Le evidenze disponibili sono inequivocabili: le donne con disabilità sperimentano forme multiple e spesso sovrapposte di discriminazione: di genere, legate alla condizione di disabilità e per altri fattori intersezionali come povertà, isolamento sociale o appartenenza a minoranze. Per questo sono maggiormente esposte a violenza fisica, psicologica, sessuale ed economica.
Eppure, le donne con disabilità vittime di violenza restano ancora in gran parte invisibili nelle statistiche ufficiali e, di conseguenza, escluse dalle politiche di contrasto alla violenza di genere. È da questa consapevolezza che prende le mosse il lavoro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), impegnata in un programma congiunto con UN Women, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’empowerment femminile, volto a rafforzare la misurazione e la raccolta dati su questo tema, con l’obiettivo di rendere visibili dinamiche complesse finora poco indagate1.
In questo senso due documenti dell’OMS – una nota metodologica e il report di un Expert Meeting realizzato sul tema – offrono una cornice aggiornata e solida per comprendere le sfide e le opportunità nell’inclusione delle donne con disabilità nella ricerca sulla violenza di genere. Le proposte non si limitano all’ambito tecnico-statistico, ma interrogano l’intero approccio culturale, etico e politico che sta alla base della produzione di conoscenza.
Violenza e disabilità: un rischio moltiplicato ma poco documentato
L’analisi dell’OMS mette in luce diversi limiti strutturali attualmente presenti.
In primis, molte indagini nazionali sulla violenza contro le donne non includono campioni rappresentativi di donne con disabilità, soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito. Inoltre, in molte analisi e revisioni sistematiche il dato sulla violenza contro le donne con disabilità resta parziale o assente, spesso per la mancanza di disaggregazione per genere o tipo di disabilità. Molte indagini destinate a persone con disabilità escludono coloro che vivono in istituti e strutture residenziali, mentre alcuni questionari non rilevano tutti i tipi di disabilità, aggravando il problema della sottostima del fenomeno e dell’esclusione sistematica di alcune categorie di persone dalle statistiche. Per esempio, il Washington Group Short Set (WG-SS) – composto da domande standardizzate sviluppate per identificare le persone con disabilità in modo comparabile a livello internazionale – non rileva le disabilità psicosociali e intellettive e non esplora alcuni domini funzionali che possono esporre a un maggior rischio di subire violenza (es. dolore cronico, salute mentale), producendo dati incompleti e sottostime.
Un ulteriore limite è dettato dal fatto che le survey spesso non prevedono domande specifiche sulla violenza correlata alla disabilità, come la privazione di ausili, la dipendenza da chi perpetra gli abusi, la negazione di cure e l’impossibilità di movimento imposta dal caregiver. I pochi dati esistenti, infatti, evidenziano che le donne con disabilità hanno una probabilità significativamente più alta di subire violenze da parte di partner, familiari o operatori/operatrici dei servizi residenziali.
Come evidenziato nell’Expert Meeting, le definizioni, i metodi di raccolta e gli strumenti utilizzati determinano ciò che vediamo e ciò che, al contrario, ignoriamo e lasciamo in ombra.
Donne con disabilità e pratiche di ricerca escludenti: “difficili da raggiungere” o “facili da ignorare”?
Uno degli spunti più potenti emersi dal lavoro di OMS e UN Women è un cambio netto di prospettiva: le donne con disabilità vittime di violenza non sono “difficili da raggiungere”, ma sono persone che le pratiche di ricerca tendono a ignorare per impostazione. Le tecniche di raccolta dati spesso non sono accessibili per tutte: interviste telefoniche, strumenti non adattati o mancanza di interpreti escludono infatti donne con disabilità sensoriali o cognitive. Inoltre, le donne con disabilità sono spesso ritenute incapaci di fornire consenso informato o impossibilitate per ragioni “pratiche” (ad esempio, per difficoltà di comunicazione o mobilità). Ma escluderle a priori, senza offrire accomodamenti2 o sviluppare pratiche di ricerca più inclusive, perpetua le disuguaglianze e le discriminazioni, riducendo l’impatto delle politiche di prevenzione della violenza per questa fascia della popolazione.
Stanti le barriere metodologiche, etiche e culturali che contribuiscono a questa esclusione, le raccomandazioni dell’OMS sottolineano la necessità di strumenti più accessibili, team di ricerca formati sulla disabilità, ambienti sicuri per la raccolta dei dati e protocolli etici che rispettino il principio della “dignità del rischio”, ovvero il diritto delle persone con disabilità di decidere autonomamente se prendere parte a un’indagine, valutando per sé (previo consenso informato) rischi e benefici della partecipazione.
L’OMS incoraggia inoltre il coinvolgimento delle donne con disabilità in tutte le fasi della ricerca: non solo come rispondenti per la raccolta dei dati (supportate da materiali accessibili – ad esempio, formati di facile lettura, in braille, ottimizzati per l’accessibilità tramite screen reader – e da eventuali assistenti), ma anche come co-ricercatrici (individuazione delle domande di ricerca rilevanti, disegno dello studio), formatrici (per il team di ricerca) e interpreti dei dati raccolti.
Verso dati più utili, strumenti più adeguati e politiche più giuste
Tra le proposte concrete emerse nei due report vi è lo sviluppo di un set di domande breve e validato sulle forme di violenza specifiche legate alla disabilità, da integrare nelle indagini esistenti sulla violenza contro le donne. Viene inoltre raccomandato, a seconda delle esigenze, l’uso di strumenti alternativi al WG-SS, come il WHO Disability Assessment Schedule 2.0 (WHO-DAS 2.0) o il Functioning and Disability Disaggregation (FDD11), che permettono una misurazione più articolata delle limitazioni funzionali e della partecipazione sociale, pur con limiti specifici da considerare3. Fondamentale è anche l’investimento in studi longitudinali e in ricerca qualitativa, che possano restituire non solo il “quanto”, ma anche il “come” e il “perché” della violenza contro donne con disabilità, dando voce alle esperienze soggettive e alle dinamiche relazionali e sistemiche.
L’OMS sottolinea inoltre l’importanza di sviluppare sistemi di referral solidi e affidabili tra chi conduce le ricerche e i servizi di supporto, come i centri antiviolenza, soprattutto quando si lavora con donne con disabilità. L’obiettivo è che i gruppi di ricerca siano in grado di indirizzare tempestivamente le partecipanti che lo desiderano verso servizi adeguati in caso di violenza o rischio imminente, garantendo il loro diritto a ricevere protezione, supporto psicologico e assistenza legale.
In tal senso, l’OMS estende tale riflessione all’etica della ricerca affermando che questa non possa limitarsi al consenso informato, ma debba prevedere un accompagnamento concreto e responsabile delle partecipanti, soprattutto nei contesti più vulnerabili.
Donne con disabilità e centri antiviolenza in Italia: i dati di D.i.Re
La Rete nazionale antiviolenza D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) produce annualmente dati e ricerche provenienti dai centri antiviolenza e dalle organizzazioni di donne socie dell’Associazione. L’ultimo report annuale, riferito al 2024, riporta i dati rilevati da 113 dei 118 centri antiviolenza aderenti, e – come le pubblicazioni precedenti – include anche una sezione dedicata alle donne con disabilità.
Il report mostra come quasi tutti i centri antiviolenza appartenenti alla Rete (82%) siano accessibili alle donne con disabilità motoria. Queste ultime rappresentano il 32% delle 348 donne con disabilità che nel 2024 si sono rivolte a un centro antiviolenza; il 20% di loro presenta una disabilità intellettiva, il 10% una disabilità sensoriale, mentre il rimanente 38% un altro tipo di disabilità. I centri che hanno sostenuto maggiormente donne con disabilità sono localizzati nelle regioni del nord Italia; questo dato non suggerisce necessariamente una maggior presenza di violenza in queste regioni, ma riflette piuttosto la distribuzione dei centri antiviolenza, che si concentrano nelle aree settentrionali del Paese.
L’indagine evidenzia un ulteriore dato importante: il 91,5% delle donne con disabilità che si è rivolta a un centro antiviolenza della rete D.i.Re ha subito violenza da una persona con la quale esiste o esisteva un legame affettivo importante (un partner nel 56,3% dei casi, un ex partner nel 17,2%, un altro parente nel 18%). Questi dati sono superiori alle percentuali riscontrate nella popolazione generale delle donne vittime di violenza, rispetto alle quali il legame affettivo con l’uomo autore della violenza (partner, ex partner o familiare) si riscontra nell’83% dei casi (dato in linea con gli andamenti rilevati dall’Istat). Il dato in questione non solo conferma la tendenza generale che vede i partner attuali o ex come autori della maggior parte delle violenze e di quelle più gravi, ma è coerente con la marcata esposizione delle donne con disabilità alla violenza domestica, ovvero ai maltrattamenti esercitati da persone conviventi e caregiver.
È importante sottolineare che i dati diffusi da D.i.Re non derivano da un campione probabilistico, ma si riferiscono alle sole donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza della Rete. Il fenomeno presenta dunque una importante quota “sommersa”, data dalle donne che la rete antiviolenza non ha intercettato. Altri tipi di rilevazione – come le Indagini sulla Sicurezza delle donne condotte dall’Istat nel 2006, nel 2014 e nel 2025 (pubblicazione prevista per novembre) – stanno cercando di indagare anche le violenze non rilevabili attraverso le denunce o altre fonti di dati, nel tentativo di offrire un quadro più completo di un fenomeno ampio e complesso ma quanto mai urgente da affrontare.
Un’urgenza politica oltre che metodologica
L’analisi dell’OMS valorizza la dimensione etica e politica della ricerca, richiamando con forza i decisori pubblici a un’assunzione di responsabilità: senza dati disaggregati e strumenti inclusivi, nessuna politica può davvero considerarsi efficace. Per costruire società in grado di garantire protezione, uguaglianza e giustizia, la raccolta di dati non è un atto neutro, bensì una scelta politica. Le donne con disabilità non devono più rappresentare una categoria residuale, ma una lente attraverso cui ripensare complessivamente le politiche di contrasto alla violenza di genere. Rendere visibili le loro esperienze attraverso pratiche di ricerca adeguate e consapevoli significa contribuire allo sviluppo di un sistema sociale e di welfare più giusto, più efficace e realmente universale.
Note
- Sul sito web di UN Women è disponibile un portale dedicato ai dati su numerose tematiche, tra cui la violenza di genere, e agli indicatori SDGs (Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030) legati al genere.
- La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (2006, art. 2) definisce “accomodamento ragionevole” le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati […] per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
- Il report “Measuring violence against women with disability” (pp. 5-7) analizza nel dettaglio i punti di forza e di debolezza di ciascuno degli strumenti indicati.