Questo l’articolo segna ufficialmente l’inizio della "contaminazione" tra Percorsi di secondo welfare e Tempi Ibridi, il blog di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai. Si tatta di un "aggregatore di contenuti" in cui confluiscono idee e riflessioni utili ad affrontare le grandi sfide poste dai cambiamenti in atto nel nostro Paese, osservate attraverso le lenti del non profit e dell’impresa sociale. Un punto di vista che al nostro Laboratorio interessa molto, e che quindi da oggi inizieremo a proporvi anche sulla nostra piattaforma.


L’economia dei servizi fatica ad assorbire l’impatto tecnologico per farne innovazione sociale e sviluppo economico.
Prevale infatti una lettura evolutiva in cui una nuova classe di tecnologie e di organizzazioni (le startup digitali) si sostituisce alla old economy dei servizi. Non che industria e agricoltura abbiano risolto il problema, però sembrano aver individuato più chiaramente percorsi di gestione del cambiamento che, in sintesi, consistono nel ricombinare la tecnologia con l’umano, superando lo spiazzamento della prima sul secondo per alimentare catene di produzione dove il valore è multidimensionale e condiviso. Ambiente e società non rappresentano quindi mere esternalità, ma hanno un ruolo armonico nella produzione del valore che non è da estrarre in termini di massimo profitto, ma da reinvestire per rendere “diversamente accessibili” beni e servizi legati a economie di luogo.

Un cambio di rotta che risponde all’esigenza di recuperare competitività a fronte di una domanda caratterizzata da un combinato disposto micidiale: meno risorse e più esigenze di personalizzazione. E così l’agricoltura sociale potenzia il carattere inclusivo della sua economia, mentre l’industria 4.0 stressa il ruolo delle soft skills in un contesto dove fino a ieri a farla da padrone erano competenze tecnospecialistiche. Insomma una maggiore capacità di assorbimento da parte dei settori primario e secondario, mentre il terziario arranca.

Ma se le cose stanno così, addossare le colpe all’innovazione tecnologica serve a poco, anzi rischia di essere fuorviante.

Una parte non secondaria del problema è il modo in cui i servizi sono stati concepiti e gestiti negli ultimi decenni, ben prima dell’avvento delle ICT. A prevalere infatti è stato il modello della routine e delle procedure per linee gerarchiche, non a caso oggetto di standard gestionali e certificatori che ne hanno definito il carattere “industriale”. Solo che oggi molte di queste routine girano a vuoto soprattutto in settori come il welfare che strutturalmente hanno fatto fatica a digerire la standardizzazione, comunque poi imposta attraverso modelli di public management ispirati a criteri di efficienza gestionale e pianificatoria e che hanno via via limato i caratteri di creatività e adattabilità, ovvero gli elementi fondanti del carattere relazionale del servizio, degradandolo così a mera prestazione.

Insomma si è fatto un grosso errore, ovvero assumere che i modelli organizzativi siano neutri rispetto all’identità delle organizzazioni, un assunto sbagliato che oggi ci restituisce un alto prezzo da pagare in termini di costi legati al cambiamento. Non a caso l’innovazione sociale consiste, in un logica manageriale, “nel cambiare profondamente le routine fondamentali” e con esse “i flussi di risorse e di autorità e le credenze del sistema sociale” come ci ricordano Davide Lampugnani e Patrizia Cappelletti in un loro recente saggio.

La stretta tecnocratica sui servizi sembra aver raggiunto il livello massimo di incidenza, condannata da un utilizzo delle risorse che guadagna sempre meno in termini di efficienza e perde sempre più sul versante dell’efficacia. Un trade off che mette fuori mercato molti servizi già a bassa marginalità e sempre più esposti al rischio di essere superati da nuovi modelli. Questa maturità avanzata dei service model industriali scollina verso il declino a causa di un mutamento sostanziale dello scenario, anche per effetto di tecnologie che, guarda caso, abilitano la capacità di organizzare “self-made communities” che sfuggono da modelli di intermediazione tradizionale sempre meno capaci di cogliere la pluralità dei bisogni e impermeabili rispetto a qualsivoglia volontà di partecipazione, di attraversamento della famigerata linea del servizio. In questo consiste l’autentico carattere distruttivo dell’innovazione digitale: nel fatto di aver spostato il fulcro della competizione dall’organizzazione e governo razionale dei fattori produttivi dell’offerta all’engagement della domanda. La gig economy, in tal senso, insegna, anche con i suoi limiti: socializzare a basso costo la domanda pagante e smobilitare asset materiali e immateriali sottoutilizzati diventa il vero fattore di competitività.

Forse per questa ragione si assiste all’emergere di nuovi modelli di servizio. O meglio al trasferimento di modelli di servizio tra contesti e mercati diversi, generando ibridazione per “trasferimento tecnologico”. Ecco una prima, parziale, categorizzazione.

  • Servizi embedded, cioè incorporati in altri beni (materiali e immateriali). È ormai un modello maturo, fonte di valore per economie tradizionali (ad esempio l’automobile).
  • Servizi come hosting: raccolgono competenze di coinvolgimento che abilitano la coproduzione ingaggiando soggetti diversi, fruitori in primo luogo ma non solo.
  • Servizi come performance: utilizzano l’elemento performativo unico e personalizzato, fatto su misura.

Cosa succede se si applica questa biodiversità di modelli nel campo della produzione di valore sociale? Ecco alcuni effetti interessanti:

  • la dimensione routinaria /erogativa continua ad essere importante a patto che sia valorizzata la componente di senso, ad esempio legata ad adempimenti certificatori non meccanici ma di significato (qualità e accreditamento come pratiche legate a una mission chiara del servizio e dell’organizzazione o del mix di organizzazioni che lo erogano);
  • la dimensione embedded è visibile in un sociale distribuito e condiviso con economie territoriali inclusive e coesive;
  • la dimensione hosting è invece la funzione base di luoghi di aggregazione e coesione sociale (community hub);
  • la componente performativa è visibile in produzioni culturali che incorporano in maniera intenzionale obiettivi di protezione e coesione sociale, accoglienza, inclusione e ri-generazione.

Tutto questo, al fondo, sollecita i modelli di crescita di alcuni segmenti dell’economia dei servizi come il terziario sociale che fin qui si è sviluppato in modo disordinato. Da una parte grandi attori (anche cooperativi) fortemente verticalizzati grazie a fusioni e incorporazioni, alfieri del modello industriale e, in qualche caso, consapevoli della necessità di recuperare competitività superando gli schemi tradizionali. Dall’altra un pulviscolo di fornitori che operano su micro prestazioni che se non riescono a dotarsi di una chiara proposizione di valore rischiano di permanere (o di scivolare) in una precarietà economica e gestionale strutturale. Nel mezzo PMI (spesso sociali) che sgomitano per mantenere un equilibrio tra capacità di produrre servizi in volumi adeguati senza sacrificare la componente relazionale, investendo su processi di co-creazione e su competenze di community building.

Individuare il modello di scaling è quindi cruciale e la risposta va trovata ricombinando le dimensioni sopra-citate all’interno di un modello “platform based” (Leloux 2016 – Reinventare le organizzazioni). Ricombinare processi di crescita “deep” (personalizzazione) e “wide” (espansione) richiede nuovi modelli organizzativi, perché le economie di scala su questo insieme di servizi (anche quelli routinari) sono praticamente inesistenti e perché strumenti come brand e franchising faticano ad affermarsi a fronte di una domanda sempre più recalcitrante ad affidarsi “in bianco”.

Una partita complicata e dall’esito incerto, ma se ci sarà un vincitore potrà giocare un ruolo importante in un comparto decisivo per testare nuovi modelli di economia e socialità.


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