Periodicamente, si registrano prese di posizione, dai contorni più o meno nebulosi, circa l‘utilizzo “alternativo” del Trattamento di fine rapporto (TFR). Da ultimo, è stata avanzata l’idea di destinarlo a finanziare la fruizione anticipata del trattamento pensionistico di base, in relazione all’innalzamento di tre mesi dell’inerente soglia di accesso, prevista per gennaio 2027 , quella di riconoscerlo ai lavoratori in busta paga, a incremento della retribuzione corrente, ovvero, ancora, per i soggetti di prima occupazione, di renderne cogente il conferimento nel fondo di previdenza complementare di riferimento, in una con il contributo di datore di lavoro e dipendente (adesione obbligatoria al fondo pensione, salvo manifestazione di dissenso espresso da parte di ciascun lavoratore interessato).
C’è da domandarsi se chi disquisisce di TFR sia sempre consapevole della funzione e delle caratteristiche di questo istituto giuridico e ne conosca le origini e la storia ultracentenaria. Sebbene il percorrerne le vicende appaia un esercizio di qualche noiosità, a fini di chiarezza reputo tuttavia utile praticarlo, sia pure in forma più che stilizzata, confidando nella pazienza dei lettori.
Il TFR fu introdotto nel nostro ordinamento nel 1982, con una significativa operazione di novellazione dell’art. 2120 del Codice Civile, in sostituzione del previgente istituto
dell’indennità di anzianità. Quest’ultima, a sua volta, derivava dalla cosiddetta indennità di licenziamento, provvidenza di vario contenuto economico, venutasi a delineare pattiziamente nei rapporti di lavoro privati, regolari e più evoluti (e non erano molti), a cavallo tra ‘800 e ‘900. Essa rivestiva, diremmo oggi, una funzione di ammortizzatore sociale/provvisorio sostegno al reddito, assumendo una finalità risarcitoria in favore del lavoratore, in relazione all’impiego perduto.
L’indennità di licenziamento trovò riconoscimento normativo nel 1919, nell’ambito della prima disciplina organica del rapporto di impiego privato, con un’accentuazione della caratteristica di premio di fedeltà, per il dipendente, da parte del datore di lavoro.
Con l’entrata in vigore del Codice Civile nel 1942, l’art. 2120 operò la ridenominazione dell’istituto in indennità di anzianità, con una più puntuale indicazione delle modalità di determinazione quantitativa e un primo emergere di una funzione previdenziale, in alternativa al trattamento pensionistico per fasce di lavoratori.
Tralasciando di richiamare l’evoluzione parallela del sistema previdenziale pubblico – analisi che pure sarebbe utile, a fini di maggior comprensione della materia – e omettendo di ricordare anche importanti interventi della Corte Costituzionale sul tema, mi limito a segnalare come risalga alla legge 604 del 1966 l’obbligo di attribuzione dell’indennità di anzianità per qualsivoglia causa di cessazione del rapporto di lavoro e la definizione della sua natura di salario differito. Pur configurandosi, dunque, come una forma di risparmio forzoso (presso il datore di lavoro), senza perdere anche una potenziale funzione risarcitoria, già propria dell’indennità di licenziamento, essa manteneva una forte connotazione previdenziale, caratterizzandosi come una vera e propria prestazione una tantum in capitale, se fruita all’atto del pensionamento. In effetti, era considerata tale dalla maggior parte dei lavoratori con la denominazione corrente di “liquidazione”.
Della trasformazione dell’indennità di anzianità in trattamento di fine rapporto da parte della legge 297 del 1982 ho già detto in precedenza, ma vale la pena di spendervi qualche parola in più, non risultando essa una mera variazione lessicale.
Se da un lato, il nuovo art. 2120 del Codice Civile si connotò per un’apprezzabile piena trasparenza nella quantificazione della provvidenza di cui trattasi (ivi compresa la puntuale metodologia di rivalutazione in corso di accumulo), dall’altro ne cambiò radicalmente le modalità di determinazione, passando, per utilizzare un linguaggio “previdenziale”, da un criterio di calcolo retributivo a un criterio di calcolo contributivo. Se, in precedenza, infatti, l’indennità di anzianità era determinata, per dirla semplicemente, assumendo a base un mese dell’ultima retribuzione percepita, moltiplicata per il numero degli anni di lavoro svolto, il TFR è costituito da un accantonamento di una mensilità corrente anno per anno, rivalutata nel tempo secondo i parametri fissati dalla legge, in relazione all’andamento inflattivo, con protezione dall’inflazione stessa, almeno sino a che essa resti al di sotto delle due cifre.
La novella in discorso rappresentò un significativo successo per il mondo delle imprese, le quali acquisirono maggiore certezza di oneri nel tempo – conseguendo anche risparmi negli anni di inflazione a due cifre – e una discreta contrazione di risultato per una parte di lavoratori, paradossalmente quelli aventi carriere dinamiche. Per i soggetti, poi, con carriere “napoleoniche” (da operaio o impiegato a dirigente apicale dell’impresa) la metodologia di calcolo del TFR, rispetto alla “vecchia” indennità di anzianità, appare una vera e propria debacle.
Anche nel comparto del pubblico impiego, dal 2006 il TFR divenne appannaggio delle nuove leve immesse nelle Amministrazioni, mentre i dipendenti già in servizio mantennero il TFS o analoghi istituti, corrispondenti alla “vecchia” indennità di anzianità, con determinazione sulla base dell’ultima retribuzione.
Va rilevato, però, come circostanza affatto significativa, il coagularsi, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, della prima disciplina organica in tema di previdenza complementare, alla luce della quale apparve, in tutta evidenza, come, per i lavoratori subordinati, la possibilità di costruire degli accantonamenti economicamente efficaci, al fine di realizzare un trattamento pensionistico di secondo pilastro, a integrazione della pensione pubblica in ineluttabile ridimensionamento prospettico, non potesse prescindere dall’utilizzo del TFR. Ciò in quanto, stante l’elevato livello della contribuzione dovuta per l’assegno di base, appariva – e appare – insostenibile per imprese e dipendenti ipotizzare la corresponsione di un ulteriore apporto contributivo di misura elevata, per la formazione della pensione privata. Va ricordato, infatti, che il TFR “pesa” circa sette punti percentuali di retribuzione: esso, dunque, sommato a 3 o 4 punti percentuali di contribuzione, versati tra datore e lavoratore, consente di pervenire a una soglia annua di accantonamenti di risorse presso una forma complementare, idonea a costituire una futura prestazione integrativa di effettivo peso e, quindi, coerente allo scopo per cui gli accantonamenti stessi sono costituiti. La normativa intervenuta nel 2005, novellando in alcune parti la disciplina della previdenza complementare del 1993, rese conclamata l’imprescindibile prevalente funzione pensionistica del TFR.
Alla luce delle notazioni sin qui svolte, si può rilevare come, all’attualità, il TFR, ferma restando la sua natura di salario differito, manifesti un’indubbia vocazione accentuatamente previdenziale, senza, tuttavia, avere del tutto perduto un residuale ruolo risarcitorio, per la cessazione del rapporto di impiego.
Venendo alle ipotesi di intervento circa il TFR, richiamate all’inizio di questa nota, appare di qualche non disprezzabile argomentabilità il trasformarlo (come in passato è già stato parzialmente – e goffamente – tentato) da retribuzione differita in corrente, rendendolo mensilmente liquido in busta paga. Va evidenziato, però, che così operando se ne annullerebbe, irrazionalmente, sia la potenziale funzione risarcitoria, quale risparmio prudenziale accumulato presso il datore di lavoro, utilizzabile all’occorrenza, sia, soprattutto, la fondamentale finalità previdenziale, valorizzabile, in via ottimale, tramite il conferimento in un fondo pensione.
Nell’ottica da ultimo richiamata, risulta, invece, certamente commendevole e condivisibile l’altra ipotesi ricordata, di rendere in futuro cogente – salvo dissenso dell’interessato – il conferimento a un fondo pensione (e la corresponsione della contribuzione fissata dalle fonti collettive) per i dipendenti di prima occupazione. Sarebbe un passo in avanti per lo sviluppo nel Paese delle necessarie coperture previdenziali complementari, certo assai timido, ma volto nella giusta direzione.
Assolutamente deprecabile si configura, invece, l’eventualità di consentire l’impiego del TFR al fine di finanziare il conseguimento dell’attribuzione anticipata della pensione di base. Si tratterebbe, palesemente, di piegare il TFR stesso a uno pseudo scopo previdenziale, deleterio, oltretutto, anche per la sostenibilità prospettica del sistema pensionistico pubblico.
Debbo rilevare, con ogni franchezza, che non mi sembra che un aumento di qualche mese dell’età edittale minima per conseguire il diritto pensionistico possa configurarsi, comunque, come un’emergenza sociale, tanto più ove si consideri che la normativa in tema di lavori usuranti consente di risolvere le situazioni di effettivo disagio, per l’appunto, con l’anticipazione dei trattamenti.
Un’ultima considerazione: un ordinamento pensionistico serio e responsabile non insegue le lusinghe demagogiche di trattamenti anticipati, ma, proiezioni demografiche e attuariali tenute sempre ben presenti, si occupa della stabilità dei conti – a tutela delle generazioni future – e, in parallelo, si fa carico di adeguare nel tempo, in misura corretta, il valore degli assegni corrisposti, evitando l’impoverimento strisciante di coorti di pensionati sempre più anziani.