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Il 6 dicembre l’Istat ha pubblicato il report annuale "Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie". La situazione che emerge fa particolarmente riflettere: se da un lato infatti aumenta il reddito medio delle famiglie italiane, dall’altro si intensificano le disuguaglianze tra i nuclei sociali più ricchi e quelli più poveri. La nostra ricercatrice Chiara Agostini, che da diversi anni si occupa di questi temi, è stata intervistata dalla trasmissione "Buongiorno" di Radio InBlu per approfondire alcuni aspetti che emergono dall’analisi di Istat. Di seguito trovate la trascrizione integrale dell’intervista e il pocast della trasmissione di Radio InBlu.


Il quadro disegnato da Istat la stupisce o era atteso?

Direi che purtroppo era atteso, la disuguaglianza si combatte con politiche di lungo periodo che si concentrano, certamente non solo ma direi soprattutto, sui bambini e sui giovani. Si tratta tuttavia di questioni che non sono nell’agenda politica attuale e non lo sono state neanche in quelle passate. In questo paese purtroppo si parla troppo poco dei giovani. Sarebbe invece necessario parlarne per poterci trovare qui, tra qualche anno, a commentare i dati Istat sulla disuguaglianza con un po’ più di ottimismo.

Negli ultimi anni le disuguaglianze stanno connotando sempre più la nostra società. Quali fattori contribuiscono?

Siamo certamente un paese in cui l’ascensore sociale è bloccato; la mobilità sociale è praticamente nulla. La mobilità sociale (e quindi la riduzione delle disuguaglianze) si può promuovere a partire da solide politiche per l’istruzione; sappiamo invece che quello dell’istruzione non è certo un settore di punta sul quale si sono concentrati gli investimenti pubblici negli ultimi anni; anzi le contrazioni sono state notevoli negli anni della crisi e parliamo di un paese che già spende meno rispetto alla media europea.

Accanto a questo sono poi centrali gli interventi a favore dell’infanzia e soprattutto gli investimenti sulla prima infanzia; penso in particolare allo 0-6. È infatti chiaro che un bambino che nasce in una famiglia povera ha meno opportunità di inserirsi con successo nel mercato del lavoro e che il gap andrebbe colmato fin da principio. Aspettare l’età della scolarizzazione potrebbe essere infatti troppo tardi.

Servirebbe allora sviluppare un solido sistema di servizi per la prima infanzia e questo peraltro inciderebbe positivamente sull’occupazione femminile colmando un altro aspetto della disuguaglianza, quello di genere. I dati Istat appena pubblicati ci dicono che il reddito medio netto degli uomini è intorno ai 17 mila euro annui, quello delle donne scende a 12 mila circa. Lo sviluppo di servizi a supporto della famiglia e volti a rispondere ai bisogni di cura (non solo dei bambini ma anche degli anziani) potrebbe incidere positivamente sui percorsi occupazionali delle donne e tradursi in una riduzione della disuguaglianza di genere.

L’occupazione femminile poi ridurrebbe il rischio di povertà ed esclusione sociale delle famiglie. Le famiglie monoreddito sono chiaramente più soggette a questo rischio. Si tratta di un aspetto particolarmente importante se consideriamo che i dati Istat ci dicono che il rischio di povertà ed esclusione sociale è più alto nelle famiglie numerose. Le persone soggette a questo rischio sul totale della popolazione sono il 27,3%, ma questa percentuale sale al 36% se consideriamo le famiglie con tre o più figli; si tratta peraltro di un dato in miglioramento rispetto all’anno precedente quando tale percentuale raggiungeva il 41,1%, ma la strada da fare è certamente ancora molta.

In Italia purtroppo c’è un rapporto direttamente proporzionale fra numero di figli e rischio di povertà; questo significa che più bambini sono presenti nel nucleo familiare, più aumenta il rischio di povertà ed esclusione sociale. Servizi per l’infanzia solidi permettono allora, da un lato, di supportare i bambini che si trovano in queste famiglie e, dall’altro, di promuovere l’occupazione delle loro madri con ricadute positive in termini di riduzione del rischio.


Quali sono gli strumenti di contrasto alla povertà oggi attivi? Quali di questi stanno dando risultati concreti?

In primis c’è il RdC che ha stanziato risorse ingenti in questo campo; si tratta di risorse mai investite prima in questo settore. La misura è ancora giovane ed è difficile fare un bilancio. Certo è che il RdC è stata introdotto molto frettolosamente e l’impatto negativo di questo è sotto gli occhi di tutti.

L’attivazione che doveva accompagnare il trasferimento economico manca per molti ovvero per tutte le persone attivabili e che sono in carico ai Centri per l’Impiego (CPI). Il RdC prevedeva tre tipi di utenti: coloro che percepiscono il sussidio economico senza ulteriori vincoli perché magari hanno carichi di cura o sono già occupati e sono lavoratori poveri; coloro che sono in carico ai servizi sociali comunali e, infine, famiglie al cui interno c’è almeno un componente “immediatamente attivabile” e che quindi devono sottoscrivere un patto per il lavoro con i CPI. Ecco sul fronte dei CPI siamo certamente indietro

Tornando poi alla questione dei minori, dato che il RdC rispetto alla misura che lo ha preceduto – Il Reddito d’Inclusione (REI) – ha quintuplicato le risorse (che sono passate da 1,5 a 7 miliardi di euro) ha visto aumentare in termini assoluti il numero di famiglie beneficiarie della misura al cui interno sono presenti minori. L’aumento rilevato dall’INPS si aggira attorno alle 100 famiglie, si passa infatti da circa 240 mila a quasi 350. Tuttavia il dato non è confortante se vediamo la percentuale di minori interessati dalla misura sul totale dei beneficiari; questa percentuale, che era pari al 71% nell’ambito del REI, scende al 58% con il RdC. Sembra quindi che ci siano risorse senza precedenti ma che tuttavia queste risorse al momento stiano mancando il target.


Ascoltare il podcast dell’intervista di Chiara Agostini a RadioBlu