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Nel 2015 la «Buona Scuola» ha reso la alternanza scuola lavoro obbligatoria per tutti. Una scelta giusta. Ma dietro alla legge non c’era nessun piano di attuazione. Evidentemente il governo di allora pensava che presidi e insegnanti avrebbero saltato gli ostacoli tirandosi su per i capelli, come il barone Münchhausen. Alcuni volenterosi ci sono riusciti, è vero. E quasi miracolosamente diverse promettenti iniziative sono state avviate. Ma sono isole in un mare nel quale la maggioranza delle scuole rischia oggi di affondare.

Eppure non ci voleva molto a capire che senza risorse, preparazione e organizzazione l’alternanza non poteva decollare. Bastava guardare agli altri Paesi europei. I quali per realizzare l’alternanza hanno investito denaro pubblico, formato i docenti per svolgere compiti nuovi, creato nuove figure di «insegnanti-in-impresa» specializzati nella didattica work-based. Nessuno studente è pagato, ma tutti imparano realmente. Le parti sociali, gli enti locali, le associazioni intermedie sono state sensibilizzate e incentivate. Senza provvedimenti del tipo «fiat lux», ma con un paziente lavoro politico (nel senso nobile del termine: l’impegno a risolvere i problemi collettivi).

A chi vuole farsi un’idea della superficialità con cui questa delicatissima riforma è stata gestita consiglio di visitare il sito del Miur alla voce alternanza. Un misto di roboanti paroloni e stucchevole burocratese. Le sezioni più interessanti del sito sono «coming soon»: aspetta e spera. La conseguenza più grave (anch’essa facilmente prevedibile) di questo colossale fallimento è l’esasperazione degli studenti e la loro tentazione a considerare l’insuccesso di una politica governativa come la prova che mercato, imprese, globalizzazione hanno come vero e principale obiettivo lo sfruttamento selvaggio dei più deboli. Una piccola riforma utile ma irresponsabilmente gestita rischia così di causare una spirale non solo di protesta, ma anche di delegittimazione dell’intero processo di riforma del sistema educativo. Le sirene massimaliste (quelle che «tanto peggio, tanto meglio») sono già all’opera. I nostri giovani saranno così ulteriormente incoraggiati a rimpiangere il mondo di ieri invece di impegnarsi per costruire quello di domani.


Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 14 ottobre col titolo "
Imparare in azienda, ma servono le risorse" ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore