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Il 28 maggio è scaduto il termine che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha dato all’Italia per porre rimedio alle condizioni inumane in cui versano le carceri del paese.. Si inizia a parlare di sovraffollamento, di umanizzazione della pena, della presa di coscienza che dietro ad ogni carcerato ci sono delle famiglie, spesso dei bambini, che sono segnati da quest’esperienza. Per supportare i detenuti, ma anche le loro famiglie quindi, l’associazione Per Ricominciare di Parma lavora da anni presso l’istituto penitenziario locale, dove gestisce anche un Laboratorio Gioco per i figli dei carcerati. Abbiamo incontrato la presidente dell’associazione, Emilia Agostini Zaccomer, che ci ha spiegato come opera l’associazione e ci ha raccontato problemi e speranze di questa realtà.

 

Come nasce l’associazione Per Ricominciare?

L’associazione Per Ricominciare nasce nel 1992 su iniziativa di Padre Vincenzo Procaccianti con l’intento di unire tutti i volontari che prestavano servizio presso il carcere di Parma. Lavorando con i detenuti, ci si era resi conto che col passare del tempo per molti di loro si interrompevano i rapporti con le famiglie, soprattutto quelle più povere. Bisogna pensare, infatti, che la maggior parte dei detenuti vengono da fuori, non dalla città, pertanto, recarsi qui significa per le loro famiglie un costo non indifferente in termini di spese di viaggio e pernottamento. Per arginare questo fenomeno, nel 2002 è stato aperto "il Focolare", una casa accoglienza per i familiari dei detenuti, realizzata ristrutturando una parte del complesso del Monastero di San Giovanni, appartenente ai Benedettini. L’ordine benedettino ha concesso la struttura in comodato d’uso, mentre la ristrutturazione è stata realizzata dall’associazione e dai volontari.

A quel punto però è sorto un nuovo problema. Secondo l’ordinamento penitenziario, i detenuti che abbiano manifestato una buona condotta o che, prossimi alla scarcerazione, debbano cominciare ad essere reintegrati nello “spazio aperto”, hanno diritto a trascorrere alcune ore fuori dal carcere, magari in compagnia dei familiari (art. 48, comma primo, che istituisce il regime di semilibertà come “concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale", ndr). Ma dove? Il complesso di San Giovanni non è accessibile ai detenuti per ragioni di sicurezza, in quanto al suo interno ospita anche un collegio. Si è così deciso nel 2004 di aprire un nuovo spazio, “Il Samaritano”, aperto alle famiglie ma anche ai detenuti, dove questi potessero trascorrere del tempo insieme, fuori dal contesto della prigione – ad esempio a Pasqua abbiamo ospitato un detenuto con 9 familiari.

L’ultimo passo è avvenuto nel 2010, con l’istituzione del Laboratorio Gioco all’interno del carcere.

Ci parli del Laboratorio Gioco

Il laboratorio si inserisce nel progetto sui Laboratori Famiglia realizzati nella città di Parma grazie alla collaborazione tra il mondo del volontariato e l’amministrazione: se l’obiettivo dell’iniziativa pubblica era supportare le famiglie, anche quelle dei carcerati dovevano essere incluse. In particolare, noi volontari che lavoravamo nel carcere ci eravamo resi conto da un po’ che i bambini soffrivano molto la loro condizione, ovvero quando arrivavano al colloquio con i genitori erano sereni, ma quando uscivano erano spenti, provati. I colloqui tra l’altro hanno luogo all’interno di piccole stanze e sotto il controllo di agenti armati, un contesto che sicuramente non è semplice per i bambini. Bisognava quindi costruire un ambiente che fosse per loro più accogliente.

Il laboratorio è stato realizzato grazie alla collaborazione tra l’Istituto Penitenziario, l’Agenzia per la famiglia del Comune di Parma, il Forum delle famiglie e l’Associazione Per Ricominciare. E’ gestito da due psicologi, da 15 volontari e dai giovani stagisti che svolgono in questa struttura un periodo di tirocinio. E’ aperto ai bambini tra i 3 e i 14 anni, ma in realtà anche a quelli più piccoli, tanto che è stato attrezzato con un fasciatoio.

Come funziona? Le famiglie vengono in visita e mentre le madri sono a colloquio con i detenuti (si tratta di un carcere maschile), i bambini vengono affidati al laboratorio, pur restando liberi di recarsi dai genitori ogni volta che vogliono – lo spazio non è aperto ai detenuti. Nel laboratorio vengono svolte attività ricreative di vario tipo che, generalmente, ruotano ogni mese intorno ad un filo conduttore diverso – questo è il mese, ad esempio, delle fiabe. Ogni bambino è incoraggiato a socializzare, a esprimersi e viene aiutato a sviluppare la propria creatività con lavoretti realizzati con materiale esclusivamente di riciclo. Anche gli ambienti sono stati resi il più possibile allegri e accoglienti.

Ovviamente partecipare è una scelta libera. Alcuni, soprattutto gli stranieri che non parlano la lingua, scelgono di tenere i figli con sé e non mandarli al laboratorio, comunque in media aderisce il 75%, a volte anche il 90%. Un bel risultato, ma sarebbe opportuno riuscire ad aprirlo più giorni, non solo il martedì e il venerdì, come avviene adesso – con la conseguenza di escludere coloro che fanno colloqui negli altri giorni, come i detenuti rientranti nella 41 bis, che hanno il colloquio il sabato.

Tre volte l’anno, inoltre, si organizzano delle feste (festa di Natale, festa del papà, festa dell’estate), in cui i detenuti e le famiglie, sotto la sorveglianza di guardie e volontari possono trascorrere una giornata insieme.

Quali sono le difficoltà maggiori con cui vi scontrate?

Innanzitutto ci sono difficoltà economiche. Le considerazioni cui ho accennato prima non sono possibili proprio per mancanza di fondi. Mantenere le residenze ha un costo, perché oltre all’ospitalità forniamo agli ospiti beni di prima necessità e biancheria – oltre alla pulizia dei locali. Per avere un’idea del flusso, nel 2013 il Focolare ha accolto 63 nuclei familiari, cioè 145 persone per 360 giorni di apertura, il Samaritano 14 detenuti e 37 familiari. Il bilancio annuale dell’associazione si attesta sui 20.000/25.000 euro, che arrivano dalle quote sociali, dalle offerte dei privati e dai contributi del Comune, che però sono sempre meno, dati i tagli ai trasferimenti centrali agli enti locali. Che non sono solo pochi, ma anche incerti. Come si possono pianificare progetti e attività senza avere certezza delle risorse? Inoltre, nel caso del volontariato in carcere si ha a che fare con una burocrazia molto rigida che per dei volontari non è facile da maneggiare, pensiamo solo ai familiari degli stranieri che vengono ospitati nelle nostre strutture.

Poi c’è il grosso problema delle risorse umane, è faticoso allargare il giro dei volontari. In questo il carcere si scontra con difficoltà particolari. Non è un posto in cui chiunque può accedere, a volte anche solo provare ad avvicinarsi a questa realtà, perché la burocrazia per accreditarsi all’ingresso è molto articolata – si tratta peraltro di un carcere di massima sicurezza. I volontari poi, devono essere persone “selezionate” con maggiore attenzione, data la delicatezza del settore. Inoltre nell’opinione pubblica è visto con diffidenza, spesso con ostilità. Soprattutto quando abbiamo iniziato, anni fa, c’era disinteresse ma anche rabbia. Perché si dovrebbero aiutare queste persone? La città di Parma è molto arrabbiata perchè, da città tranquilla quale era, si trova oggi, come altre città, ad affrontare un notevole aumento della criminalità e della delinquenza, oltre ad essere stata scossa da alcuni episodi criminali drammatici – come la morte di Tommaso Onofri. Qualcosa però sta cambiando, abbiamo appena concluso un corso di formazione per 29 volontari. Infine, c’è una bella collaborazione anche con il mondo del volontariato, sia con le altre associazioni che operano nell’ambito del carcere – ad esempio l’associazione San Cristoforo, o Caritas, che fornisce vestiti – che con quelle fuori: siamo stati tra i fondatori di Emporio Solidale con il quale continuiamo a collaborare.

Quali sono invece i problemi che deve affrontare il mondo del carcere più in generale?

Innanzitutto l’isolamento, a cominciare dalla struttura. Fino ad alcuni anni fa l’istituto penitenziario si trovava al centro della città, quindi i detenuti, pur restando isolati, vivevano i rumori della città e questo contribuiva a mantenere loro una parvenza di normalità. Oggi è stato trasferito in periferia, dove si crea una totale alienazione dal mondo. Un problema che si riversa anche sui familiari che vengono in visita. Non è un posto di facile accesso, non ci sono servizi limitrofi, anche per questo è nata l’idea del laboratorio.

C’è la nota inadeguatezza delle strutture, afflitte dal sovraffollamento – per cui l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo -, l’obiettivo di “umanizzazione della pena” sta iniziando solo adesso a prendere visibilità e a tradursi in progetti concreti (associazioni e familiari che operano nelle carceri italiane hanno recentemente rivolto un appello alle istituzioni italiane ed europee, proponendo 7 azioni per migliorare le condizioni delle carceri e riformare il sistema che non deve essere solo punitivo ma anche riabilitativo ndr). E’ una questione etica, ma che ha anche effetti reali importanti: spazi piccoli e sovraffollati rendono il carcerato più aggressivo, compromettendone il recupero.

C’è poi il tema della formazione della polizia penitenziaria, che ha un ruolo centrale anche ai fini della rieducazione: gli agenti sono spesso il solo contatto umano che hanno i detenuti. Questo aspetto è molto migliorato, ad esempio oggi – a differenza di quanto accadeva in passato, dove c’era molta meno attenzione – provengono da una speciale scuola di formazione, ma alla polizia penitenziaria spesso non viene dato il giusto riconoscimento.

Il sostegno che date ai detenuti si estende anche fuori dalle mura del carcere?

L’associazione offre anche un importante supporto ai detenuti quando sono “in libertà”. Innanzitutto quando si trovano in semilibertà, ovviamente devono essere tenuti sotto costante controllo, per questo a volte vengono ospitati nello spazio “Il Samaritano” o accompagnati fuori da un gruppo che comprende anche i volontari dell’associazione. Non sempre è facile gestirli, sono persone che escono da giorni e anni di reclusione. Nel 2013 ci siamo occupati di 24 detenuti in semilibertà per un periodo di che va dalle 6 alle 10 ore a uscita.

Il supporto può continuare anche dopo la scarcerazione. Si può aiutare la famiglia ad organizzare il proprio trasferimento (generalmente non tornano a vivere nel luogo di origine), trovare loro un’abitazione, un lavoro. Avere una rete di sostegno a disposizione, in primis una famiglia, un luogo dove andare, è fondamentale affinchè il detenuto “torni sulla retta via”, invece di tornare in carcere. Chi viene lasciato solo infatti torna spesso a delinquere. Per questo soluzioni come l’indulto, che risolvono il problema del sovraffollamento semplicemente scarcerando i detenuti, ma poi lasciandoli a se stessi, risultano poco efficaci. La legge prevede una serie di misure di sostegno relative alla dismissione e all’assistenza post-penitenziaria (si stabilisce che i detenuti e gli internati ricevano un particolare aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo; il definitivo reinserimento nella vita libera è realizzato con la collaborazione degli enti pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale, ndr), ma anche in questo caso ci sono complesse questioni economiche e burocratiche. Paradossalmente, se l’istituto penitenziario prolungasse anche di un solo giorno la permanenza del detenuto in attesa di trovargli una sistemazione, potrebbe essere accusato di sequestro di persona.

Quali fattori e quali progetti quindi favoriscono il recupero del detenuto?

Il processo di recupero di un detenuto è un percorso molto lungo, che si costruisce lungo tutto il periodo di permanenza in carcere.
Primo, non tutti i detenuti sono uguali e vanno affrontati con strumenti diversi: qual è la ragione della loro presenza? Ad esempio, i carcerati tossicodipendenti sono prima di tutto bisognosi di cure, chi ruba per povertà invece va messo nelle condizioni di non farlo, ad esempio trovandogli un lavoro.

Il tema del lavoro, ma soprattutto dell’essere impegnati, è cruciale. In carcere non dovrebbe esserci ozio, perché i detenuti si perdono. Potere svolgere un impiego che li tiene impegnati è un costo minore per la società e li aiuta in vista della scarcerazione. E’ ovvio che servono però risorse umane che possano predisporre e seguire queste attività. E c’è anche un altro problema. In base all’articolo 21, il detenuto, scontata parte della pena, può chiedere di essere ammesso al lavoro all’esterno, nonché frequentare corsi di formazione professionale. Generalmente l’impiego viene svolto attraverso delle cooperative sociali specifiche che finiscono per stigmatizzare l’ex-detenuto una volta scarcerato: un datore di lavoro capirà subito che ha di fronte un ex-detenuto e sarà prevenuto nei suoi confronti. A questo scopo, si sta cercando ad esempio di far partire un piccolo progetto per 5 detenuti facendoli lavorare non tramite le cooperative ma come lavoratori autonomi nella coltivazione di un orto, grazie al contributo della Provincia di Modena, attraverso un bando di Cittadinanza Attiva, e in collaborazione con l’istituto agrario Bocchialini.

E infine, come dicevamo, occorrerebbe predisporre dei progetti di reinserimento prima che siano rilasciati: pensiamo che se hanno un progetto di reinserimento, solo il 3% torna dentro. Senza progetto, torna il 73%.

Riferimenti

Associazione Per Ricominciare

L’appello sulle condizioni carcerarie in Italia

Il video sul Laboratorio Gioco

 

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