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Nell’ambito dell’Assemblea annuale dell’Anci, sono state presentate alcune ricerche che indagano, in particolare, la condizione di enti locali e cittadini nell’attuale congiuntura socio-economica. Presentiamo qui i risultati, alcuni dei quali inaspettati. Ad esempio, si afferma il ruolo dei Comuni che, nonostante i vincoli e i tagli ai finanziamenti, continuano a investire nelle politiche sociali, oltre a guadagnare una fiducia crescente da parte dei cittadini. 

La percezione dei cittadini

Siamo abituati a guardare la crisi dall’esterno, con gli occhi di studiosi o governanti, ma cosa pensano i cittadini delle sfide e dei problemi che l’Italia e le proprie città devono affrontare? Per rispondere a queste domande Cittalia e SWG hanno realizzato l’indagine demoscopica “La Repubblica dei Comuni nel XXI secolo”, che è stata presentata nell’ambito dell’ultima giornata dei lavori dell’Assemblea annuale dell’Anci a Firenze. Realizzata su un campione di 2500 persone, l’indagine si articola in una prima parte dedicata alla percezione degli italiani degli effetti della crisi e dei fattori che rallentano il processo di modernizzazione del Paese e una seconda dedicata al ruolo dei Comuni.

Paura e pessimismo dominano: ben l’83% degli intervistati ritiene che il Paese stia regredendo e per l’88% la crisi durerà a lungo. Dal 2009 al 2013 è raddoppiato il numero di coloro che si sentono direttamente colpiti dalla crisi, toccando il 31%, e sono aumentate le preoccupazioni per pagare le bollette, le spese mediche e alimentari. Interessante è che, rispetto al 2009, i timori più sentiti si confermano quello di perdere i risparmi accumulati (43%) e di non riuscire a mantenere lo stesso tenore di vita (39%) – paure tipiche di una società che recede da uno stadio di benessere – , ma si contraggono rispetto a nuove preoccupazioni, come quella di perdere il posto di lavoro, di non avere i mezzi per curare un familiare, di aiutare i figli o doversi indebitare, che sono invece sintomi dell’aggravarsi della situazione e dell’affermazione di una condizione di povertà persistente (Figura1).

Figura 1. I principali timori dei cittadini intervistati di fronte alla crisi



Fonte: Anci, 2013.

Quali sono invece le percezioni relative agli enti locali? Gli intervistati hanno individuato come fattori che rendono le città meno vivibili la presenza di cittadini extracomunitari (+17%), la difficoltà nei rapporti con gli altri cittadini (14%) e la carenza di politiche per i giovani (12%), segni di un problema di coesione sociale e solitudine. Le infrastrutture risultano l’ambito in cui il comune deve investire prioritariamente (34%, +14% rispetto al 2002), seguito immediatamente dalla pulizia della città (27%, +11% rispetto al 2002).

L’indagine rivela inoltre una crescente fiducia nei Comuni da parte dei cittadini. Si tratta infatti delle istituzioni che secondo gli intervistati spenderebbero meglio le risorse per la crisi. Nella generale sfiducia verso le istituzioni, il sindaco è il soggetto che detiene la maggiore fiducia dei cittadini (40%), rispetto al presidente di Regione e Provincia – nonostante ben il 45% dichiari di non avere fiducia in nessuno di questi. Il 23% degli italiani vorrebbe essere maggiormente coinvolto nelle scelte per la città. Emerge infatti la volontà degli italiani di partecipare attivamente alla vita del governo locale: ben l’80% si dichiara interessato a partecipare alle scelte del proprio comune. Quasi il 50% è infine consapevole che i trasferimenti agli enti locali sono calati drasticamente e il 62% ritiene che ciò abbia influito pesantemente sui servizi offerti. 

L’Italia nella crisi

Durante l’assemblea è stata presentata anche l’indagine Cittalia-Anci "L’Italia nella crisi".

Primo aspetto significativo è l’andamento demografico. Dal 2001 al 2012 la popolazione italiana è cresciuta del 4,3%, ma l’incidenza sul totale della popolazione è aumentata solo nel caso della fascia anziana – addirittura quella dei grandi anziani (con più di 85 anni) è salita del 37%-, mentre quella dei minori in età scolare e degli adulti fino a 64 anni è diminuita. Sono dati che confermano l’ormai nota tendenza a un progressivo invecchiamento della popolazione italiana (Figura 2) e che, se da una parte rispecchiano un positivo segnale di miglioramento delle condizioni di vita, dall’altra sollevano serie questioni di sostenibilità economica e sociale. Al contempo infatti la fascia con la più bassa crescita è stata quella delle forze lavoro (15-64 anni).
 

Figura 2. La composizione della popolazione residente in Italia per fasce d’età

   Fonte: Anci, 2013.

Se non si riesce ad invertire la tendenza favorendo l’aumento nascite (assistiamo ad una contrazione della dimensione media familiare, con 1.4 figli per donna), non avremo abbastanza forze lavoro per mantenere l’attuale produzione e per sostenere la sempre più numerosa popolazione inattiva (giovani e anziani). La sola popolazione immigrata, infatti, non riesce a supplire la nostra mancanza di giovani, nonostante il significativo contributo al numero delle nascite – i bambini tra 0 e 4 anni stranieri si attestano al 21%, contro il 4% degli italiani. In tema di popolazione straniera, l’indagine rivela che dal 2001 al 2012 questa è salita al 6,8% della popolazione totale, con una crescita della componente femminile, sempre più richiesta nel mercato di cura alla persona. La fascia d’età prevalente tra la popolazione immigrata è quella che va dai 15 ai 64 anni, che risulta più che triplicata negli ultimi otto anni, ma tassi elevati si registrano anche per i bambini al di sotto dei 14 anni. Un chiaro segnale di una progressiva tendenza alla stabilizzazione degli stranieri nel nostro Paese, analogamente a quanto già accaduto in altri Paesi europei di più antica tradizione migratoria.

A questi dati di natura demografica, vanno affiancati quelli legati alla crisi del lavoro e all’acuirsi delle condizioni socio economiche delle famiglie italiane. Continuano le ricadute della crisi, con un tasso di disoccupazione che si attesta al 12,2%. A risentirne sono soprattutto le donne (13,1% contro l’11,4% degli uomini) – in particolar modo al Sud, dove la sola disoccupazione femminile raggiunge un valore relativo del 21,6% – e i giovani (15-24enni) tra i quali l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 40,1% (in aumento di quasi 5 punti su base annua). Rispetto alla disoccupazione totale, quella giovanile (nella differenza tra femminile e maschile) mostra una composizione più variegata: seppur lo svantaggio femminile sia sempre nettamente maggiore, sono presenti alcune province in cui il disagio lavorativo appartiene ai giovani uomini.

Dal 2007 al 2012, inoltre, la “geografia” del lavoro nel nostro paese è andata radicalmente mutando, almeno nei suoi trend. Se i valori assoluti continuano a vedere la tradizionale “Italia divisa in due” con il Nord vicino ai tassi europei e il Sud ben al di sotto di tali medie, la crescita della disoccupazione risulta peggiore al Nord, che risente pesantemente della crisi economica.

Va quindi menzionata la diffusione di condizioni di precarietà e di impoverimento anche tra coloro che in precedenza sembravano al riparo da tali rischi, soprattutto a seguito dell’instaurarsi della difficile congiuntura economica. Rispetto al 2005, il numero delle famiglie in condizione di povertà relativa è aumentato di 2,6 punti percentuali (+84.000 unità), mentre il numero di individui relativamente poveri ha visto un incremento superiore a due punti percentuali (+2,7%). Ma in particolare l’incremento più significativo è avvento proprio nell’ultimo anno, tra il 2011 e il 2012. Per quanto riguarda la povertà relativa delle famiglie, il fenomeno è maggiormente diffuso nel Mezzogiorno (26,2%), dove l’incidenza della povertà relativa è più del doppio rispetto alla media nazionale e quasi 5 volte superiore rispetto a quella registrata al Nord (6,2%) e al Centro (7,1%).

In questo quadro generale i Comuni hanno spesso assunto un ruolo di guida, sostituendosi allo Stato, anch’esso attraversato da una profonda crisi di consenso e governabilità. Nonostante i vincoli imposti alla finanza comunale dal patto di stabilità interno e i tagli ai finanziamenti statali per le politiche sociali – consideriamo che dei 7 miliardi e 127 milioni di euro spesi per l’assistenza sociale erogata a livello locale nel 2010, quasi il 63% è finanziato con risorse dei bilanci comunali, mentre i contributi statali riescono a finanziare una quota minoritaria (poco più del 13%) e le Regioni il 16,8 -, i Comuni hanno comunque continuato a implementare la propria funzione sociale, che ha acquisito una sempre maggiore importanza nei bilanci comunali. All’interno della spesa corrente delle Amministrazioni comunali, il 17,1% delle risorse nel 2010 è stata destinata al Settore Sociale, confermandosi una delle principali voci di intervento dei Comuni. Famiglia e minori, anziani e persone con disabilità sono i principali destinatari delle prestazioni di welfare locale: su queste tre aree di utenza si concentra quasi l’83% delle risorse impiegate.

 

Riferimenti

La Repubblica dei Comuni nel XXI secolo

L’Italia nella crisi. Un profilo della condizione socio-economica della popolazione italiana, a cura di Monia Giovannetti e Niccolò Marchesini, Cittalia – Fondazione ANCI Ricerche