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Era il 29 gennaio 2014 quando venne depositata la proposta di legge contente “Norme finalizzate alla promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro”. Oggi, a distanza di tre anni, il Lavoro Agile è diventato legge all’interno del DDL sul lavoro autonomo, che comprende anche la disciplina dello smart working. Di seguito qualche spunto per capire contenuti, prospettive e limiti del provvedimento.


I contenuti della legge

La legge definisce lo smart working come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa". Il fatto che non sia stato concepito come tipologia contrattuale è significativo, perchè ha evitato una rigidità legislativa che ne avrebbe compromesso il principio fondante di flessibilità.

È importante inoltre che sia stata specificata la differenza rispetto al telelavoro – rispetto al quale non sempre è chiara la distinzione – definendo il lavoro agile come “prestazione lavorativa eseguita in parte all’interno di locali aziendali e, senza una postazione fissa, in parte all’esterno entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Il telelavoro prevede invece che la prestazione lavorativa si svolga esclusivamente al di fuori dell’azienda.

La legge stabilisce poi la modalità di attivazione del Lavoro Agile, la forma che deve assumere l’accordo tra le parti, cosa questo debba disciplinare, la retribuzione del lavoratore e infine la tanto dibattuta questione relativa a salute e sicurezza.

L’accordo con il quale il lavoratore passa alla “modalità smart” deve essere stipulato per iscritto specificando i tempi di lavoro e di riposo e il diritto alla disconnessione dalla strumentazione tecnologica lavorativa, è inoltre risolvibile unilateralmente da entrambe le parti previo preavviso.
Allo smart worker spettano una retribuzione e un trattamento normativo conformi a quanto stabilito dal contratto collettivo; restano applicabili eventuali incentivi fiscali e contributivi in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato.

Al fine di garantire il diritto del lavoratore alla tutela contro infortuni e malattie professionali, il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa.


Alcune criticità

Una questione aperta resta indubbiamente la responsabilità datoriale in materia di sicurezza e prevenzione, rispetto a cui il quadro normativo non è del tutto esaustivo, e per il quale il Governo emanerà una circolare per fare maggiore chiarezza.

Un altro aspetto che andrà chiarito è quello del coordinamento tra le disposizioni di legge e gli accordi di smart working già esistenti, rispetto ai quali non è stato previsto un periodo transitorio di coordinamento.


Un interesse crescente verso lo smart working

La Ricerca 2016 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano aveva rilevato una forte crescita delle iniziative strutturate di smart working nelle grandi imprese, il 30% di queste ha intrapreso o consolidato nell’ultimo anno misure agili di lavoro contro il 17% dell’anno precedente. Se consideriamo le PMI il numero scende drasticamente (13%), ma tra queste le imprese che si dichiarano contrarie a misure di lavoro agile sono scese dal 48% al 27%.

Attualmente tra i 22 milioni di lavoratori in Italia, si contano circa 300 mila smart worker effettivi e 5 milioni potenziali, di cui 3,7 milioni in aziende private e 1,3 milioni nelle PA. Dal 2013 c’è stato un incremento del 40%, come trasformazioni di rapporti di lavoro già esistenti, per un valore pari al 7% dei dipendenti.

Il tema del lavoro agile e dei vantaggi che porta – aumento della produttività dei dipendenti, migliore conciliazione vita-lavoro e conseguente riduzione dell’assenteismo, miglioramento del clima aziendale – è ormai noto tra l’opinione pubblica e a livello governativo. Anche le PA hanno mosso i primi passi con l’approvazione finale del testo di riforma del Pubblico Impiego avvenuta a marzo, che ha confermato l’obiettivo di offrire ad almeno il 10% dei lavoratori forme di flessibilità entro il 2018.

Ora è necessario attivare processi sistematici di riorganizzazione del modello aziendale, seguendo i tanti esempi di grandi imprese che hanno messo in atto questo cambiamento. La grande sfida, come su altri fronti, resta l’apertura di questa possibilità nelle PMI, che costituiscono oltre il 95% delle attività produttive del nostro Paese.