19 ' di lettura
Salva pagina in PDF

La responsabilità sociale d’impresa (R.S.I.) è una tematica sempre più discussa e approfondita sia negli studi sullo sviluppo aziendale, sia negli studi di politica sociale. E’ ormai chiaro che il welfare, la realizzazione del benessere sociale, non è competenza esclusiva del settore pubblico, ma coinvolge anche il secondo settore, il mercato, il terzo settore, il non-profit, e le reti informali come la famiglia o il vicinato. Uno dei principali obiettivi della ricerca nel campo delle politiche sociali è fare chiarezza sui nuovi soggetti e le nuove dinamiche che si affacciano sull’”arena del welfare” approfondendo i ruoli e le attività dei diversi attori, compresi i privati, come le imprese. In questo contributo si prova a definire cos’è la R.S.I. e a tratteggiare le principali tappe delle policy europee.

 

Indice

 

1. Che cos’è la responsabilità sociale d’impresa
2. Definizioni plurali, modelli plurali
3. La responsabilità sociale d’impresa e l’Unione Europea
4. Le due dimensioni della R.S.I.
5. Il dibattito sul Libro Verde: verso un’Alleanza Europea
6. La nuova strategia europea
7. Gli otto campi d’azione
8. Conclusioni

 

1. Che cos’è la responsabilità sociale d’impresa

In primo luogo è opportuno definire cosa si intende con responsabilità sociale d’impresa. Vi sono differenti definizioni sia accademiche che istituzionali con significati talvolta profondamente diversi. Non vi è infatti unanimità nel definire cosa si intende con R.S.I. né tantomeno sulla locuzione da adottare, e sono proposti anche termini alternativi con significato affine come “cittadinanza d’impresa”, “sostenibilità d’impresa” “corporate accountability”.

Nel corso dei decenni è mutato profondamente l’approccio delle imprese verso i propri doveri etici e sociali, così come è mutato l’approccio del mondo accademico e delle istituzioni. E’ negli Stati Uniti, verso la metà del secolo scorso, che si è iniziato a parlare di R.S.I., quando le grandi corporation erano considerate quasi degli enti pubblici con responsabilità verso i dipendenti e i territori ove erano insediate. Sessant’anni dopo il contesto sociale ed economico è profondamente cambiato, la globalizzazione ha reso meno definitivo il legame tra l’impresa e uno specifico territorio, si è ridotta l’influenza statale sui mercati e la teoria economica è virata su posizioni neoliberiste (Carrera 2005).

Nel 2001 usciva un Libro Verde sulla responsabilità sociale d’impresa, promosso dalla Commissione Europea, che vedeva nella R.S.I. un prezioso strumento di supporto per le politiche comunitarie, in particolare nella promozione dello sviluppo sostenibile. Il Libro Verde provava anche a darne una definizione, come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.

Nel dibattito italiano sono emerse anche altre definizioni. Sacconi (2004, citato in Sacco, Viviani 2007) suggerisce che la R.S.I. sia “un modello di governance allargata d’impresa, in base alla quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza di doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder”. Sena (2008), invece, descrive l’impresa socialmente responsabile come un’impresa “che considera il perseguimento del bene comune come obiettivo principale, e finale allo stesso tempo, di ogni sua azione e attività, intendendo per bene comune lo sviluppo e il benessere dell’umanità nel suo insieme e in ogni sua forma”. La responsabilità sociale si sviluppa ex ante, quindi in senso preventivo e costruttivo, ed ex post rimediando alle esternalità negative dell’attività aziendale. Richiede però in ogni caso politiche mirate che non considerino esclusivamente l’interesse economico e tecnico dell’impresa (Shcherbinina, Sena 2008).

Le tre definizioni proposte evidenziano aspetti diversi: la Commissione Europea sottolinea la volontarietà delle imprese di inserire nelle loro strategie aziendali la preoccupazione per le conseguenze sulla società e sull’ambiente, Sacconi estende il contratto tra management e proprietà ai dipendenti e agli stakeholder esterni mentre Sena ricorda come il fine ultimo di ogni impresa sia la promozione del bene comune.

L’ultima definizione proposta dalla Commissione Europea è sicuramente più sintetica e omnicompresiva, e tratteggia infatti la R.S.I. come la “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società” (EU COM(2011) 681).

Come spiegato, un’altra locuzione adottata è “corporate accountability”. Il lemma “accountability”, tradotto in italiano come responsabilità, si riferisce alla negoziazione di diritti e doveri, mentre “responsability” indica obblighi formali e regolamentati (Monciardini 2009). La “corporate accountability” (C.A.) non è ritenuta antitetica alla R.S.I. bensì complementare in quanto se la R.S.I. prevede differenti forme di controllo sociale sulle imprese affinchè rispettino determinati doveri, la C.A. garantisce lo sviluppo di processi di negoziazione che possono prevenire comportamenti negativi. Si può dunque affermare che se la prima è focalizzata sui risultati, la seconda è focalizzata sui procedimenti.

 

2. Definizioni plurali, modelli plurali

La pluralità di termini e definizioni è il riflesso di una pluralità di modelli etici e scientifici di sviluppo della R.S.I. Nelle prossime righe verranno descritti l’approccio contrattualista, relazionale e tomistico.

Secondo l’approccio contrattualista, centrale per la pratica della R.S.I. è il modello di governance adottato dall’impresa (Sacchi e Viviano 2007). I manager aziendali si rapportano con la proprietà dell’impresa, gli azionisti, in base ad un contratto: se l’impresa è socialmente responsabile il contratto è esteso a tutti gli stakeholder interni ed esterni. I rapporti sociali sono strutturati in base a contratti, pertanto un impresa ha diritti e doveri nei confronti di numerosi attori, non solo dei proprietari: ciò può essere definito interesse sociale allargato in quanto vi sono benefici non solo per gli azionisti ma anche per altri soggetti come la comunità locale, associazioni e movimenti. È quindi necessario applicare una governance aperta che coinvolga nei processi decisionali le rappresentanze dei diversi stakeholder per bilanciare i rispettivi interessi. L’obiettivo deve essere la realizzazione di una strategia d’azione, in cui ogni soggetto possa garantire il proprio apporto e nessuno ottenga benefici a svantaggio degli altri (free-riding). Le varie parti coinvolte non sono legalmente obbligate a partecipare alla negoziazione e a rispettare gli accordi ma sono motivate dalle conseguenze sulla reputazione. Va però precisato che non sempre gli stakeholder hanno una conoscenza perfetta del contesto in cui si trovano e pertanto il contratto difficilmente sarà veramente equo. Vi sono poi altri due aspetti problematici: a) non vi è certezza che tutti i soggetti coinvolti dall’attività dell’impresa siano coinvolti nel processo decisionale, alcuni potrebbero rimanere esclusi e non godere quindi dei vantaggi della negoziazione; b) vi è il presupposto che le preferenze degli stakeholder siano fisse quando nella realtà sono mutevoli e si evolvono nel tempo. Alcune problematiche sono da sempre state prese in considerazione, ad esempio la sicurezza sul lavoro, altre solo di recente, ad esempio la protezione dell’ambiente.

Anche l’approccio relazionale, basato sull’economia civile, che rileva l’importanza della governance aziendale, evidenzia motivazioni differenti (Zamagni 2004; Sacchi e Viviano 2007). Se l’approccio contrattualista pone la reputazione tra le motivazioni che spingono un’impresa a essere socialmente responsabile, l’approccio relazionale pone l’adesione ad un insieme di valori condivisi, l’etica delle virtù. Tra i fondamenti dell’economia civile vi è infatti il presupposto che l’agire economico non si basi esclusivamente sulla razionalità strumentale ma abbia anche altri criteri come l’equità e il bene comune, e negli scambi economici acquisiscano quindi rilevanza i beni relazionali. Se l’impresa aderisce a un sistema relazionale di valori condivisi, come l’equità e la reciprocità, è portata a compiere scelte conformi anche per il ritorno in beni relazionali, come la stima e la produzione di capitale e sociale. Principio cardine dell’etica delle virtù è infatti la costituzione morale interna degli agenti. A stimolare la R.S.I. è quindi una motivazione etica data un sistema valoriale condiviso. Un manager può anche iniziare ad avere comportamenti etici per opportunismo (es: ottenere pubblicità per l’impresa) ma nel lungo termine assimilerà i valori che finge di portare avanti o probabilmente interromperà la finzione. In un’ottica di economia civile le pratiche socialmente responsabili non possono essere disgiunte dall’ordinaria attività di un’impresa. Non vi può, quindi, essere una fase di accumulazione della ricchezza in cui l’impresa adotta pratiche eticamente discutibili e successivamente una fase di redistribuzione in cui pratica l’equità, in quanto una tale strategia generebbe comunque ingiustizia e la redistribuzione non risarcirebbe le persone e le comunità delle sofferenze subite in precedenza.

L’approccio tomistico, adottato dalla Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, si basa sulla filosofia aristotelica di San Tommaso d’Aquino e delle successive interpretazioni come il personalismo (Compagnoni 2008; Halford 2008). È utile quindi richiamare alcuni concetti essenziali come persona, azienda e bene comune. Secondo il tomismo ogni essere umano è sia un individuo che una persona, in entrambi i casi è però portato a relazionarsi con gli altri. Infatti un individuo è sempre parte di un gruppo del quale necessita per soddisfare i bisogni materiali, come persona invece è parte di un insieme attraverso il quale realizza il proprio bene che è anche il bene della comunità. Per l’individuo le relazioni sono uno strumento, per una persona sono parte di sé, il senso stretto della persona è dato dal relazionarsi con l’altro. Anche l’azienda è osservata sotto un duplice aspetto, da un lato è un organismo artificiale, realizzato per raggiungere degli obiettivi, quindi strumentale ad essi, ma non è solo questo in quanto all’interno di essa si sviluppano relazioni tra persone e queste ultime crescono e sviluppano competenze, talvolta specifiche dell’azienda come comunità. Si può quindi affermare che l’azienda è una forma di bene comune composto di elementi strumentali e intrinsechi oltre che una comunità di lavoro. Con bene, invece, si intende lo sviluppo di un essere umano verso la sua piena espressione, in quanto ogni essere umano ha un potenziale da esprimere e lo esprime attraverso l’azione. Il bene è comune perché l’essere umano è persona e la persona trova il proprio senso in relazione agli altri. I beni comuni possono essere di due tipi, fondanti ed eccellenti. I beni comuni fondanti sono quei beni necessari e fondamentali per la realizzazione della società come il sistema politico o un ambiente non contaminato. I beni comuni eccellenti sono invece i beni relazionali e i valori condivisi a cui la società aspira come la pace o la giustizia. In un’ottica tomistica quindi un’impresa non è finalizzata solo a produrre beni e servizi ma anche beni comuni eccellenti che garantiscano il miglior benessere a tutte le persone coinvolte nell’impresa stessa. La R.S.I. non deriva quindi da un contratto sociale tra il management aziendale e i diversi stakeholder ma dalla collaborazione di tutti volta alla realizzazione del bene comune. Certamente nel mercato, sia all’interno dell’azienda che tra aziende vi è competizione, e questo è positivo, ma se gli individui competono tra loro per una posizione o delle risorse, poi come persone possono cooperare per il bene comune. La competizione non deve essere estranea all’azienda in quanto in presenza di risorse limitate è necessaria e favorisce l’ottenimento di risultati migliori.

 

3. La responsabilità sociale d’impresa e l’Unione Europea

Nel paragrafo precedente, descrivendo con estrema sintesi cosa si intende con responsabilità sociale d’impresa, si è accennato all’evoluzione del concetto in relazione ai mutamenti sociali e politici dello scenario globale. A partire dagli anni ’90 le istituzioni internazionali hanno iniziato a guardare con maggiore interesse ai problemi globali come la violazione dei diritti umani, l’inquinamento, la povertà, il lavoro minorile, e a considerare la responsabilità positiva o negativa delle imprese.

In questo contesto si sviluppa il Global Compact, un’iniziativa strategica promossa dalle Nazioni Unite nel 2000, per favorire lo sviluppo sostenibile, i diritti umani, del lavoro e la lotta alla corruzione. Si tratta di un accordo a cui le imprese interessate possono liberamente aderire impegnandosi a rispettare dieci principi, non vi è però alcuna forma di controllo, monitoraggio, sanzionamento. Scopo del Global Compact non è infatti sviluppare ulteriori regolamentazioni internazionali o certificare l’attività delle imprese, ma favorire la diffusione di una cultura d’impresa orientata allo sviluppo sostenibile, il dialogo tra imprese e società civile, lo scambio di buone pratiche. Le imprese aderenti possono inoltre partecipare a network locali

I dieci principi del Global Compact, estrapolati da trattati internazionali come la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”, la “Dichiarazione sui Principi Fondamentali e i Diritti nel Lavoro” dell’ILO, la “Dichiarazione sull’Ambiente e lo Sviluppo” di Rio de Janeiro, sono: 1) “Alle imprese è richiesto di promuovere e rispettare i diritti umani universalmente riconosciuti nell’ambito delle rispettive sfere di influenza”; 2) “di assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani”; 3) “Alle imprese è richiesto di sostenere la libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva”; 4) “l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio; 5) “l’effettiva eliminazione del lavoro minorile”; 6) “l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in materia di impiego e professione”; 7) “Alle imprese è richiesto di sostenere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali”; 8) “di intraprendere iniziative che promuovano una maggiore responsabilità ambientale”; 9) “e di incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino l’ambiente”; 10) “Le imprese si impegnano a contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse l’estorsione e le tangenti”.

In seguito all’uscita del Global Compact e di altri importanti documenti – come la “Dichiarazione tripartita dell’OIL sulle imprese multinazionali e la politica sociale” e i “Principi direttive dell’OCSE destinati alle imprese multinazionali” – anche la Commissione Europea ha volto il proprio interesse sulla R.S.I. come importante strumento di attuazione degli obiettivi individuati nella Strategia di Lisbona. Il primo atto ufficiale è stato il Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, pubblicato il 18 luglio 2001 per stimolare il dibattito sull’argomento. Il Libro Verde contiene anche la prima definizione europea di R.S.I.

La Commissione Europea sostiene che se l’Unione Europea dovrà essere una competitiva economia basata sulla conoscenza, sarà opportuno che le imprese integrino nelle loro strategie aspetti sociali ed ambientali che garantiscano una migliore coesione sociale, anche considerando che il rispetto di determinati vincoli sociali e ambientali possa migliorare la competitività e la crescita delle imprese stesse. Si ritiene, infatti, che la R.S.I. sia resa necessaria da vari fattori come una maggiore preoccupazione dei cittadini per le questioni ecologiche e per le trasformazioni economiche e industriali in corso, una maggiore diffusione delle informazioni sull’operato delle multinazionali, i timori diffusi per l’impatto delle attività economiche sull’ambiente e lo sviluppo di criteri sociali ed etici nella selezione degli investimenti. 

 

4. Le due dimensioni della R.S.I.

In particolare, vengono individuate due dimensioni della R.S.I., la dimensione interna e quella esterna.

Le pratiche relative alla dimensione interna concernono la gestione delle risorse umane, la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, la gestione delle trasformazioni industriali e l’impatto ambientale. Nella gestione delle risorse umane rientrano la conciliazione tra lavoro, tempo libero e famiglia, la parità di retribuzione e opportunità di carriera tra uomo e donna, la non discriminazione per ragioni etniche, l’assunzione di categorie svantaggiate e le possibilità di formazione durante tutta la carriera lavorativa, il coinvolgimento dei dipendenti nella governance, magari attraverso forme di azionariato. In merito alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro si evidenzia come, nonostante siano aspetti in gran parte già normati dalla legislazione, vi sono spazi per comportamenti responsabili delle aziende che possono sviluppare criteri di certificazione e adottare ulteriori forme complementari di tutela. A causa dei cambiamenti degli assetti economici globali, molte imprese si trovano davanti la necessità di trasformare il proprio assetto industriale; è opportuno che coinvolgano nel procedimento tutte le parti interessate, compreso il personale e le istituzioni pubbliche e cerchino di ridurre quanto possibile i licenziamenti, eventualmente modificando i processi produttivi e supportando la riconversione professionale dei lavoratori. Limitare l’impatto ambientale conviene anche all’impresa in quanto, pratiche come il risparmio energetico o la riduzione dei rifiuti prodotti, possono abbassare i costi di produzione.

Vi è poi la dimensione esterna, che comprende il rapporto con la comunità locale, con i partner commerciali, i fornitori, i consumatori, la promozione dei diritti umani e dell’ambiente a livello planetario. Le comunità locali possono trarre benefici dalla presenza di un’impresa socialmente responsabile ma il rapporto è vicendevole. Un ambiente sano e non inquinato, una comunità vitale e sviluppata con un ricco capitale umano e sociale incidono fortemente sulla crescita di un’impresa. Pertanto un’impresa responsabile dovrebbe favorire lo sviluppo in loco delle professionalità che le necessitano, proponendo percorsi formativi complementari a quelli esistenti, sviluppare servizi per i dipendenti in particolare nel settore dell’infanzia, sostenere le organizzazioni non profit e l’associazionismo, assumere personale tra le categorie svantaggiate e promuovere l’educazione ecologica. Nella pratica della R.S.I. i rapporti con i partner possono essere considerati sotto due aspetti; in primo luogo un’impresa deve prestare attenzione alle attività e ai metodi produttivi delle imprese partner, verificando che siano compatibili con la propria etica, in secondo luogo deve essa stessa adottare uno stile commerciale corretto con le altre imprese con cui entra in relazione, in particolare le PMI che spesso dipendono vitalmente da un’unica grande impresa. Inoltre, una grande impresa può trarre benefici da un sano e virtuoso sviluppo commerciale nei territori ove opera, può quindi avviare programmi di sviluppo dell’imprenditoriale e, attraverso il corporate venturing, sostenere le start-up. È anche opportuno che i prodotti e i servizi commercializzati siano pensati per essere utili e accessibili al maggior numero di persone, compresi i disabili. In materia di tutela dei diritti umani le imprese possono impegnarsi a garantirne il rispetto in tutti i territori ove operano, andando oltre la legislazione locale, adottando propri codici di condotta da estendere a fornitori e partner. È poi importante che nell’ottica di salvaguardare l’ambiente prestino attenzione agli investimenti nei Paesi in Via di Sviluppo (P.V.S.).

La Commissione Europea parte dal presupposto che molte imprese hanno già iniziato a integrare comportamenti responsabili nel loro operato e ritiene che la R.S.I. deve sempre essere volontaria, non imposta dalle istituzioni, che però possono sostenerla e stimolarla. È quindi ritenuta responsabile un’impresa che, rispettando la legislazione in vigore, definisce ulteriori norme sociali in diversi ambiti, come la tutela dell’ambiente o i rapporti con il personale, ad esempio nella formazione. Pertanto, la politica comunitaria sulla R.S.I. proposta nel testo, si basa sul principio che l’intervento pubblico deve essere estremamente ridotto, non deve minare la volontarietà delle imprese, ma deve garantire un quadro generale che favorisca comportamenti responsabili sul piano sociale e ambientale, in particolare favorire la qualità e la convergenza delle procedure osservate, garantirne una verifica indipendente e sostenere le buone prassi. Inoltre, viene suggerito che i principi della R.S.I. siano integrati in tutti gli ambiti delle politiche comunitarie.

 

5. Il dibattito sul Libro Verde: verso un’Alleanza Europea

Il Libro Verde è stato oggetto di una discussione che ha coinvolto tutte le parti interessate, le istituzioni europee, i singoli Stati, le imprese, i sindacati, le organizzazioni non profit, i gruppi ambientalisti e le associazioni dei consumatori. L’esito della discussione è stato riportato nella Comunicazione della Commissione relativa alla Responsabilità sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile del 2 luglio 2002. Emergono posizioni differenti: le istituzioni europee ritengono che la R.S.I. debba essere sostenuta a livello comunitario in tutti gli ambiti d’intervento, le imprese affermano che per essere efficace debba rimanere una pratica volontaria, sindacati e associazioni invece sostengono che siano necessari criteri di valutazione e certificazione, un quadro normativo europeo. In particolare i sindacati ritengono che la R.S.I. non possa supplire all’assenza di una legislazione pubblica in certi ambiti.

Dopo aver elaborato le differenti posizioni, la Commissione ha delineato la politica europea in materia di R.S.I.. Il principio cardine è la sussidiarietà, in quanto la R.S.I. è una scelta volontaria delle imprese che deve essere sostenuta dai poteri pubblici in quanto positiva per lo sviluppo sociale ed economico dell’Unione Europea. Pertanto vengono individuati sette fronti d’intervento della Commissione: 1) fornire maggiori informazioni sullo sviluppo e il positivo impatto della R.S.I. in Europa e nel mondo, in particolare nei P.V.S.; 2) rafforzare lo scambio di buone pratiche socialmente responsabili tra imprese; 3) promuovere lo sviluppo di capacità di gestione della R.S.I. da parte delle imprese; 4) incoraggiare la R.S.I. tra le piccole e medie imprese (P.M.I.); 5) facilitare la trasparenza e la convergenza tra le differenti pratiche di R.S.I.; 6) organizzare l’ “EU Multi-Stakeholder Forum on CSR” un forum comunitario sulla R.S.I. aperto a tutti i soggetti interessati; 7) integrare la R.S.I. nelle politiche comunitarie.

Negli anni successivi, la R.S.I. è stata progressivamente integrata in vari atti e documenti della UE come l’Agenda Sociale, la Strategia per lo Sviluppo Sostenibile, la Piattaforma Europea contro la Povertà e l’Esclusione Sociale e altri. Nel 2006, dopo anni di scambi e consultazioni con il Forum, la Commissione Europea si è fatta promotrice di un’Alleanza Europea per la R.S.I., aperta alle imprese europee di ogni dimensione che liberamente possono aderirvi. Le attività dell’Alleanza sono libere e non vi è nessun vincolo nei confronti delle Istituzioni europee, tanto che viene definita come un “processo politico” non uno “strumento giuridico”. L’obiettivo è favorire lo scambio di buone pratiche connesse con la R.S.I., la nascita di partenariati tra imprese, lo sviluppo tecnologico e scientifico, l’innovazione nei metodi produttivi, con attenzione agli aspetti sociali e ambientali. La Commissione Europea considera l’Alleanza uno strumento utile per implementare gli obiettivi della strategia di Lisbona e ne supporta le attività, pur senza oneri. Nel medesimo documento vengono indicati otto settori prioritari per l’intervento della U.E.: 1) sensibilizzazione e scambio di migliori prassi; 2) sostegno a iniziative multilaterali; 3) cooperazione con gli Stati membri; 4) informazione dei consumatori e trasparenza; 5) ricerca; 6) educazione; 7) piccole e medie imprese (PMI); 8) dimensione internazionale della RSI.

 

6. La nuova strategia europea

Nel 2011 la Commissione Europea ha varato la Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese. Questo documento indica un passaggio cruciale per le politiche europee in materia di R.S.I., poiché partendo dalle precedenti elaborazioni e iniziative, avvia un nuovo corso d’azione.

In primo luogo vengono esaminati i risultati raggiunti, evidenziando come sia aumentato il numero di imprese socialmente responsabili, evidenziato dall’adesione a diverse piattaforme europee come il Forum o l’Alleanza o internazionali come il Global Compact, l’EMAS, la Business Social Compliance Iniziative e il Global Iniziative Reporting e dalle iniziative adottate come la stipula di accordi transnazionali con le organizzazioni dei lavoratori e altre buone prassi. In secondo luogo si propone una nuova definizione di R.S.I., più sintetica e onnicomprensiva: la R.S.I. è la “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”. In tale definizione rientra quindi il rispetto per la legislazione, internazionale e statale, l’attenzione per le questioni sociali e ambientali, la trasparenza, il rapporto con gli stakeholder.

Nel testo sono però anche evidenziate le criticità e i cambiamenti nel contesto europeo. Nonostante i risultati raggiunti la R.S.I. non ha una diffusione omogenea, molte aziende non hanno integrato pratiche responsabili nelle loro strategie, mentre altre sono ancora accusate di violare i diritti umani. In seguito alla crisi economica i cittadini europei hanno una scarsa fiducia nei confronti degli imprenditori e del sistema finanziario, pertanto la diffusione di buone prassi in campo sociale e ambientale, una maggiore trasparenza sulla rendicontazione e la comunicazione delle attività aziendali, può da un lato ridurre l’impatto della crisi e dall’altro migliorare il rapporto con l’opinione pubblica.

La nuova strategia parte dal presupposto che la R.S.I. deve essere gestita e sviluppata dalle imprese in dialogo con le parti sociali, e l’intervento pubblico deve quindi essere minimo, limitato alla proposta di misure politiche volontarie (come il Forum o l’Alleanza) e alla regolamentazione complementare, come criteri di certificazione, rendicontazione, bilancio e incentivi di mercato (ad esempio negli appalti pubblici). Le imprese hanno sempre richiesto di poter sviluppare autonomamente le proprie pratiche responsabili ma ritengono che sia importante che vi siano criteri di certificazione determinati da un’autorità pubblica.

 

7. Gli otto campi d’azione

La Strategia si suddivide in otto campi d’azione: 1) promozione della visibilità della RSI e diffusione delle buone pratiche; 2) miglioramento e monitoraggio dei livelli di fiducia nelle imprese; 3) miglioramento dei processi di autoregolamentazione e coregolamentazione; 4) aumento del "premio di mercato" per la RSI; 5) migliore divulgazione da parte delle imprese delle informazioni sociali e ambientali; 6) ulteriore integrazione della RSI nell’ambito dell’istruzione, della formazione e della ricerca; 7) accentuazione dell’importanza delle politiche nazionali e subnazionali in materia di RSI; 8) migliore allineamento degli approcci europei e globali alla RSI.

La Commissione Europea ritiene fondamentale l’elaborazione e la circolazione delle buone pratiche di R.S.I. in modo che si possa estendere a tutti gli ambiti e gli aspetti della produzione, pertanto si fa essa stessa promotrice di campagne e iniziative mirate oltre che dell’istituzione di piattaforme di dialogo tra le imprese e gli stakeholder in settori in cui non sono ancora presenti. Viene prestata particolare attenzione alle PMI. 

La Commissione rileva inoltre come il livello di fiducia dei cittadini nei confronti delle imprese sia basso, questo anche a causa di comportamenti scorretti e false dichiarazioni sulle proprie attività (in particolare il cosiddetto “greenwashing”). Viene quindi proposta l’implementazione della normativa in materia, in particolare attraverso la relazione riguardante la direttiva sulle pratiche commerciali sleali, e l’istituzione di forme di confronto tra cittadini e imprenditori sul ruolo dell’impresa.

Questi aspetti si connettono con il miglioramento dei codici di coregolamentazione e autoregolamentazione. La Commissione riconosce l’efficacia di tali codici di condotta che diversi settori produttivi hanno adottato, tanto da averli riconosciuti parte dell’Agenda “per legiferare meglio”. Ritiene però che, per essere veramente efficaci, debbano essere elaborati insieme con tutte le parti sociali coinvolte e la presenza di istituzioni pubbliche e specificare gli impegni assunti da ogni parte con indicatori di prestazione, le modalità di monitoraggio, la verifica delle prestazioni, il loro adeguamento alle esigenze e la rendicontabilità per eventuali reclami. La Commissione inoltre si impegna ad aprire in futuro un processo di regolamentazione condiviso sulla R.S.I. 

Viene poi rilevato come, sebbene in molti casi l’implementazione di pratiche socialmente responsabili porti al miglioramento delle prestazioni e delle competitività aziendale, vi sono situazioni in cui questa risulti meramente un costo e non porti vantaggi. Per incentivare le imprese, si rende quindi necessario un premio di mercato che può essere dato dai consumatori, dagli investitori e da soggetti pubblici. I consumatori esprimono sensibilità verso le questioni ambientali e sociali e tendono a preferire aziende responsabili, non sempre però trovano informazioni chiare e accessibili, non tutte le aziende hanno modalità comunicative trasparenti e spesso gli stessi prodotti hanno un prezzo più alto. La Commissione si impegna quindi a trovare soluzioni per incentivare il consumo responsabile.

La Commissione si è inoltre posta l’obiettivo di sviluppare un sistema finanziario più trasparente e responsabile, promuovendo normative che favoriscano la circolazione delle informazioni non finanziarie sugli investimenti e la certificazione di buona governance fiscale delle imprese. Si ipotizza inoltre di rendere obbligatoria l’informazione sugli investimenti responsabili e le eventuali certificazioni da parte di tutti gli operatori finanziari verso i loro clienti.
Anche attraverso gli appalti pubblici possono essere premiate le imprese socialmente responsabili. La Commissione invita i soggetti pubblici ad integrare negli appalti criteri ambientali e sociali, di non-discriminazione delle PMI e trasparenza, pur rispettando il quadro giuridico della UE.
Un aspetto importante per la promozione della R.S.I. è la diffusione delle informazioni sulle prestazioni ambientali e sociali delle imprese. Attualmente vi sono già molte imprese che lo fanno spontaneamente, alcuni Stati hanno già una propria normativa e vi sono anche iniziative internazionali, ma è opportuno avere criteri omogenei a livello comunitario, accessibili anche alle PMI.

È altresì importante che la R.S.I. entri in contatto con il mondo della formazione e della ricerca. Le scuole sono invitate a integrare i propri programmi con i temi inerenti alla cittadinanza responsabile, tra cui l’R.S.I., in particolare le scuole di commercio sono invitate a sottoscrivere i principi delle Nazioni Unite per l’educazione alla gestione responsabile. La Commissione si impegna poi a continuare il finanziamento della ricerca accademica in materia di R.S.I. e a sostenere finanziariamente progetti di educazione alla R.S.I. nei programmi “Apprendimento Permanente” e “Gioventù in Azione”.
Considerando che molti progetti e iniziative di supporto alla R.S.I. sono attuati a livello nazionale o locale, è importante che i singoli Stati implementino politiche proprie. È quindi obiettivo della Commissione che ogni Stato definisca le proprie strategie e favorire la revisione tra pari delle politiche statali.

È infine utile anche il collegamento con il livello internazionale, pertanto la Commissione intende favorire l’adesione delle imprese ai principi e alle linee guide indicati dalle organizzazioni sovranazionali e accentuare il ruolo della R.S.I. nella politica estera comunitaria.

 

8. Conclusioni

Dopo aver descritto le principali tappe delle politiche europee in materia di R.S.I. Si può provare a definirne le principali caratteristiche.

In primo luogo, è opportuno identificare i diversi attori e il ruolo che svolgono. Sin dai primi documenti, come il Libro Verde, appare chiaro che le istituzioni pubbliche comunitarie si attribuiscono un ruolo molto leggero, di promozione e sostegno, non di regolamentazione se non per precisi e limitati aspetti. Il soggetto pubblico deve guidare e promuovere processi e attività che soggetti privati, come le imprese, mettono spontaneamente in atto.

Il secondo attore in gioco sono le imprese, al quale è riconosciuto il ruolo principale. Sono infatti le imprese a elaborare le proprie pratiche responsabili, a individuare le possibili implicazioni sociali ed ambientali della produzione e a trovare creativamente soluzioni. Gli atti di policy europei evidenziano come le imprese devono essere libere di decidere i tempi e le modalità del proprio agire responsabile.

Il terzo attore sono le parti sociali che coinvolgono i sindacati, le associazioni dei consumatori, il terzo settore, i movimenti ambientalisti e altre espressioni della società civile. Alle parti sociali viene attribuito il ruolo di esprimere l’interesse della società e dei gruppi particolari che rappresentano e negoziare con le imprese soluzioni condivise. Partecipano quindi attivamente all’elaborazione della R.S.I.

Pertanto si ha un quadro di policy ove il soggetto pubblico, le istituzioni comunitarie, definiscono una cornice politica ove soggetti privati, imprese e parti sociali possono spontaneamente agire e contrattare. È ricorrente infatti l’uso delle locuzioni “quadro politico” e “processo politico” in riferimento alle iniziative della Commissione. In pratica viene promosso e sostenuto qualcosa che esiste già per intervento pregresso di soggetti privati, una concreta espressione del principio della sussidiarietà.

L’intervento pubblico si sviluppa in diverse forme di azioni. La Commissione Europea, agli albori del nuovo millennio, ha avviato le politiche europee sulla R.S.I. lanciando, attraverso il Libro Verde, una pubblica consultazione con tutti i soggetti coinvolti e definendo in seguito le policy in base ai feedback ricevuti. In questo primo atto di policy possono essere visti tre assi portanti: il sostegno alla capacità di gestione ed elaborazione delle imprese, la facilitazione del rapporto e della negoziazione tra imprese e tra imprese e parti sociali, in particolare attraverso la definizione di strumenti politici come il Forum e successivamente l’Alleanza, l’integrazione del concetto di R.S.I. in diversi settori delle politiche comunitarie.

La successiva Strategia per il periodo 2011-2014 prosegue sulla medesima linea incentrata sul principio di sussidiarietà, pur prevedendo un maggior intervento in alcuni ambiti come il finanziamento della ricerca, gli appalti pubblici, la trasparenza e la regolamentazione.

Le istituzioni comunitarie identificano la R.S.I. come uno strumento per implementare la strategia di Lisbona, per sviluppare il modello sociale ed economico europeo. Questo evidenzia un particolare interessante: l’implementazione delle politiche europee non compete esclusivamente a soggetti pubblici (comunitari, statali, locali) ma anche a soggetti privati for-profit come le imprese. Negli atti comunitari di policy vi sono azioni o interventi che sono riferiti esclusivamente alle imprese e che vedono un semplice ruolo di stimolo e proposta per i soggetti pubblici.

La R.S.I. appare chiaramente come un’espressione della volontà delle imprese e della loro negoziazione con le parti sociali. Non è poi da trascurare il ruolo del sindacato per la negoziazione dei diritti dei lavoratori, delle condizioni di sicurezza sul lavoro e del welfare aziendale, delle associazioni dei consumatori per la trasparenza e la qualità dei prodotti, dell’associazionismo per la tutela dell’ambiente e il rapporto con la comunità locale che si può esprimere in progetti di welfare rivolti alla collettività. Nell’ultima Strategia viene evidenziato anche il ruolo dei cittadini che in quanto consumatori possono favorire essi stessi la R.S.I., premiando con l’acquisto le imprese più responsabili.
 

Riferimenti

Alford H, Il pensiero sociale cristiano e le deboli radici etiche della responsabilità sociale d’impresa. Può il primo a contribuire a risolvere il problema per la società in generale?, in, Alford H, Compagnoni F a cura di, Fondare la responsabilità sociale d’impresa, Roma,Città Nuova, 2008

Carrera L., Gli intricati percorsi della responsabilità sociale d’impresa, in “Studi di Sociologia”, n. 4, 2005

Compagnoni F, Diritti umani e responsabilità sociale d’impresa. Fondamenti e problemi aperti, in, Alford H, Compagnoni F a cura di, Fondare la responsabilità sociale d’impresa, Roma, Città Nuova, 2008

Monciardini D, Percorsi di responsabilità sociale, in “Sociologia del diritto”, n. 2, 2009

Sacco P. L., Viviani M., La responsabilità sociale d’impresa: un percorso a partire dal dibattito italiano, working paper AICCON, n.11, 2005 (aggiornato 2007)

Sena B., Verso un’operativizzazione del bene comune realizzato dall’impresa, in, Alford H, Compagnoni F a cura di, Fondare la responsabilità sociale d’impresa, Roma, Città Nuova, 2008

Shcherbinina Y, Sena B., Strumenti concettuali per una riformulazione della responsabilità sociale d’impresa, in, Alford H, Compagnoni F a cura di, Fondare la responsabilità sociale d’impresa, Roma, Città Nuova, 2008

Zamagni S., L’ancoraggio etico della responsabilità sociale d’impresa e la critica alla RSI, working paper AICCON, n. 1, 2004