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Il 18 settembre, alla presenza del Ministro Elsa Fornero e della vice-presidente del Senato, Emma Bonino, Save the Children ha presentato il dossier “Mamme nella crisi”. Il documento raccoglie ed elabora, attraverso un’analisi critica, una serie di dati statistici in grado di offrire uno spaccato sulle condizioni delle madri in Italia, in questi tempi di crisi. Quello che emerge è una situazione a dire poco preoccupante, in cui i colpevoli ritardi della politica italiana, tanto sui temi delle pari opportunità quanto nella promozione di una vera cultura della condivisione delle responsabilità di cura tra madri e padri, rendono il Paese manifestamente impreparato a fare fronte alle pesanti conseguenze che la crisi economica sta già ora producendo sui nuclei familiari e in particolare sulle donne e sui bambini.

L’Istat ci ha recentemente confermato che in Italia il lavoro di cura è ancora distribuito in modo assolutamente sproporzionato tra uomini e donne, e il quadro non è migliore per quanto riguarda la rappresentanza femminile nella sfera pubblica (su questo punto si rimanda all’interessante studio “Le donne e la rappresentanza” dell’ANCI): lavoro, cura e partecipazione alla vita pubblica sono tre sfere di fatto inconciliabili per gran parte delle donne di questo paese. Ciò è prevalentemente dovuto al fatto che i livelli di copertura dei servizi per la prima infanzia e l’organizzazione del lavoro continuano ad alimentare una specializzazione di genere totalmente svincolata dalle reali potenzialità che le donne possiedo nella prospettiva della crescita economica e sociale del paese. Inutile dire che una migliore distribuzione dei carichi di cura tra i sessi sarebbe in grado di innescare un circolo virtuoso di riallineamento della rappresentanza politica delle donne rispetto a quella degli uomini, con effetti anche significativi sulla definizione dell’agenda politica attorno ai temi dell’infanzia e della conciliazione tra lavoro e cura (Bonoli e Reber, 2009).

È innegabile che dai tempi della legge Carcano del 1902 – che introduceva per la prima volta nel nostro paese una forma di tutela della maternità (quattro settimane di congedo non retribuito dopo il parto) – diversi passi fondamentali sono stati compiuti nella direzione di promuovere la conciliazione tra lavoro e cura nel contesto più ampio delle pari opportunità. Il dossier di Save the Children, ripercorre nel primo capitolo proprio le tappe più importanti di tale processo: dalle leggi di tutela delle lavoratrici madri (L. 860/1950 e L.1204/1971), a quella istitutiva degli asili nido (L.1044/1971), dalla legge 903 del 1977 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, alla legge che promuove “Azioni positive per la realizzazione della parità tra uomo e donna nel lavoro” (L.125/1991); per giungere alla Legge 53 del 2000 che, attraverso una regolamentazione avanzata dei congedi parentali ha allineato il nostro paese, almeno da questo punto di vista, ad altre realtà europee già sensibili da tempo ai temi della conciliazione. La normativa di riferimento ha poi trovato collocazione organica nel decreto legislativo 151/2001 (“Testo Unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”).

Purtroppo, né la pur favorevole cornice normativa, né il progressivo superamento dei coetanei da parte delle ragazze nei risultati scolastici e nei livelli di educazione (si veda a questo proposito l’approfondimento di “ingenere”) sono ancora riusciti a scalfire una radicata cultura della specializzazione di genere. Questo stato delle cose, come era prevedibile, è destinato a subire un progressivo e rapido peggioramento nella congiuntura di crisi: i fenomeni del gap retributivo di genere, della segregazione orizzontale e di quella verticale rischiano di raggiungere livelli tali da compromettere i “timidi” risultati in termini di pari opportunità fino ad ora raggiunti nel nostro paese.

Vediamo ora alcuni passaggi particolarmente significativi del dossier:

La fertilità e l’occupazione femminile in Italia
Il ricambio generazionale è garantito nella società dal raggiungimento della cosiddetta “soglia di sostituzione”, pari a 2,1 figli per donna. L’Italia, fino alla Seconda guerra mondiale stabilmente al di sopra di tale valore, è scesa sotto la soglia di sostituzione già nel corso degli anni Cinquanta (Barbagli e Kertzer, 2003). Da allora il tasso di fertilità, con piccole oscillazioni, ha continuato a diminuire, assestandosi negli ultimi trent’anni attorno ad 1,4 – vale a dire uno dei valori più bassi d’Europa (Eurostat). In questa cornice, le regioni del Mezzogiorno presentano oggi tassi di fertilità inferiori a quelli delle regioni settentrionali, confermando il legame diretto che si riscontra anche nel resto d’Europa tra maternità e condizioni economico-sociali femminili: sono i paesi che attuano politiche di conciliazione tendenti a favorire l’ingresso e il permanere delle donne nel mercato del lavoro ad avere anche i tassi di fertilità più alti.

Per quanto riguarda i tassi di occupazione e la maternità, il dossier mette in evidenza che solo il 32,2% delle madri con bambini/ragazzi sotto i 15 anni di età lavora, contro il 47,9% delle donne senza figli. Esattamente il contrario di quanto avviene per gli uomini: lavora il 68,5% dei padri contro il 57,9% degli uomini senza figli (confermando la tendenza ad un maggior ancoraggio al mercato del lavoro degli uomini con figli a carico).

Anche quello dei congedi parentali si conferma un punto dolente delle pari opportunità: di esso, secondo i dati Istat aggiornati al 2010, ha usufruito il 45,3% delle madri, contro il 6,9% dei padri (e questo nonostante la previsione, nella legislazione vigente, di un mese “premio” per la coppia, se il padre usufruisce di un congedo non inferiore a tre mesi).

Il part-time, strumento di flessibilizzazione nell’organizzazione dell’orario di lavoro, può rispondere tanto alle necessità produttive della parte datoriale, quanto alle esigenze di conciliazione dei lavoratori e delle lavoratrici. In particolare in Italia, il part-time “ha permesso di attivare un’offerta di lavoro femminile potenziale che rimaneva inattiva perché, a causa degli impegni familiari, non aveva la possibilità di dedicare al lavoro l’intera giornata/settimana lavorativa o aveva necessità di orari di lavoro meno rigidi e non aveva potuto accedere a posizioni già consolidate, come l’insegnamento o certi tipi di impiego nel settore pubblico caratterizzati da orari ridotti rispetto al tradizionale full time di 40 ore settimanali” (“Mamme nella crisi”, p. 26). Tuttavia è bene non sottovalutare il peso che, nella scelta del part-time giocano, da un lato, l’assenza di una adeguata offerta di servizi di cura sul territorio (si veda in tal senso la figura 1), e, dall’altro, la componente del part-time involontario, cioè dei casi in cui tale scelta è determinata da condizioni critiche del mercato del lavoro: «se osserviamo i dati disaggregati per regione, si può notare come il fenomeno non si distribuisca omogeneamente su tutto il territorio nazionale. La scelta del part time per mancanza di occupazione a tempo pieno è fortemente influenzata dai mercati del lavoro regionali e le chance occupazionali “costrette” non sono che la conseguenza di un adattamento della forza lavoro alle criticità strutturali dei diversi territori. È proprio nei contesti dove è più forte la sofferenza occupazionale, dove i tradizionali indicatori del mercato del lavoro fanno segnare performance critiche, che la quota di lavoratori che svolge un’attività a tempo parziale non per scelta è più alta. Ad esempio per gli uomini, in Sicilia la percentuale è di 81 punti, in Calabria di 79,7, in Puglia 74,6, in Campania 74,2, in Basilicata 72,8 e in Sardegna 71,7. Incidenze simili si registrano anche per la componente femminile nelle medesime regioni» (“Mamme nella crisi”, p. 30). Il fatto che le donne siano spesso “costrette” al part-time per la carenza di politiche conciliative, o per la natura della domanda, in determinati mercati del lavoro, ha del resto forti conseguenze sul piano delle opportunità di carriera per la popolazione femminile attiva e dell’entità delle prestazioni pensionistiche a favore delle anziane di domani.

Figura 1. Distribuzione percentuale del numero delle occupate femmine che svolgono un lavoro a tempo parziale per prendersi cura dei figli, di bambini o di altre persone non autosufficienti, per tipologia di servizio assente/inadeguato e regione (anno 2011)

Fonte: “Mamme nella crisi”, settembre 2012, p. 29 (su dati di Italia Lavoro, “Bollettino statistico”, 2011).

 

Le “dimissioni in bianco”
Le politiche di conciliazione tra lavoro e cura divengono ancora più cruciali nella prospettiva di combattere l’odioso fenomeno delle dimissioni in bianco, una pratica non degna di un paese civile, che troverebbe, almeno in parte, un naturale antidoto nel riequilibrio dei carichi di cura nei confronti dei figli durante il primo anno di vita. Purtroppo, in questo momento di crisi, il fenomeno è destinato ad allargarsi – come sottolineato nel dossier di “Save the Children” – soprattutto in assenza di una normativa efficace. La legge 188/2007, che disponeva per le lettere di licenziamento una numerazione progressiva alfanumerica soggetta a convalida della Direzione Provinciale del Lavoro (previsione che rendeva assai difficile al datore di lavoro fare firmare in bianco la lettera di dimissione alle lavoratrici, in attesa di compilare la stessa al momento opportuno), è stata abrogata dal successivo governo di centro-destra per esigenze di semplificazione e riduzione dei costi (si veda “Mamme nella crisi” p. 26). I dati sono allarmanti: «L’Istat stima che nel 2008-2009, circa 800 mila madri siano state licenziate in occasione o a seguito di una gravidanza e di aver subito pressioni in tal senso […]. Nelle rilevazioni del 2009, il fenomeno, già cronico, si inasprisce e oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio non risulta come una libera scelta da parte delle donne. Nel 2009, l’8,7% del campione intervistato di madri che lavorano o hanno lavorato in passato hanno dichiarato di essere state costrette dalle aziende a lasciare il lavoro» (“Mamme nella crisi” p. 26). La lettura immediata delle dimensioni del fenomeno e del suo inasprimento nel contesto della crisi emergono dalla figura 2 riportata qui di seguito.

Figura 2. Percentuale di interruzioni per costrizione sul totale di interruzioni in occasione di una gravidanza


Fonte: “Mamme nella crisi”, settembre 2012, p. 27.

 

La carenza di servizi per la prima infanzia
Nel nostro paese la copertura dei servizi per i bambini da 0 a 3 anni si conferma decisamente al di sotto degli obiettivi stabiliti al vertice di Barcellona del 2002 (33% di copertura entro il 2010). I dati ci dicono che negli ultimi anni tutte le regioni italiane hanno compiuto uno sforzo di avvicinamento a tali target anche he se le regioni meridionali partivano da un gap molto significativo e rimangono tuttora decisamente distanti dai livelli di copertura auspicabili. Tuttavia, è bene ricordare che tale incremento complessivo è stato determinato essenzialmente da un impegno finanziario consistente – e purtroppo ormai esaurito – dello Stato, che con il Piano straordinario nidi del Governo Prodi ha messo a disposizione 446 milioni di euro (più un cofinanziamento regionale complessivo pari a 281 milioni di euro).
La crisi apre scenari non ottimistici su questo versante, come sottolinea l’analisi di Save the Children, con riferimento in particolare alla “tensione incoerente tra domanda e offerta” (dovuta allo sforzo di aumentare la copertura in una congiuntura in cui sempre più famiglie non saranno in grado di sostenere le rette e quindi ridurranno la domanda di servizi), “polarizzazione dell’accesso” (bambini di “famiglie fragili” accolti nel servizio pubblico, bambini di famiglie abbienti inseriti in servizi privati e bambini del ceto medio destinati ad alimentare il mercato irregolare delle baby sitter) ma soprattutto “dispersione dell’investimento sulla qualità” (esigenza di economizzare sul servizio riducendo i fattori di qualità) (“Mamme nella crisi”, 2012, p. 40).

Crisi economica e riduzione della spesa sociale: quale impatto sulle madri?
Sappiamo che la spesa sociale per famiglie e minori in Italia è tra le più basse d’Europa. Essa era infatti pari, nel 2009, all’1,4% del Pil (contro il 2,3% medio in Europa). La crisi ha del resto spinto il Governo Italiano a compiere, negli ultimi due anni, tagli pesanti ai Fondo nazionale per le politiche sociali (si veda in tal senso il dossier a pagina 37 e 38). La prospettiva del difficile contemperamento tra maternità e lavoro – perfettamente colta dall’analisi di Save the Children – è che questi tagli stanno avendo un doppio effetto negativo sulle donne: «Poiché le prime spese ad essere tagliate sono state quelle per i servizi, l’impatto di questi interventi ha avuto effetto soprattutto sulle donne, sia direttamente, colpendo l’occupazione femminile, più fortemente concentrata nei settori dei servizi pubblici, sia indirettamente, tagliando quella parte di spesa pubblica come gli asili, l’istruzione, l’assistenza agli anziani o i trasporti.» (“Mamme nella crisi”, 2012, p. 37).
Il quadro dell’impatto della crisi che emerge dal dossier è quindi allarmante, perché conferma l’acuirsi di quei problemi che già esistevano nel paese prima del 2008 e che tuttavia oggi acquistano dimensioni macroscopiche. Si tratta, in particolare, della diffusione del precariato tra le giovani donne, una componente assolutamente strategica della popolazione italiana per quanto riguarda i trend demografici del futuro e la competitività dell’economia del paese. Giova ricordare che il lavoro atipico non è destinatario di garanzie equiparabili a quelle stabilite, nei primi mesi di vita del bambino, per il lavoro a tempo indeterminato. Questo significa che sempre più giovani donne, nel nostro paese, si troveranno ad affrontare la maternità in condizioni di fragilità contrattuale; ed è altrettanto probabile che la stessa fragilità venga sperimentata dai padri, che fino ad oggi avevano garantito il reddito principale della famiglia (come emerge dalla figura 3).

Figura 3. Percentuale di occupati (15-24) con contratti temporanei sul totale degli occupati per sesso, per trimestri.

Fonte: “Mamme nella crisi”, settembre 2012, p. 32, su dati Eurostat.

 

Il dossier “Mamme nella crisi” conferma inequivocabilmente l’esistenza di una serie di condizioni che tendono ad amplificare i rischi di esclusione sociale per le donne e i loro bambini (come emergeva chiaramente anche nel rapporto “Il paese di Pollicino”) ed in particolare: il livello di istruzione, il numero di figli, l’area geografica di residenza, il fatto di essere immigrati, la monoparentalità, l’intermittenza della carriera lavorativa.

Save the Children presenta inoltre, arricchendo in tal modo le opportunità di dibattito, alcune testimonianze di mamme nella crisi. Noi ci permettiamo di riportarne una, in particolare, che ci sembra emblematica delle sfide che un numero crescente di giovani donne, madri e lavoratrici, si trova oggi ad affrontare nel nostro Paese.
 

Fonte: “Mamme nella crisi”, settembre 2012, p. 16.

 

Riferimenti

Save the Children, 2012, “Mamme nella crisi”

Istat, 2011, “La conciliazione tra lavoro e famiglia”

Cittalia, 2010, “Le donne e la rappresentanza”

Barbagli, M. e Kertzer, D.I. (a cura di), 2003, Storia della famiglia in Europa, Roma-Bari, Editori Laterza

Bonoli, G. e Reber, F., 2009, The political economy of childcare in Oecd countries: Explaining cross-national variation in spending and coverage rates, in «European Journal of Political Research», vol.49, n.1, pp.97-118.
 

                

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