFUTURO e RISE HUB

L’associazione PACEFUTURO ha base a Pettinengo, in provincia di Biella. Il contesto sociale in cui si muove è delicato: fino a pochi anni fa il territorio era caratterizzato dalla presenza di lunga data dell’industria tessile legata ai maglifici, adesso le opportunità lavorative si sono drasticamente ridotte e il territorio è a rischio di spopolamento. Dal 2006, l’associazione gestisce Villa Piazzo a Pettinengo, dimora storica di metà Ottocento, e dal 2014 inizia a dare accoglienza, in convenzione con la Prefettura di Biella, a un gruppo di richiedenti protezione internazionale inserendoli nel progetto di valorizzazione della sentieristica e dei manufatti architettonici rurali, contribuendo così al recupero dei percorsi che portavano ai lanifici.

L’associazione RISE HUB ha sede, invece, a Valle di Comino, in provincia di Frosinone. Nasce spontaneamente nel 2015 su iniziativa di un gruppo trasversale di ragazzi giovani e adulti con un obiettivo preciso: promuovere un progetto di inclusione a favore di tutti gli abitanti, migranti e non. Il progetto mira a creare una connessione tra giovani disoccupati, migranti, rifugiati e richiedenti asilo del territorio con istituzioni locali e imprese private che lavorano nei settori dell’agricoltura e organizzazioni di Terzo Settore.

Giulia Galera, come hanno reagito i territori alle politiche di accoglienza attivate da PAC EFUTURO e RISE HUB?

In entrambi i casi, l’arrivo di nuovi abitanti in territori fragili e soggetti a spopolamento, ha innescato processi di innovazione sociale. In particolare, la comunità ha sperimentato che l’accoglienza poteva essere uno dei tasselli per far ripartire lo sviluppo locale.

Pacefuturo, ad esempio, puntando al raggiungimento dell’autonomia dei migranti ospiti, ha attivato percorsi formativi e laboratori di apicoltura, ceramica e maglieria, aperti anche agli abitanti di Pettinengo e dei paesi limitrofi. All’interno di Villa Piazzo, la stessa associazione gestisce una caffetteria, che oggi è un riconosciuto luogo di scambio e attività culturali, largamente condiviso.

RISE HUB è meno istituzionalizzata, ma ugualmente sta promuovendo attività culturali per favorire l’inclusione dei nuovi abitanti all’interno della comunità, ad esempio attivando uno sportello volontario dove vengono proposti corsi di italiano. In questo modo, gli stessi ragazzi che sono rientrati in paese dopo aver cercato altre opportunità lontano, stanno ricreando un tessuto sociale che si era sfilacciato, individuando anche nuove possibili occasioni di lavoro.


Proviamo a individuare le parole chiave per una buona pratica di accoglienza sul territorio?

Senza dubbio direi che la prima potrebbe essere “sovrapposizione”, tra i percorsi di inserimento e accoglienza e attività rivolte, invece, alla comunità tutta, in modo da promuovere un percorso allargato di cittadinanza attiva.

In seconda battuta, “spazi aggregativi”, che sono fondamentali per superare pregiudizi e rappresentano per gli stessi migranti un’importante occasione per potersi misurare con persone diverse da loro. Il filo rosso che lega queste due parole chiave è la trasformazione culturale che ha preso piede grazie all’incontro tra nuovi abitanti e comunità originaria: la comunità cresce perché ha ricevuto nuovi stimoli per costruire percorsi di sviluppo a livello locale.

A Biella, ad esempio, dove opera l’associazione Pacefuturo, il coinvolgimento dei migranti nella tracciatura dei sentieri ha avuto già delle importanti ripercussioni a livello turistico.

Quanto conta che questi processi di accoglienza e innovazione sociale siano gestiti da associazioni territoriali?

È fondamentale. In tutte le realtà che abbiamo studiato, i processi sono stati presidiati da organizzazioni del territorio che lo conoscono in profondità e che proprio per questo possono gestire l’accoglienza coinvolgendo la comunità. Ed è questo che fa la differenza: riuscire a rivolgersi a tutta la comunità, attraverso l’offerta di servizi innovativi che favoriscono l’inclusione dei migranti, ma che possono allargarsi anche ad altri soggetti disagiati del territorio.

Primi bilanci e Decreto Sicurezza

Le esperienze che sono state messe a confronto in occasione del workshop di Trento, e che sono confluite nel Libro Bianco curato da ricercatori EURICSE, rappresentano delle soluzioni inedite per far fronte all’onda migratoria e favorire processi di integrazione. Nella maggior parte dei casi si tratta di storie di successo, quando il risultato non era affatto scontato, visto che non sempre gli interventi rivolti all’accoglienza sono rigenerativi sul piano della coesione sociale. Anzi.

La percezione diffusa è che le nostre comunità stiano vivendo un momento di grande confusione: le buone pratiche di accoglienza sembrano essere invisibili, anche se mobilitano un grande numero di volontari, mentre la macchina mediatica amplifica il disagio, senza offrire spunti di riflessione critica. Oggi, anche alla luce della nuova normativa e del Decreto Sicurezza nello specifico, fare delle previsioni rispetto alla continuità di queste esperienze non è così semplice.

Giulia Galera, quali valutazioni possiamo fare guardando al futuro e prendendo in considerazione il nuovo quadro normativo?

Indubbiamente il nuovo quadro normativo ha un impatto terribile sul piano dell’inclusione. Stiamo creando un esercito di persone “irregolari”, che non potranno più essere coinvolte in alcun programma di sviluppo. E tutto questo potrebbe essere facilmente evitato con una gestione intelligente del fenomeno, come mostrano le esperienze che sono attive sul territorio italiano e di cui abbiamo parlato finora.

Senza considerare che le ripercussioni economiche sulle piccole comunità saranno importanti: a rischio di essere compromesso per sempre è proprio quel processo di rigenerazione che era stato attivato grazie alla gestione dell’accoglienza.

Nelle comunità più piccole è stato possibile valorizzare le competenze di chi si andava ad accogliere per rispondere ai bisogni dei territori: dove questo processo è stato presidiato, è stato più facile inserire i migranti nel mercato di lavoro. E le stesse persone hanno poi deciso di rimanere a vivere in territori che rischiavano di spopolarsi.

Il nuovo quadro normativo rischia di distruggere un capitale di lavoro di rete e di relazioni che è stato costruito nel tempo. Di far perdere per strada professionalità e opportunità di ridare vita a luoghi che rischiano di svuotarsi per sempre, con gravi conseguenze anche sull’ambiente.