8 ' di lettura
Salva pagina in PDF

A differenza dei fondi tradizionali che si rivolgono a categorie specifiche di lavoratori, i fondi territoriali sono aperti a tutti i soggetti che insistono su un determinato territorio. Dei vantaggi e dei limiti di fondi di questo tipo ne abbiamo discusso con Alessio Scopa Direttore Generale di Sanifonds un fondo sanitario integrativo di natura territoriale nato nel 2013.

Come è nata l’idea di istituire un fondo di natura territoriale?

Ci sono due elementi che hanno portato alla nascita di Sanifonds. Il primo si lega all’assetto istituzionale e quindi al fatto che siamo in una Provincia Autonoma. In particolare, il fatto di avere delle deleghe e delle competenze, che sono alimentate dalla fiscalità territoriale, ha tradizionalmente spinto il Trentino a essere incubatore di politiche territoriali. Si pensi, ad esempio, all’esperienza di Laborfonds,  il fondo di previdenza complementare avviato 20 anni fa. L’idea della Provincia di Trento e degli stakeholder locali è stata quindi quella replicare, in termini di sanità integrativa, l’esperienza di previdenza complementare territoriale.

Il secondo elemento riguarda il panorama della sanità integrativa e la prevalenza di fondi nazionali di categoria. Si tratta di fondi che offrono un piano sanitario che necessariamente deve essere omogeneo in tutto il territorio nazionale, a fronte invece di sistemi sanitari che sono profondamente diversi. Faccio un esempio concreto. Noi abbiamo un piano sanitario in cui non prevediamo rimborsi per interventi chirurgici e questo perché in Trentino c’è un’ampia  propensione dei cittadini a ricorrere al servizio pubblico per l’area della chirurgia, dato che i tempi di attesa e gli outcome clinici sono di buon livello. Di conseguenza, per noi sarebbe stato inutile adottare delle prestazioni di questo tipo.

Quali sono, a suo avviso, i principali vantaggi offerti dall’istituzione di fondi di natura territoriale rispetto ad altre soluzioni?

Il primo vantaggio è che un fondo territoriale permette di tarare le prestazioni sulla base dell’offerta dei servizi sanitari pubblici presenti a livello locale, come ho, in parte, appena detto.

Il secondo vantaggio è che la natura territoriale di un fondo consente di lavorare su una scala informativa molto più ridotta. Il Trentino è un territorio relativamente piccolo e quindi si riesce ad avere un’informazione abbastanza capillare e rapida rispetto al target di riferimento, ovvero gli iscritti al fondo. Questo si traduce in maggiore utilizzo del fondo da parte degli utenti. Ad esempio, nel comparto dell’università, in meno di un anno, più del 45% degli iscritti ha utilizzato almeno una volta il fondo. Sono percentuali a cui i fondi nazionali arrivano dopo 5/10 anni e questo non perché sono meno bravi di noi, ma perché il territorio nazionale è necessariamente più dispersivo e quindi la profondità e la velocità con cui un fondo nazionale arriva agli iscritti sparsi per tutta Italia è ovviamente molto minore rispetto alla nostra. Nel caso di un fondo territoriale, la penetrazione informativa è molto più rapida e quindi la “curva di conoscenza” degli iscritti si riduce.

Il terzo vantaggio riguarda invece la facilità a instaurare un rapporto diretto con gli iscritti, tramite, ad esempio, gli sportelli informativi. Diciamo quindi che il fondo territoriale riesce ad avere una relazione diretta sia di tipo informativo in fase iniziale (cosa è il fondo e cosa rimborsa), sia di tipo “consulenziale” nella fase di richiesta delle prestazioni. Tutto questo per un fondo nazionale è molto più complesso. Di solito un fondo nazionale si dota di un call center centralizzato e difficilmente può strutturare una gestione informativa “decentrata” a livello di singolo territorio. E’ un aspetto che non va sottovalutato perché favorisce un’identificazione più diretta e più immediata fra l’iscritto e il suo fondo di riferimento.

Accanto a questo, e qui arrivo al quarto vantaggio, c’è poi un tema di accountability. Essendo il fondo territoriale espressione degli stakeholder locali (nel nostro caso la Provincia, i sindacati confederali e le associazioni imprenditoriali). Quando io vado nel mio Consiglio di Amministrazione, mi trovo un consigliere di amministrazione che magari è il segretario della CGIL  o della CISL o della UIL  della funzione pubblica locale , che raccoglie le istanze dei suoi iscritti e in quella sede si aspetta che il fondo risponda efficacemente alle esigenze rimborsuali.  E’ evidente allora che questo tipo di “cinghia di trasmissione” e questo tipo di accountability, in un fondo nazionale è necessariamente più diluita.

A suo avviso un fondo territoriale è preferibile rispetto a società di mutuo soccorso o assicurazioni che, pur avendo carattere nazionale, hanno delle ramificazioni territoriali?

Non è possibile a mio avviso esprimere un giudizio generale su quale modello sia preferibile o più performante, mentre si possono individuare tre elementi di valutazione/discrimine.

Il primo riguarda il possesso del dato informativo. Nel fondo territoriale, e in particolare nel caso del nostro fondo, la Provincia di Trento può accedere, in qualsiasi momento, a tutti i dati sui rimborsi effettuati e quindi, in senso più ampio, sull’andamento della spesa privata “consumata” dai nostri iscritti. Noi abbiamo un ufficio studi interno e possiamo ad esempio produrre delle informazioni sulla composizione della spesa, per prestazioni, fasce d’età ecc. Questo è di grande importanza perché è dall’accesso al dato che deriva la possibilità, per la politica, di fare delle scelte di programmazione. Nel caso di una società di mutuo soccorso o di una assicurazione esterna il dato è di quel soggetto e quello che arriva a te, come fondo, è una partizione molto limitata dell’universo complessivo.

Un secondo elemento riguarda invece il modello di informazione sul territorio. Se una società di mutuo soccorso ha degli uffici o comunque delle forme di gestione efficaci della relazione informativa con gli iscritti (es. assistenza on-line o telefonica) i due modelli possono essere considerati comparabili e la scelta può essere neutra.

Il terzo punto riguarda l’architettura del piano sanitario e, quindi, la scelta delle prestazioni rimborsabili. Se il player nazionale (che può essere appunto una società di mutuo soccorso o un’assicurazione) propone all’istituzione locale un piano sanitario tra quelli di cui dispone a livello nazionale, allora il modello locale resta più performante perché consente (anno dopo anno, triennio dopo triennio) di confezionare un’offerta sanitaria a partire dalle esigenze del territorio. Se invece il player nazionale riuscisse a declinare degli schemi di offerta sulle esigenze di quel territorio, allora il modello di fondo territoriale non presenterebbe necessariamente dei vantaggi.


Quali sono invece i punti di debolezza di queste esperienze?

C’è un punto di debolezza che è di tipo tecnico attuariale. Un fondo territoriale vede come massima estensione i lavoratori del suo territorio. I fondi sanitari rispondono a una logica assicurativa e questo significa che più iscritti ci sono e più si distribuiscono i rischi in maniera efficiente dal punto di vista tecnico attuariale. È il principio stesso delle assicurazioni: distribuire il rischio fra più teste. È chiaro allora che un grosso provider assicurativo o un grande fondo nazionale, avendo centinaia di migliaia di iscritti, ha una capacità di distribuire il rischio che sarà sempre superiore a quella di un fondo territoriale che ha un suo confine determinato appunto dalla territorialità.

A fronte di questo, un fondo locale ha due strade davanti. La prima, che è quella che noi stiamo seguendo, è lavorare in autogestione e assumere quindi all’interno il rischio. Allora dobbiamo selezionare con molta accuratezza le prestazioni, rinunciando a finanziare alcune aree o prestazioni su cui questo problema di equilibrio attuariale ed efficienza allocativa potrebbe essere particolarmente significativo. In alternativa, su alcune prestazioni (come quelle che riguardano la non autosufficienza) si può decidere di allocare una parte della contribuzione per l’acquisto di prestazioni da un provider assicurativo. Si tratta di un modello misto, adottato da molti e per il quale alcune prestazioni sono autogestite mentre altre (quelle per cui il trade off fra efficienza attuariale e autonomia è più pericoloso) si può scegliere di esternalizzare la copertura, ricorrendo a un soggetto più grande.  Anche noi non escludiamo il ricorso ad un modello misto ad esempio per l’area della non autosufficienza.


Esiste una dimensione ideale che rende possibile l’autogestione del fondo?

Stiamo lavorando con un importante studio attuariale di Roma proprio per rispondere a questa domanda. Lo stiamo facendo con riferimento alla non autosufficienza che è un’area nella quale intendiamo sviluppare un’offerta. Entro l’anno contiamo di avere tutte le stime utili a rispondere a questa domanda.

Quali sono invece le prestazioni che comportano maggiori rischi?

L’esempio tipico è quello dei grandi interventi e Sanifonds non li rimborsa ma in questo siamo aiutati dal fatto che in Trentino il servizio pubblico è di qualità e la percentuale di persone che si rivolge al privato per un intervento chirurgico è inferiore rispetto a molte altre regioni. In considerazione di questo Sanifonds non assicura questi rischi.

Sanifonds prevede una copertura per interventi a favore degli anziani non autosufficienti? Se sì, quali sono i principali interventi coperti? Che “peso” hanno rispetto agli interventi garantiti complessivamente dal fondo? Se "no", ci sono delle ragioni specifiche?

l modello per la non autosufficienza sarà definitivo dal 2019. Sanifonds è partito in primo luogo con il piano sanitario che potremmo chiamare “ordinario” e prevede l’allocazione di una somma sperimentale per la non autosufficienza e solo alla fine del primo triennio (quindi alla fine del 2019) avremo il modello definitivo.

Siamo partiti con una copertura limitata a un unico anno, con un massimo di 6.000 euro di risorse erogate e limitatamente ad alcune prestazioni che, sulla base delle nostre analisi, sono ad oggi a carico del cittadino. Un cittadino che manifesta una condizione di non autosufficienza nel 2017 sostiene delle spese, ad esempio, di tipo infermieristico. Si tratta al momento di una piccola nicchia dato che l’intervento è sperimentale. Anche per il futuro comunque il nostro orientamento è quello di costruire un modello in cui, a fronte di un accantonamento annuale trattenuto dalla contribuzione (che al momento è pari al 35%) che viene destinato alla non autosufficienza, il monte euro a disposizione sarà non finanziario, quindi non una rendita, ma riguarderà il rimborso relativo all’acquisto di prestazioni sociosanitarie.


E’ possibile stimare quale sarà il “peso” degli interventi a favore della non autosufficienza rispetto alla totalità delle prestazioni coperte dal fondo?

Ad oggi la stima è intorno al 35% ma si tratta di una questione che è ancora oggetto di approfondimento. Questo è il numero dal quale siamo partiti, ma dove arriveremo lo potremo sapere solo entro la fine dell’anno.


Perché, a suo avviso, questo settore è ancora poco sviluppato? Non c’è un mercato interessante rispetto a tale questione?

Ci sono diverse concause, che mi vengono a mente in ordine sparso e quindi non in ordine di importanza. Il primo problema dei fondi nazionali è che ci sono più di venti sistemi regionali di gestione dei servizi agli anziani, e quindi anche della non autosufficienza. Ci sono regioni in questo tipo di assistenza passa attraverso le RSA, altre in cui è più forte la presenza della domiciliarità, altre in cui le badanti (più o meno formalmente) sostituiscono l’offerta pubblica eccetera. Il sistema quindi è talmente eterogeneo che, per un fondo nazionale, stabilire delle regole e dei criteri omogenei di erogazione e delle prestazioni è sicuramente complesso. L’eterogeneità è ancora più forte rispetto a quella che si riscontra ad esempio nei servizi ospedalieri dove comunque c’è un nomenclatore e una codifica nazionale; certamente tra le diverse regioni tempi di attesa e outcome clinici sono diversi ma le prestazioni sono comunque le stesse. Nella non autosufficienza invece, l’eterogeneità è tale che investe anche la classificazione stessa delle prestazioni!

Una seconda motivazione è che, chiaramente, la non autosufficienza è un ambito che risente fortemente dell’invecchiamento della popolazione; è allora evidente che il rischio che un fondo corre, accollandosi una copertura seppur parziale di quella situazione, a fronte di una popolazione iscritta che va verso l’innalzamento dell’età è alto. Si tratta evidentemente di un problema di tipo attuariale.

Un’altra cosa che mi viene in mente è che, all’interno del sistema paese, un dibattito serio sulla non autosufficienza è iniziato forse da un paio di anni. Si tratta di un’area in cui, grazie a un sistema familiare che in molte regioni regge ancora, il dibattito è ancora poco centrale, soprattutto se paragonato a quanto avviene in altri paesi europei.


Quali sono, a suo avviso, le condizioni grazie alle quali un progetto di questo tipo può avere successo?

Io direi innanzitutto che è necessario un consenso politico forte da parte dell’opinione pubblica. È necessario lavorare molto sulla comunicazione istituzionale. È importante far capire ai cittadini che il fondo sanitario è uno strumento che integra l’offerta della sanità pubblica e non si candida a sostituirla! Il rischio, soprattutto in territori dove la sanità pubblica ha una buona reputazione e le persone, mi passi il termine, ci sono “affezionate” è che la sanità integrativa sia percepita come un potenziale fattore di indebolimento delle coperture universalistiche di natura pubblica. Quindi un primo elemento riguarda un’efficace comunicazione pubblica che auspicabilmente vede coinvolti gli attori pubblici (es. assessorato alla salute) ma anche gli stakeholder territoriali (es. i sindacati) che sono anche i soggetti che, nel nostro caso, compongono la programmazione.

Seconda cosa, è necessario costruire il modello operativo con sufficiente anticipo. Questo significa che bisogna partire con il fondo quando il disegno della struttura è già pronto e quindi definire –  prima ancora di partire – alcuni pilastri; ad esempio se si si adotta un modello autogestito oppure si sceglie l’outsourcing;  presenza e dimensione degli sportelli fisici;  è poi necessario mappare i processi, valutare il dimensionamento della struttura organizzativa,  eccetera. E’ necessario, infine , fare scelte intelligenti e ponderate sulle prestazioni da erogare, cosi da bilanciare la “domanda di servizio” degli iscritti con la sostenibilità economico-finanziaria di medio-lungo periodo del Fondo.

A mio parere è poi centrale un presidio professionale dei dati; noi ad esempio abbiamo investito molto su questo, attivando un Ufficio Studi dedicato e sviluppando un modello proprietario di data analysis, validato in termini scientifici dall’Università di Trento.