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Il modello di flexsecurity del Jobs Act, basato su una maggiore flessibilità in uscita attraverso la riduzione delle tutele in caso di licenziamento e su una copertura quasi universale dei sostegni al reddito per chi ha perso il lavoro, rischia di fallire per l’insostenibilità del costo degli ammortizzatori sociali e per l’inefficienza dei centri per l’impiego.

Come si può osservare nel grafico e nella tabella qui di seguito, la spesa per i sostegni al reddito per disoccupazione in caso di sospensione del lavoro in Italia ha registrato uno dei più elevati aumenti tra i paesi dell’Unione europea, passando da quasi 10 miliardi di euro del 2005 a 24 miliardi del 2012 (146,5%) (figura 1 e tavola 1). In Germania, con una popolazione molto più numerosa, la spesa per ammortizzatori sociali è diminuita da 43 miliardi del 2005 a quasi 25 miliardi del 2012 (-42,7%). Se calcolata come percentuale del PIL, la spesa per ammortizzatori sociali nel nostro Paese nel 2012 (1,5%) è superiore a quella della media dell’Unione europea (1,1% nel 2011) e di molti altri grandi paesi come la Germania (0,9%), la Francia (1,4%) e il Regno Unito (0,3% nel 2011), ed è destinata ad aumentare ulteriormente in seguito alle riforme che hanno ampliato la platea dei beneficiari e la durata delle prestazioni (secondo il bilancio sociale dell’INPS, la spesa per ammortizzatori nel 2013, al netto dei contributi figurativi, è aumentata rispetto all’anno precedente del 15,8%).

Figura 1: spesa per i sostegni al reddito per disoccupazione in alcuni Paesi UE, Anni 2005-2012 (indice 2005=100)

Fonte: Eurostat


Tabella 1: spesa per i sostegni al reddito per disoccupazione in alcuni Paesi UE, Anni 2005-2012 (milioni di euro e percentuale del Pil)

Fonte: Eurostat

 

Le uscite a carico della finanza pubblica per le prestazioni di disoccupazione e di sospensione dal lavoro in Italia appaiono fuori controllo e non più sostenibili – soprattutto per la quota a carico della fiscalità generale che è pari al 61,7% della spesa complessiva, comprensiva dei contributi figurativi (il 38,3% proviene dai contributi delle imprese e dei lavoratori), e per le prestazioni in deroga – non solo a causa della crisi occupazionale, ma anche perché non è praticato, se non in pochi centri per l’impiego (Cpi), il principio di condizionalità che lega la fruizione dei sostegni al reddito ai doveri di attivazione del beneficiario (accettazione delle offerte di lavoro, di formazione e di attività socialmente utili, obbligo di sostenere periodici colloqui, e altro).

In effetti, gran parte dei centri per l’impiego pubblici italiani non è in grado neppure di convocare in tempi accettabili i disoccupati che fruiscono di sussidi e tantomeno di offrire loro proposte di lavoro: dopo un anno di attuazione del programma europeo Garanzia Giovani, finanziato con più di un miliardo aggiuntivo di fondi comunitari, i centri sono riusciti a convocare per il primo colloquio meno della metà dei giovani iscritti (49%) e solo il 10% ha ricevuto un’offerta di lavoro, di tirocinio o di formazione, nonostante il bonus occupazionale per le aziende.

La stretta relazione tra l’efficacia dei centri per l’impiego nell’aiutare i disoccupati a trovare in tempi accettabili un’occupazione e il contenimento della spesa per ammortizzatori sociali emerge anche analizzando l’indicatore con il quale, in gran parte dei paesi dell’Unione, si valutano le performance dei public employment services (PES): l’off-flow rate from benefit into employment, che misura la percentuale di utenti dei PES che cessa di percepire il sussidio di disoccupazione dopo un certo numero di mesi. Nel Regno Unito mediamente il 55% dei beneficiari trova un lavoro dopo tre mesi, il 75% dopo sei mesi e il 90% dopo 12 mesi, mentre in Italia solo il 47,5% dei beneficiari di ammortizzatori sociali trova un lavoro entro sei mesi e dopo 12 mesi questa percentuale non raggiunge il 60% (59,2%).

L’inefficienza e l’inefficacia dei centri pubblici per l’impiego sono causate innanzitutto dal sottodimensionamento del personale. Infatti, gli operatori dei servizi pubblici per l’impiego in Italia sono, in rapporto con gli utenti, in numero inferiore alla soglia minima necessaria per offrire un servizio veramente utile alle persone in cerca di lavoro e alle imprese, e per poter così contenere la spesa per gli ammortizzatori sociali. Gli addetti ai Cpi in Italia sono poco meno di 9 mila (6 mila a contatto con gli utenti) e ognuno dovrebbe assistere 254 disoccupati registrati. In Germania questo rapporto è di 26:1, grazie ai 110 mila addetti al bundesagentur für arbeit, nel Regno Unito ognuno dei 78 mila operatori dei job centre plus ha in carico solo 20 jobseekers, in Francia, con quasi 50 mila addetti dei pôle emploi, il rapporto è di 65:1, mentre in Svezia e in Danimarca tale rapporto scende rispettivamente a 17:1 e a 15:1 (figura 2).


Figura 2: Disoccupati registrati per addetto ai servizi per l’impiego (Public Employment Service – PES)nei Paesi UE, Anno 2012

Fonte: Commissione Europea e Eurostat

La modesta capacità dei centri pubblici d’intermediare la domanda e l’offerta di lavoro deriva anche dall’assenza, tra i loro clienti, delle aziende del territorio in cui operano: la maggioranza dei centri per l’impiego italiani non offre alle imprese un servizio per la copertura dei posti vacanti e quindi non è in grado di proporre ai disoccupati registrati offerte di lavoro, limitandosi a erogare misure di orientamento e di formazione. In Francia la quota di operatori dei PES addetti a coprire i posti vacanti delle imprese è pari al 33,2% e nel Regno Unito al 51,1%. Non sorprende, sulla base di queste criticità, che nel 2013, in Italia, solo poco più di 33 mila dipendenti (2% del totale) abbiano trovato lavoro attraverso i Cpi, mentre in Germania sono stati 417 mila (8%), 268 mila nel Regno Unito (7%), 243 mila in Francia (8%).

Anche la capacità d’intermediazione dei servizi privati italiani è relativamente modesta (le agenzie per il lavoro e gli altri operatori intermediano circa il 5% degli occupati) e, inoltre, il modello cooperativo tra i servizi pubblici e le APL non ha funzionato, perché le agenzie preferiscono dedicarsi alle attività più remunerative di somministrazione del lavoro interinale piuttosto che a quelle d’intermediazione (le agenzie autorizzate solo per l’intermediazione sono circa 100 su un totale di 2.400).

Per impedire che il modello di flexsecurity del Jobs Act fallisca a causa dell’insostenibilità del costo degli ammortizzatori sociali è indispensabile, innanzitutto, aumentare in modo significativo la capacità dei servizi pubblici di intermediare la domanda e l’offerta di lavoro e di ridurre i tempi di collocamento dei beneficiari dei sussidi di disoccupazione, con l’inderogabile obiettivo di contenere la spesa per i sussidi di disoccupazione. È pregiudiziale, per raggiungere questo obiettivo, adeguare il numero del personale dei centri per l’impiego ad almeno 20 mila addetti, in modo che il portafoglio utenti di ogni singolo operatore non superi i 100-130 disoccupati registrati. Come è stato già osservato prima, conviene spendere di più per rafforzare i Cpi, per spendere molto meno per i sussidi di disoccupazione.

La strada per perseguire quest’obiettivo è già scritta nello stesso Jobs act: far confluire, in via prioritaria, nell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione le risorse umane, finanziarie e strumentali dell’unico ente strumentale del Ministero del lavoro – Italia Lavoro – che da anni promuove e gestisce con efficacia azioni nel campo delle politiche del lavoro, dell’occupazione e dell’inclusione sociale in tutte le regioni italiane, spesso in diretto affiancamento degli operatori dei centri per l’impiego. La stessa agenzia tecnica ha tutte le competenze per formare adeguatamente il personale in esubero di enti, come per esempio le province e le camere di commercio, in modo che possa confluire ed essere operativo entro breve tempo all’interno della stessa Agenzia nazionale. Questa decisione avrebbe anche un altro vantaggio, perché Italia Lavoro svolge le proprie attività in prevalenza con le risorse del Fondo Sociale Europeo – che potrebbero essere ulteriormente e agevolmente aumentate – riducendo così in maniera significativa il costo a carico del bilancio pubblico per l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione.


Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Strade
, a cui va il nostro ringraziamento per la possibilità di pubblicarlo in versione integrale.


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