9 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Nel numero 4/2017 della rivista Welfare Oggi, periodico bimestrale pubblicato in formato cartaceo e digitale da Maggioli, sono presenti degli interessanti approfondimenti sul tema del contrasto alla povertà. Uno di questi è quello realizzato da Sabina Licursi e Giorgio Marcello, i quali riportano l’esperienza delle politiche realizzate in Calabria per il contrasto al fenomeno dell’homelessness e alla marginalità.

Il Contesto

Siamo al Sud, siamo in Calabria. Il sistema di welfare esistente è di tipo “mediterraneo”
, basato essenzialmente su trasferimenti monetari e con un apparato di servizi socio-assistenziali poco sviluppati e addirittura inesistenti in molti territori. In questa Regione, in particolare, l’elevatissima frammentazione istituzionale rende particolarmente precario l’apparato dei servizi alla persona. L’approccio emergenziale ai bisogni sociali tende ad essere la regola; le situazioni di grave marginalità e di homelessness vengono affrontate prevalentemente su iniziativa delle organizzazioni del privato sociale, con interventi che hanno spesso il carattere della discrezionalità e della beneficenza (Fantozzi, 2011).

Il contesto di riferimento di questo paper è quello di Cosenza-Rende: due comuni, ma una sola area urbana, di circa 150 mila abitanti, in cui la povertà si concentra in alcune periferie di edilizia popolare e nel centro storico della città di Cosenza. Come spesso accade nelle città di medio-piccole dimensioni, il fenomeno della homelessness è poco indagato, spesso invisibile e affrontato solo con interventi diretti a rispondere ai bisogni primari. In questo territorio da oltre venti anni opera una struttura che offre servizi di accoglienza notturna e di mensa alle persone in povertà estrema; nata come opera religiosa e poi inserita nella trama dei servizi locali attraverso il meccanismo delle autorizzazioni al funzionamento e delle convenzioni, oggi è una Fondazione retta dai Frati Cappuccini di Calabria. Inoltre, per far fronte all’emergenza freddo, in collaborazione con la Regione e la protezione civile, lo scorso inverno, sono stati allestiti due container, che sono diventati un altro piccolo dormitorio permanente della città. Accanto a queste risposte emergenziali, in epoca più recente si è sviluppata un’esperienza nuova, quella della cooperativa Strade di Casa, che di seguito viene approfondita.


La cooperativa Strade di Casa

Nel 2012, su impulso di una associazione di volontariato che da molti anni opera nell’area urbana di Cosenza, è stata avviata la cooperativa sociale Strade di Casa: una piccola realtà, che interviene soprattutto nell’area della grave marginalità adulta, interessandosi in particolare di disagio abitativo, salute mentale, inserimento socio-lavorativo, migranti richiedenti asilo e rifugiati (http://www.stradedicasa.it/). La metodologia di lavoro sociale utilizzata dai suoi operatori è quella dell’intervento centrato sulla relazione. Le risorse impiegate per l’organizzazione delle attività e la retribuzione degli operatori sono derivate prevalentemente da finanziamenti della Caritas diocesana e da fondi otto per mille della Chiesa cattolica.

La cooperativa ha attivato una Unità di strada (UdS), che è nata con l’intento di esplorare il territorio, sia ascoltando gli attori potenzialmente più attenti alla presenza del fenomeno homelessness in città, sia “camminando” i luoghi invisibili dell’area urbana. In poco più di 4 anni di attività, l’UdS ha incontrato oltre 500 persone senza dimora. Questo servizio si è caratterizzato per:

  • capovolgere la consueta modalità di accesso al servizio, andando alla ricerca delle persone che hanno bisogno;
  • non prevedere criteri e requisiti d’accesso;
  • avere un’organizzazione flessibile, tipica del contesto di strada;
  • mettere al centro la relazione come strumento principale.

Gli operatori e i volontari non hanno distribuito generi alimentari o coperte, ma solo tè, preparato dai volontari di alcune parrocchie dell’area urbana. Questa scelta ha marcato la differenza con l’impostazione di altri servizi di contrasto alla povertà estrema che si concentrano sulla risposta ad un bisogno immediato (ad esempio erogando pasti), senza sviluppare intenzionalmente una relazione stabile e profonda con la persona che riceve aiuto; al contrario l’UdS ha voluto caratterizzarsi proprio per il legame personale e pro-gettuale instaurato con gli homeless.

Oltre all’incontro diretto, gli operatori hanno utilizzato un cellulare di servizio, che funziona come una sorta di telefono amico, consentendo una reperibilità degli operatori per situazioni di emergenza e una continuità dei contatti anche con quanti si sono spostati temporaneamente dalla città. Grazie alla cura quotidiana dei rapporti con le persone incontrate in strada e a un maggiore investimento nella formazione degli operatori, il lavoro fatto dall’Uds ha trovato nel tempo maggiore legittimazione sia tra gli stessi homeless,
sia nell’ambiente delle parrocchie cittadine.

Dopo un anno dall’avvio dell’Uds, la cooperativa ha aperto anche uno Sportello sociale (Ss), che ha supportato e accompagnato le persone senza dimora, attraverso la strutturazione di percorsi di empowerment, di reintegrazione sociale-relazionale e, solo in parte, lavorativa. Dall’inizio del 2013 alla fine del 2016 sono stati realizzati oltre 600 accompagnamenti personalizzati. Spesso, gli operatori hanno accompagnato lo stesso homeless più volte nel medesimo servizio. Questa frequentazione intensa ha consentito agli operatori di avviare rapporti collaborativi e informali con alcuni professionisti dei servizi pubblici e con altri attori di Terzo settore, come i medici volontari dello sportello Auser. Da questi legami sono nati progetti individualizzati tesi al miglioramento delle condizioni di vita e di salute delle persone senza dimora. Ad avere richiesto una maggiore attivazione sono stati, infatti, soprattutto i bisogni sanitari: poco meno della metà degli accompagnamenti è stata fatta verso servizi dell’azienda sanitaria locale (CSM, unità di alcologia, ambulatori territoriali, ecc.) e di quella ospedaliera, verso il medico di base, le comunità terapeutiche.

Nel 2014 la cooperativa ha aderito al Network Housing First Italia e ha iniziato a realizzare anche inserimenti in abitazioni secondo i principi dell’approccio omonimo. L’Uds ha continuato ad essere il servizio che intercetta le persone senza dimora, stabilisce con loro una relazione e valuta la possibilità di inserirle nel programma. In questo senso, l’housing ha rappresentato una risposta – seppure largamente insufficiente – alla crescente richiesta di avere una casa delle persone incontrate in strada. In meno di due anni sono stati realizzati nove inserimenti. Nei sei progetti di Housing First (HF) ancora attivi sono coinvolti cinque stranieri, una sola donna. Tutte le persone accolte hanno alle spalle molti anni di vita in strada.

L’attività del servizio di HF ha individuato un’area abbastanza ampia di attività che riguarda il rapporto con la persona senza dimora (la relazione e le visite domiciliari settimanali), i contatti con il mercato privato delle abitazioni, la coprogettazione con i servizi pubblici (diversi a seconda dei bisogni specifici dell’homeless e scarsamente integrati). Proprio le difficoltà di fare rete tra i servizi e di assicurare una presa in carico delle situazioni più gravi, insieme alle difficoltà relazionali interne al servizio tra operatori e beneficiari, sono state alla base dell’interruzione di due inserimenti su tre.

Il potenziale innovativo dell’esperienza

Nei servizi che la cooperativa Strade di casa ha allestito per le persone senza dimora sono rilevabili almeno tre segnali di potenziale innovativo. Il primo consiste nel non limitarsi a fornire un aiuto per rispondere ai bisogni più urgenti e nel costruire, invece, una relazione significativa con l’homeless. Il secondo è legato alla costruzione di percorsi di advocacy personalizzati, valorizzando soprattutto i legami costruiti con alcuni servizi del territorio. Infine, elementi di innovazione nel lavoro sociale emergono anche dalla sperimentazione dell’Housing First, che potrebbe incoraggiare il superamento dell’approccio emergenziale anche nel contesto locale.

L’approccio relazionale

La principale novità introdotta dall’Uds ha a che fare con il paradigma di riferimento e la metodologia adottata nel lavoro con le persone senza dimora. In un contesto di welfare estremamente debole, la cooperativa Strade di casa ha scelto di adottare un paradigma di tipo promozionale, non centrato quindi sulla distribuzione di generi di prima necessità, ma su un sostegno relazionale finalizzato alla definizione di percorsi di integrazione basati sulle potenzialità residue del destinatario.

L’intervento si centra sulla relazione, intesa come “incontro personale e diretto”, che poggia sull’ascolto attivo della persona senza dimora, considerata non a partire da ciò che non ha o dalle sue condizioni patologiche, ma dalla sua “situazione” concreta, caratterizzata da elementi di fragilità e di rischio e, insieme, da risorse e capacità residuali. In questa relazione, la persona senza dimora è riconosciuta anche come soggetto di diritti, e l’accompagnamento offerto è quello che si propone di favorire la fruizione concreta delle libertà sostantive di cui essa è astrattamente titolare. L’homeless non viene contenuto o segregato, ma viene innanzitutto ascoltato; in questo modo diventa possibile interrogarsi su cosa quella persona – considerata nella sua irriducibile singolarità – sia in grado di essere e di fare, nelle condizioni date, con l’obiettivo di ridurre o superare lo scarto tra la sua condizione attuale e la piena espressione delle sue potenzialità personali.

L’accompagnamento e l’advocacy

Gli accompagnamenti, sia nella fase iniziale che dopo l’avvio dello sportello sociale, sono stati fatti secondo la regola condivisa dagli operatori: “ti sto vicino nelle cose che tu vuoi fare per migliorare la tua qualità di vita”; il principio non è tanto quello di erogare una prestazione di accompagnamento, ma di stimolare l’homeless a definire, attraverso la relazione con l’operatore, un proprio possibile percorso di integrazione. La persona senza dimora è stata, quindi, accompagnata dagli operatori presso i servizi di cui aveva necessità.

Come poco sopra evidenziato, questa attività ha consentito di sperimentare delle micro reti collaborative, tra gli operatori della cooperativa e i singoli professionisti di alcuni servizi (pubblici e del privato sociale) presenti sul territorio. A partire dai bisogni degli homeless sono state sperimentate delle azioni di advocacy personalizzate, ovvero non con riferimento ad una condizione di bisogno/diritto astratta o categoriale, ma a partire dalla specificità della persona incontrata in strada. In particolare, gli operatori della cooperativa hanno sviluppato una strategia di advocacy rispetto ai trattamenti pensionistici, di cui gli homeless erano inconsapevolmente titolari, consentendo loro di arrivare a percepire un reddito stabile e duraturo, e spesso anche gli arretrati dovuti. Questa strategia si è dimostrata preziosa per innescare dei meccanismi di empowerment altrimenti insostenibili.

Con la medesima modalità sono state richieste le prese in carico presso alcuni servizi sanitari, come il centro di salute mentale, e altri servizi pubblici. Un approccio misto di sensibilizzazione ed advocacy è stato adottato anche per curare i rapporti con i proprietari delle abitazioni utilizzate per l’housing. Emblematiche sono le storie di due homeless, arrivati anni addietro da un paese straniero e con una storia lunga di permanenza in strada, per i quali è stata avviata una intensa attività di advocacy, con il risultato di ottenere per il più giovane, ipovedente, una pensione di invalidità civile, e per il più anziano, l’assegno sociale. Queste due fonti di sostegno economico sono state essenziali per consentire il pagamento di un fitto e quindi l’inserimento abitativo stabile, e si sono dimostrate propedeutiche per avviare altre attività di integrazione sociale.

La casa come prima risposta

La sperimentazione dell’Housing First ha portato all’inserimento in abitazione di poco meno di dieci persone in pochi mesi e costituisce un segnale importante per la cooperativa e per gli attori del sistema di welfare locale coinvolti, poiché rappresenta quanto fino a poco tempo prima non era immaginato come cambiamento possibile, ossia l’ingresso autonomo in casa di una persona senza dimora, che lascia la strada e riprende, dalla dimora, a progettare insieme ad altri un percorso alternativo e dignitoso.

La prima valutazione in itinere della sperimentazione avviata dal Network Housing First Italia mette, tuttavia, in evidenza l’esistenza di diversi nodi problematici: alcuni di natura più organizzativa (la disponibilità di risorse per l’affitto delle abitazioni, la composizione del team di lavoro, le criticità del lavoro con i servizi sociali e sanitari), altri più legati al metodo (l’individuazione di target differenti di persone senza dimora, la formazione degli operatori e il contesto locale in cui avviare i progetti di Housing First), altri ancora di tipo economico, presenti sia nella fase di avvio che in quella di mantenimento dei progetti (Consoli et al., 2016).

Nell’esperienza locale, l’assenza di un sostegno economico per gli indigenti e le scarse opportunità occupazionali offerte dal contesto, certamente pesano anche nell’individuazione degli homeless da inserire nei progetti di housing. Tra questi, infatti, sono in maggioranza quanti percepiscono una pensione di invalidità o l’assegno sociale, mentre gli altri riescono a pagare il fitto svolgendo lavori occasionali, spesso irregolari, nei settori dell’edilizia, della ristorazione, o di facchinaggio. Solo in un caso gli operatori sono riusciti a creare le condizioni per una integrazione lavorativa, attraverso una borsa lavoro. Nel progetto di riattivazione delle persone accolte in casa sono risultate essenziali le risorse comunitarie esistenti e la capacità di socializzazione-integrazione del soggetto. La composizione del team (due assistenti sociali e un educatore, nessuno psicologo) e le ore di impegno esclusivo degli operatori sul servizio di Housing First sono condizionate dalle risorse economiche che la cooperativa ha potuto investire nella sperimentazione, e costituiscono sicuramente una criticità.

A questo si aggiungono le fragilità del contesto socio-istituzionale, come la parziale istituzione della residenza fittizia (che esiste solo nel comune di Cosenza e non in quello di Rende), le difficoltà di collaborazione con i servizi sociali, la mancata integrazione socio-sanitaria e le fragilità del sistema pubblico. Queste ultime, in particolare, hanno pesato sulla sperimentazione dell’HF perché non hanno consentito una valutazione tempestiva delle condizioni psico-fisiche dell’homeless inserito in casa.

Conclusioni

Attualmente i finanziamenti che hanno consentito l’avvio dei tre servizi sono in esaurimento e non si ha certezza rispetto alla possibilità di continuare il lavoro avviato. Indipendentemente dal futuro dei servizi, l’esperienza può costituire una fonte di apprendimento per la comunità locale, per gli altri attori del Terzo settore attivi sul territorio sul fenomeno della povertà e, soprattutto, per le istituzioni locali. Innanzitutto, rispetto alla necessità di personalizzare gli interventi e favorirne la coprogettazione con le persone beneficiarie, anche a partire dalla casa, quale elemento essenziale per la riacquisizione di una condizione di vita dignitosa. L’approccio relazionale e il coinvolgimento diretto della persona senza dimora hanno favorito il lavoro di riattivazione dell’homeless e sono stati, probabilmente, l’elemento che ha consentito di sbloccare le situazioni di cronicità. Il lavoro svolto dagli operatori ha impattato direttamente sulla vita di molti homeless, spesso introducendo dei miglioramenti.

Tuttavia, la responsabilità della complessità degli interventi di contrasto alla povertà estrema non può ricadere su un solo attore, ancora di più se si tratta di un attore del Terzo settore. Resta essenziale il ruolo del soggetto pubblico, che, non solo dovrebbe esserci con i servizi essenziali, ma dovrebbe anche assumere la responsabilità della regolazione degli scambi fra i diversi attori coinvolti. L’esperienza presentata consente di cogliere, invece, le assenze e/o le fragilità dell’intervento pubblico, nonché le difficoltà di una collaborazione con i servizi pubblici, spesso non adeguatamente formati per fronteggiare situazioni di povertà estrema, in cui spesso si sommano condizioni di dipendenza, disturbi mentali, difficoltà relazionali, disadattamento grave. Interventi che richiederebbero una integrazione tra sociale e sanitario, ancora inapplicata nel contesto di riferimento.

Anche le esperienze positive di collaborazione con operatori e singoli professionisti dei servizi del territorio non hanno portato ad alcuna formalizzazione dei rapporti e, quindi, non hanno strutturato le premesse organizzative minime per la costruzione di una rete locale di intervento sulle condizioni di marginalità estrema. Si può ipotizzare che il confronto con modalità nuove e con un approccio promozionale e non emergenziale abbia stimolato una maggiore consapevolezza degli operatori dei servizi pubblici, ma rimane evidente che per superare il paradigma emergenziale, e per deistituzionalizzare i servizi che si rivolgono ai senza dimora, non è sufficiente modificare le modalità operative del singolo operatore o del singolo servizio. È necessario che tutto il sistema assistenziale sia innovato in profondità, e che sia riorganizzato secondo un approccio promozionale, diretto a coinvolgere e attivare fin dall’inizio i fruitori degli interventi, così come la comunità locale e i suoi attori principali.

Riferimenti bibliografici

Consoli T., Cortese C., Molinari P., Zenarolla A. (2016), The Italian Network for Implementing the ‘Housing First’ Approach, in “European Journal of Homelessness”, Volume 10, n. 1, pp. 83-98.

Fantozzi P. (2011), Il welfare nel Mezzogiorno, in Ascoli U. (a cura di), Il welfare in Italia, il Mulino, Bologna.

Istat (2014), Le persone senza dimora, disponibile su www.istat.it.

Tsemberis S. (2010), Housing First: The Pathways Model to End Homelessness for People with Mental Illness and Addiction Hazelden, Minnesota.