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E’ urgente l’approvazione della riforma dell’Indicatore della situazione economica del nucleo familiare (Isee), che consentirebbe allo Stato di risparmiare almeno 10 miliardi di euro l’anno combattendo sprechi ed evasione e potendo così finanziare un nuovo welfare più equo ed efficace.

 

Sulla spesa pubblica non è più tempo di furbizie. Chi riceve prestazioni sociali collegate alla situazione economica deve rispettare le regole; lo Stato deve dotarsi di uno strumento più efficace per selezionare i veri bisognosi. Senza progressi in queste direzioni non può esserci equità né giustizia sociale.

Le dichiarazioni “infedeli” per accedere a prestazioni agevolate sono numerosissime. Milioni di italiani riescono così a non pagare i ticket sanitari, i contributi per gli asili nido, le mense scolastiche, l’assistenza domiciliare; a fruire di sconti sulle bollette o sulle tasse universitarie; a ottenere borse di studio o sussidi assistenziali. A seguito di recenti verifiche, è risultato che il 10% dei beneficiari della cosiddetta social card era privo dei requisiti previsti. Come è possibile tollerare ancora questa situazione?

Lo strumento per selezionare i veri bisognosi si chiama Isee: Indicatore della situazione economica equivalente. Fu introdotto da Livia Turco nel 2000, ma la sua efficacia è limitata. Nel 2012 il sottosegretario al welfare del governo Monti ha svolto un lavoro certosino per calibrare meglio l’indicatore, ascoltando chiunque avesse proposte e suggerimenti. Il provvedimento di riforma è pronto, ma la sua approvazione da parte del governo è in forse. Rimandare sarebbe un terribile errore: non è detto che si ripresenti l’occasione.

La riforma dell’Isee serve innanzitutto a contrastare sprechi e frodi. Perché agevolare chi dichiara il falso e probabilmente ha già evaso le imposte? Se usato bene, questo strumento potrebbe portare anche a un recupero dell’evasione, ad esempio concentrando una quota di accertamenti fiscali proprio fra la platea di “agevolati”. Nel medio periodo il nuovo indicatore potrà tuttavia essere usato per filtrare l’accesso a tutta la gamma di prestazioni già oggi collegate alla condizione economica, ma con regole caotiche e spesso inique. Integrazioni al minimo, assegni di invalidità civile, pensioni ai superstiti, maggiorazioni di varia natura: perché i beneficiari di questi trattamenti debbono godere di vantaggi (come la sola considerazione del reddito individuale, per giunta con varie esenzioni) rispetto a chi richiede la social card o l’assegno di maternità? L’interrogativo è sensato anche perché i dati segnalano che una quota consistente di denaro “assistenziale” arriva a persone che certo povere non sono. Prendiamo la pensione sociale, pensata per gli “ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito”. Quasi il 5% dei beneficiari possiede redditi familiari superiori ai 45 mila euro annui: un controsenso. La percentuale sale a quasi il 15% nel caso delle indennità di accompagnamento, che non sono (ma dovrebbero essere) collegate al reddito.

E’ difficile stimare i risparmi conseguibili attraverso l’applicazione del nuovo Isee e la sua estensione a tutte le prestazioni oggi soggette a requisiti economici. In prima approssimazione si può parlare di almeno 10, forse 15 miliardi di euro l’anno (quasi un punto percentuale di PIL). E’ quasi superfluo sottolineare che una simile cifra aprirebbe in seno al bilancio pubblico margini consistenti per finanziare quel “nuovo welfare” di cui parliamo da almeno quindici anni: politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione (soprattutto dei bambini), asili di qualità, formazione, conciliazione, non autosufficienza.

Chi è contrario al nuovo Isee e perché? Per quale ragione non ha parlato durante il lungo periodo di consultazione? Si tratta di una delle tante riforme “da cacciavite” di cui il nostro Stato ha enorme bisogno. Attenzione a boicottarla: ci priveremmo di una “leva d’Archimede” con cui sollevare il mondo del welfare italiano, rendendolo più equo ed efficace.

*Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera del 3 febbraio 2013 con il titolo “Furbizie fuori tempo sulla spesa pubblica”

 

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