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Gli anziani con più di 65 anni sono più di tredici milioni, più di un quinto della popolazione. E’ comprensibile che le loro esigenze siano al centro del dibattito politico e che le pensioni e la sanità assorbano la parte preponderante della spesa sociale. Si tratta del “welfare per la sicurezza e la cura”, rivolto a quei cittadini che hanno già dato il loro apporto alla collettività durante la vita attiva. Non un costo, dunque, ma un giusto ritorno per il lavoro svolto, l’impegno sociale, i contributi versati e le tasse –che peraltro continuano ad essere pagate anche durante il pensionamento. Il problema delle risorse non può tuttavia essere ignorato. Ogni dato anno, pensioni, sanità, servizi per gli anziani devono essere finanziati dal gettito di quell’anno. Le imposte e i contributi del passato sono stati già spesi, non c’è alcuna “riserva” disponibile. Anzi, da decenni lo stato italiano spende più di quanto incassa.

Per alimentare il “welfare per la sicurezza” è indispensabile avere alti tassi di crescita e di occupazione. Su questo fronte l’Italia è messa male. La produttività è da anni in declino rispetto ai paesi concorrenti. La quota di lavoratori sulla popolazione adulta (18-65) è fra le più basse d’Europa. Fra le cause, vi è anche l’assenza di politiche pubbliche mirate ed efficaci. Abbiamo urgente bisogno di un “welfare per la crescita e la competitività”, che affianchi le persone – a cominciare dai giovani e dalle donne in generale – nei loro percorsi lavorativi, garantisca formazione permanente, consenta la conciliazione famiglia-lavoro, fornisca ammortizzatori sociali intelligenti, faciliti la mobilità e la flessibilità. Lo stato deve essere il regista del “welfare per la crescita”, ma molto può e deve essere fatto a livello decentrato, grazie alla collaborazione fra imprese e sindacati. E’ la strada imboccata, con grande successo, dalla Germania. Anche noi stiamo facendo i primi passi, prima col Jobs Act, ora con il ventaglio di misure a favore della contrattazione aziendale. Ma occorre procedere più speditamente e investire più risorse.

Serve infine un “welfare per l’inclusione attiva”, rivolto alle fasce più deboli. L’Italia ha da anni una preoccupante anomalia: i più deboli sono i minori che vivono in famiglie disagiate, con i genitori disoccupati o inattivi, collocati ai margini estremi del mercato del lavoro. Molti di questi bambini e adolescenti abbandonano la scuola e non riescono a inserirsi (i famosi Neet: circa un milione e mezzo). Il loro capitale umano è basso, in molti casi persino più misero di quello dei loro genitori. Nei confronti di questi giovani la società ha doveri di inclusione non inferiori ai doveri di protezione verso gli anziani. Non si tratta solo di equità, ma anche di efficienza. Senza robuste passerelle che immettano nel mercato del lavoro studenti motivati e competenti, il motore della crescita s’inceppa prima ancora di dar frutti sul piano della produttività e dell’occupazione. Sul versante dell’inclusione dobbiamo ribadire una scomoda verità: siamo sempre stati la cenerentola d’Europa e non stiamo facendo quasi niente. Il governo ha dato qualche segnale, prima con le misure di contrasto alla povertà (compresa quella educativa), ora con una legge delega sul riordino dell’assistenza. Ma sono, francamente, pannicelli caldi.

Da qualche settimana si è riacceso il dibattito sulle pensioni. A gran voce si propone di re-introdurre flessibilità in uscita (alcuni chiedono addirittura che ciò avvenga senza penalizzazioni) ed di estendere il bonus da 80 euro a chi ha prestazioni basse. Con un conto che può raggiungere i dieci miliardi di euro. Di crescita e inclusione nessuno si preoccupa. E’ tempo di capovolgere il ragionamento. Il welfare per la competitività e quello per l’inclusione sono condizioni necessarie per continuare a finanziare il welfare per la sicurezza. Non si tratta di mettere in contrapposizione giovani, adulti e anziani. Ma di capire che senza investimento nei primi e nei secondi non può esservi protezione sostenibile per chi non lavora più. Abbassiamo dunque le luci sulle pensioni e accendiamole sulle politiche per il mercato del lavoro, per la formazione, l’istruzione, il contrasto alla povertà dei minori. Senza proclami e dogmatismi. E con l’impegno a introdurre misure concrete ed ambiziose nella prossima legge di Stabilità.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera dell’8 aprile