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In Italia pochi se ne sono accorti, ma in gran parte d’Europa (e persino nella “cattiva” Bruxelles) sui temi del welfare sta formandosi un nuovo consenso “post-neoliberista”, nel quale si intrecciano, in versione aggiornata, elementi classici delle tradizioni liberal-democratica, social-democratica e in parte cristiamo-popolare. Chiamerò questa emergente sintesi ideologica neowelfarismo liberale e spiego subito perché. Contro il neoliberismo, l’idea di base è che il welfare sia un valore positivo e non un male necessario. Nel Novecento europeo questa convinzione ha trovato le sue prime e più articolate espressioni, sul piano simbolico, istituzionale e lessicale, nell’area scandinava. Il sostantivo “welfarismo” vuole segnalare e riconoscere questo primato temporale e intellettuale.

La nuova prospettiva innova però fortemente rispetto alla socialdemocrazia storica nell’approccio ai problemi sociali e nella loro stessa definizione: di qui il prefisso “neo”. L’aggettivo “liberale” mira dal canto suo a valorizzare non solo il contributo del liberalismo sociale (spesso detto welfare liberalism nelle storie del pensiero politico), ma anche due precisi impegni di marca liberale tout court: 1) la garanzia delle libertà “da” e la promozione della “individualità” e dell’apertura (inclusa l’apertura economica: mercati ben funzionanti); 2) il mantenimento di un equilibrio ragionevole fra valori diversi e spesso inconciliabili in forma assoluta – cominciando proprio da quelli di “libertà” ed “eguaglianza”. Quali sono, nel concreto, i tratti distintivi della nuova prospettiva? E, prima ancora, quali dinamiche e quali soggetti l’hanno promossa?

L’attacco neoliberista

Come è noto, a partire dai primi anni Ottanta la cosiddetta svolta neoliberista rivolse al welfare state e alle sue giustificazioni ideologiche due critiche corrosive. L’eccesso di egualitarismo e tassazione, innanzitutto: con effetti negativi sul piano dell’efficienza, dello stimolo imprenditoriale, degli incentivi al lavoro. Troppa burocrazia e troppo paternalismo (lo “stato-mamma”) in secondo luogo, e dunque meno libertà di scelta, meno responsabilità individuale, diffusione di una cultura di dipendenza assistenziale. Associata a forme di accentuato tradizionalismo sul piano culturale (enfasi sulla famiglia, sul binomio “legge e ordine”, chiusura verso ogni “diversità”) la svolta partì con Reagan e Thatcher -che non a caso si definivano neoconservatori più che liberisti- ed ebbe un impatto tangibile nelle politiche di tutti i paesi anglosassoni. Fra gli anni Ottanta e Novanta il discorso neoliberista prese piede anche in altri contesti nazionali. Tuttavia, tranne (forse) i liberali tedeschi, nessun partito dell’Europa continentale si convertì compiutamente all’”agenda Thatcher”, soprattutto sul piano delle misure concrete.

Non è difficile spiegare perché il neoliberismo non è riuscito a diventare egemonico all’interno delle arene politiche continentali. Il suo estremismo ideologico ha funto da respingente non solo per socialisti, cristiano-popolari e centristi moderati, ma si è scontrato con il retroterra valoriale ormai radicato, alla fine del Novecento, nelle opinioni pubbliche. In un sondaggio eurobarometro del 1993 maggioranze “bulgare” di intervistati, superiori al 90%, dichiaravano che la sicurezza sociale era “la conquista più saliente del XX secolo”. Un’ideologia che considerava il welfare come il nemico da abbattere per ragioni di principio non poteva avere grandi chances di imporsi come maggioritaria, e men che meno di affermarsi come cornice di base e condivisa su cui innestare le proposte programmatiche in campo sociale delle varie famiglie politiche continentali. In che direzione muovere per rispondere alla sfida neoliberista? Il vecchio “consenso socialdemocratico” era stato sconfitto dalla crisi degli anni Settanta e non poteva certo essere resuscitato. Per giunta alcuni dei problemi sollevati dall’”agenda Thatcher” avevano una radice oggettiva (con varianti diverse per ciascun paese) e dovevano essere affrontati di petto, anche sul piano simbolico. Prese così avvio un processo di graduale ri-elaborazione ideologica, prima ancora che programmatica.

La duplice riscossa

Il primo stimolo e strumento di ri-elaborazione provenne, quasi paradossalmente, proprio dal mondo anglo-sassone ed in particolare dalle nuove dottrine del liberalismo egualitario formulate dalla filosofia politica americana. La più dibattuta ed ancora oggi più nota è la teoria della “giustizia come equità” di John Rawls, il testo forse più influente della seconda metà del Novecento. Ma possono essere citati anche l’”egualitarismo al cancello di partenza” di Ackerman, l’”egualitarismo basato sulle risorse” (Dworkin) o “sul merito” (Miller), il liberalismo comunitario di Walzer o quello repubblicano di Pettit. L’obiettivo comune di queste dottrine era quello di combinare la concezione classica di libertà come “non interferenza” con assetti distributivi capaci di ottimizzare opportunità e risorse per individui e gruppi, in particolare i più svantaggiati. Molti degli esponenti di questo nuovo liberalismo divennero intellettuali “pubblici” nel corso degli anni Novanta, qualcuno (come Pettit con Zapatero) assunse anche il ruolo di consulente del principe. Il punto più importante è che le loro idee si diffusero nei media e fornirono linfa intellettuale per rispondere agli argomenti anti-welfare degli ideologi neoliberisti, come Hayek, Friedman o Nozick.

L’assorbimento di idee dall’esterno è stato però accompagnato da approfondite rivisitazioni delle culture politiche e delle dottrine interne a ciascuna tradizione. In Scandinavia, ad esempio, si è riscoperta e ridefinita la nozione di “solidarietà produttivista” già elaborata negli anni Trenta: le prestazioni di welfare devono rispondere non solo a obiettivi di equità, ma anche di efficienza produttiva, tramite adeguati incentivi al lavoro. In Gran Bretagna, la Terza Via di Blair ha attinto al laburismo fabiano e nel contempo al liberalismo sociale di inizio Novecento, con la sua enfasi sul ruolo “capacitante” delle politiche pubbliche e in particolare dell’istruzione obbligatoria. I socialisti spagnoli e i liberali olandesi e nordici hanno dal canto loro aggiornato e ri-elaborato il filone “emancipativo” del liberalismo di Stuart Mill, collegando a doppio filo la sfera del welfare a quella delle pari opportunità per tutti i gruppi vittima di “assoggettamento” (donne, giovani, outsider, immigrati, minoranze in genere). Nei paesi germanici la ri-elaborazione ideologica ha coinvolto non solo le socialdemocrazie ma anche i partiti cristiano-popolari, orientando entrambi verso l’aggiornamento della nozione tradizionale di “economia sociale di mercato” (più società, più responsabilità personale, in un solido quadro di diritti di cittadinanza e insieme disciplina di mercato). E’ interessante notare che negli ultimi anni il neoliberismo ha mollato la presa, sui temi del welfare, anche fra alcuni partiti di centro-destra: basti pensare alla Big Society di Cameron o al conservatorismo “progressista” dei Moderaterna svedesi.

La nuova sintesi ideologica

Il neowelfarismo liberale connette in modo innovativo i due valori cardine della modernità europea, libertà ed eguaglianza, quelli dai quali nessuna seria concezione di “giustizia sociale” può prescindere. In linea con il liberalismo classico – ma anche con filosofi egualitaristi del calibro di Rawls o di Sen- la libertà è prima di tutto intesa come “non interferenza”, assenza di costrizioni, e dunque diritto all’auto-determinazione. Il welfare non deve più peccare di paternalismo, fissare standard di moralità o normalità sociale: il suo principio guida è la non discriminazione (un termine più esigente di “neutralità”). La libertà negativa è però inestricabilmente intrecciata con la disponibilità di risorse-opportunità sotto forma di spettanze che consentano il pieno sviluppo di quella che Stuart Mill chiamava “individualità”.

Il concetto di eguaglianza è stato a sua volta re-interpretato, spostando l’enfasi dai risultati alle opportunità, alle chance di vita, ai “funzionamenti” (Sen). Senza rinunciare ai suoi classici legami con gli ideali della solidarietà e della protezione sociale, il concetto di eguaglianza assume tre nuovi caratteri: 1)dinamico: il punto di riferimento è il ciclo di vita, non il “qui ed ora”; 2) multimensionale: non solo il reddito, ma anche l’appartenenza di genere, di etnia, di generazione e così via; 3) prioritario: l’intero sistema fisco-welfare deve rivolgersi in primo luogo ai meno favoriti, pur mantenendo universalità di accesso (quello che italiano chiamiamo universalismo selettivo).

La connessione centrale fra (nuova) libertà e (nuova) eguaglianza è attraversata da un secondo asse, che lega la nozione di opportunità con quella di comunità. Le declinazioni di questo legame (che riguarda anche il nodo della sussidiarietà) all’interno del nuovo spazio ideologico sono molteplici. Tutte ruotano nondimeno sul classico binomio “opzioni-legature”, a suo tempo tematizzato da Dahrendorf: avere chance di vita significa insieme poter scegliere come individuo e far parte di una qualche comunità (dalla coppia alla nazione) che dia un senso a quelle scelte. Opzioni e legature presuppongono non solo diritti, ma anche una società civile autonoma e intraprendente, che non delega interamente allo stato la tutela di rischi e bisogni e che sa usar bene il mercato (il profit motive: pessimo padrone ma ottimo servitore, per dirla con Beveridge).
Le nozioni di solidarietà flessibile e “produttivista”, di inclusione attiva e di investimento/promozione sociale sono quelle più rilevanti, perché consentono di intrecciare (senza però fonderle in abbracci fumosi) le classiche opposizioni fra competizione e cooperazione, responsabilità individuale e collettiva, merito e bisogni. E dunque di impostare politiche pubbliche che riconoscono entitlements (spettanze) nell’arena dello stato solo nella misura in cui si generano provisions (beni e servizi) nell’arena del mercato.

Il concetto forse più innovativo (e che maggiormente qualifica il prefisso “neo”) è quello di “investimento sociale”: il welfare deve essere vigorosamente riorientato dalle compensazioni ex post alla capacitazione ex ante, accrescendo sforzi e risorse dedicati ai servizi per l’infanzia, alla scuola, alla formazione lungo l’arco della vita, alle politiche di conciliazione e sostegno delle famiglie a doppio reddito, e dunque all’occupazione femminile. La prospettiva dell’investimento sociale ribalta la logica tradizionale: la prima missione del welfare deve essere quella di garantire un “buon inizio” per tutti, dalla fase della prima infanzia; e, man mano che il ciclo di vita procede, sorreggere nel modo più efficace la partecipazione lavorativa, promuovere la mobilità sociale e la lotta alla povertà. Una rivoluzione copernicana per quei sistemi di welfare (come il nostro) che si sono concentrati soprattutto sulle pensioni e sui “risarcimenti” passivi.

Il neowelfarismo liberale non è un semplice aggiornamento della socialdemocrazia keynesiana degli anni Sessanta, non è neoliberismo sotto mentite spoglie o liberismo “di sinistra”. E’ una sintesi ideologica inedita, una cornice di assunti e valori che vuole ridefinire le sfide della politica sociale del nuovo secolo e suggerire un meta-strategia su come affrontarle. I margini di differenziazione fra destra e sinistra non scompaiono, il confronto si può giocare sulle declinazioni concrete della cornice, calibrando pesi ed enfasi, proponendo aggiunte. Inoltre, la cornice non è un letto di Procuste: chi non l’accetta, può continuare a guardare verso il passato oppure rifugiarsi nel radicalismo e/o nel populismo. Saranno ovviamente gli elettori a decidere, in base alla persuasività dei programmi e alla capacità di partiti e governi di far bene il loro mestiere: aggregare consenso, risolvere i problemi e dare senso e giustificazione al cambiamento sociale.

 

 

Il presente articolo è stato pubblicato nell’inserto del Corriere della Sera Il club de La Lettura il 16 dicembre 2012, ed è disponibile anche online