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È notizia di questi giorni quella relativa alla riduzione dei fondi disponibili per la Cassa Ammende, soggetto dotato di personalità giuridica e istituito presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con la Legge n. 547/1932 e oggi disciplinata dall’art. 44-bis della Legge n. 14/2009. Si tratta di un taglio lineare secco, che porterà al licenziamento di circa un terzo del personale oggi assunto dalle cooperative presenti nelle carceri grazie alle disposizioni della Legge n. 193/2000, rubricata “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”, conosciuta anche come Legge Smuraglia.

Le ragioni di tali tagli sono state in prima lettura ricondotte allo stato generale delle finanze pubbliche e hanno ricevuto forti critiche dagli operatori del settore, dall’opinione pubblica e da buona parte della classe politica. Allo stato attuale, nelle carceri italiane operano circa una decina di cooperative sociali, che hanno come scopo quello della rieducazione del detenuto e del suo futuro reinserimento nel tessuto sociale. Ciò che sorprende è che la sperimentazione avviata nel 2004, che prevedeva l’affidamento della gestione delle mense interne delle carceri ad alcune cooperative sociali, aveva trovato tutti concordi nel riconoscere i positivi risultati.

I tagli di cui si discute andranno a colpire soggetti che operano in un contesto particolare, dove per forza di cose appaiono più evidenti – in senso positivo o in senso negativo – gli effetti delle politiche adottate. La domanda più sensata in questo momento è dunque: cosa accadrà a quelle cooperative toccate dalla decisione del DAP? In questo senso appare utile prendere in considerazione i dati relativi a una delle realtà più note che opera all’interno del sistema carcerario italiano: la cooperativa Giotto. Questa è presente nelle carceri da oltre vent’anni e dal 2004 gestisce la mensa della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova, dove ogni giorno vengono preparati e serviti colazioni, pranzi e cene per i quasi 900 detenuti, grazie al lavoro remunerato di alcuni di loro.


Gli effetti dei tagli, tra questioni economiche e ideali
 

A proposito della recidiva, i cui costi sulle finanze pubbliche sono significativi se si pensa che l’esborso giornaliero per un carcerato nel 2013 è stato all’incirca di 125 euro, non si può evitare di citare qualche numero. Le elevatissime percentuali medie si riducono drasticamente laddove operino soggetti in grado di svolgere attività analoghe a quelle svolte dalla cooperativa Giotto. Si parla di punte del 90% di recidiva per carcerati non coinvolti in programmi rieducativi del genere di quelli qui in discorso, a fronte di una recidiva media dei soggetti beneficiari di tali percorsi intorno al 2%.

I motivi che stanno alla base di dati così eloquenti risiedono chiaramente nel fatto che la possibilità di apprendere un mestiere durante il periodo di reclusione consente di limitare le difficoltà inerenti la ricerca di un impiego successivamente alla liberazione. Ma l’impatto sociale di realtà come quelle citate non si spiega semplicemente con le prospettive di lavoro che può avere un carcerato che ha ricevuto un qualche tipo di formazione professionale. Durante la detenzione, laddove svolta partecipando ad alcuni dei programmi che le cooperative mettono in campo all’interno delle carceri, i detenuti percepiscono uno stipendio che – con le debite differenze – è comunque legato al sistema di mercato: questo consente a non pochi dei carcerati di contribuire dal carcere alle economie familiari. Non c’è bisogno di esplicitare il fatto che una simile possibilità contribuisce significativamente al mantenimento di quei rapporti indispensabili ad un re-inserimento successivo del carcerato nel tessuto familiare e dunque sociale.

Ancora, si può richiamare un ulteriore impatto positivo, con specifico riferimento a quelle realtà che offrono – attraverso il lavoro dei carcerati – servizi mensa all’interno delle strutture: nel percorso rieducativo e nel processo di apprendimento professionale, la qualità dei pasti offerti all’interno dei carceri nei quali il servizio è previsto, è notevolmente cresciuto nel corso degli anni. Anche qui sembra ovvio sottolineare le ricadute positive che una alimentazione sana comporta in termini di benessere psico-fisico, contribuendo positivamente al recupero pieno della persona, oltre che alla riduzione delle spese per i farmaci eventualmente necessari per le frequenti precarie condizioni di salute dei carcerati.

In ogni caso giova l’esemplificativo caso di scuola spesso riportato anche sui media: è il caso del detenuto che esce di galera e torna a “scippare la vecchietta”, che a sua volta cade e si rompe il femore, dando così luogo alle spese sanitarie per l’ospedale, le spese della sicurezza per la polizia che arresta il delinquente oltre a quelle giudiziarie una volta compiuto il passaggio in tribunale e, infine al costo del carcere. La filiera, che nell’esempio sembra banale, grava significativamente sulle finanze pubbliche e in ultima analisi su tutti i cittadini. Basti pensare che alcuni si spingono a sostenere che ogni carcerato che non torna a delinquere significa un risparmio di un centinaio di migliaia di euro: insomma, il lavoro in carcere sembrerebbe convenire tanto all’uomo che allo Stato.


Perché le carceri possono essere un caso studio per la finanza sociale

Quanto ora sommariamente illustrato potrebbe anche non trovare cittadinanza in qualche visione politica che ritenesse fuori luogo l’impiego di risorse (pubbliche) a favore di chi abbia commesso atti penalmente rilevanti e perciò si trovasse privato della propria libertà. L’obiezione frequente è quella relativa alla inopportunità di offrire lavoro ai carcerati in un momento che vede la disoccupazione giovanile ai massimi storici. Sarebbe in sostanza ingiusto che chi ha commesso un errore si trovi privilegiato rispetto alla possibilità di lavorare, mentre chi si è sempre attenuto al rispetto della legge dovesse annaspare nelle condizioni disastrose dell’attuale mercato del lavoro.

A tale obiezione potrebbero essere offerte numerose risposte, tra le quali alcune di carattere più ideale. In realtà, considerato quanto sopra illustrato, ciò che è interessante sottolineare è la capacità di determinate attività svolte dalle cooperative di generare risparmi considerevoli per le casse del settore pubblico, il quale si troverebbe nelle condizioni di avere somme maggiori per sviluppare politiche attive su altri fronti. L’impatto di un percorso lavorativo e rieducativo è notevole e le sue ricadute positive si possono registrare anche su differenti capitoli della spesa pubblica (non solo dunque per i costi dell’amministrazione penitenziaria, ma si pensi ad esempio al risparmio in termini di sussidi di disoccupazione o anche alla diminuzione dei costi per la sicurezza o alla sanità). Alla luce di queste osservazioni risulta ancora più sorprendente il fatto che programmi rieducativi come quelli realizzati dalla cooperativa Giotto siano assolutamente l’eccezione all’interno del sistema carcerario italiano. Su una popolazione di circa 50.000 detenuti meno di un migliaio beneficiano di simili percorsi di accompagnamento e rieducazione.

Dunque il problema emerso in questo recente periodo chiede assolutamente di trovare soluzioni: se non per ragioni di tipo umanitario, almeno sulla base di elementi puramente legati ad una logica di maggiore efficienza economica complessiva. E le soluzioni da ricercare non sono finalizzate semplicemente al ripristino delle attività sino ad ora svolte, ma addirittura dovrebbero mirare a stabilizzare la presenza delle cooperative che fanno lavorare i carcerati, facendo diventare tale fenomeno la regola e non l’eccezione. Non a caso l’attuale vicedirettore del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria ha dichiarato che il motivo per cui queste esperienze nelle carceri sono state chiuse è che la Cassa ammende finanzia sì le attività di reinserimento dei detenuti, però solo in fase di start-up: non poteva mantenerle a vita e, ad un certo punto, le attività avrebbero dovuto essere capaci di procedere con le proprie gambe. Ora, al netto dell’opportunità o meno di sacrificare esperienze in corso all’altare di un criterio di per sé condivisibile anche se accidentalmente giocato in regime di spending review, i termini del problema appaiono abbastanza chiari.

In sostanza, pur essendo vero che si potrebbe discutere circa l’adeguatezza di invocare principi di mercato, quali l’efficienza e la sostenibilità economica, laddove chi li sostiene appare essere il primo a concepirsi da questi esente, si tratta comunque di valutare quali iniziative o quali sistemi siano in grado di rendere sostenibili, anche da un punto di vista economico, le attività svolte dalle cooperative, magari senza scaricare integralmente la questione sulle loro spalle, e dunque immaginando sistemi di incentivi o partnership tali da consentire di portare i servizi offerti su scala nazionale, a livello di sistema. Ecco perché i problemi emersi in queste settimane, con riferimento ai temi della finanza sociale, costituiscono un primo caso di studio tutto italiano.


I tre modelli teorici di riferimento

Occorre pertanto individuare i possibili modelli teorici di riferimento con i quali sono stati generalmente affrontati casi del tipo di quello sopra illustrato. In via approssimativa e senza pretesa di esaustività, lasciato per ora a margine un sistema “puro” di finanziamento pubblico, si possono segnalare tre “vie” generalmente percorse nella ricerca di soluzioni a problemi connessi con il sostegno economico di attività private a finalità sociale. Si tratta chiaramente di una semplificazione, tuttavia è utile iniziare a segnalarli nei loro aspetti generali.

1) Detrazioni e donazioni: lo Stato sempre meno intermediario

Un primo modello, tipico del sistema statunitense, gioca su scelte concernenti la politica fiscale. Si tratta in sostanza di predisporre un sistema di deduzioni (o anche detrazioni) che consenta di fatto ai privati di allocare risorse proprie a favore di realtà (pubbliche o private) che si adoperino nella risposta ad alcune esigenze pubbliche (Bakija 2013). Un modello che poggiasse su una serie di possibili deduzioni (o detrazioni) fiscali presenta alcuni vantaggi. La possibilità di dedurre (o detrarre) le somme donate ad attività a finalità pubblica o sociale, considerato che simili esperienze spesso ricevono finanziamenti pubblici, sostanzialmente significa eliminare un passaggio, quello del prelievo fiscale da parte dello Stato che poi di norma “gira” le somme percepite al soggetto destinatario dell’aiuto pubblico. In tal modo si può registrare una riduzione dei costi di transazione e quindi un aumento delle disponibilità per il soggetto destinatario della donazione. Inoltre, la possibilità che il privato scelga a chi dare i propri soldi è da molti considerata come l’introduzione di uno strumento utile per lo sviluppo di una dimensione democratica nei processi di produzione e erogazione di servizi a finalità sociale i quali, seppur regolamentati e individuati attraverso la previsione ex lege di deduzioni o detrazioni, sarebbero di fatto consegnati alla libera scelta del cittadino. Non si tratta comunque di un sistema di incentivi perfetto, posto che presenta anche taluni profili critici.

Oltre alle più ovvie obiezioni in termini di equità, un possibile profilo critico potrebbe riguardare l’ipotesi che solo alcuni servizi sociali, quelli percepiti come più urgenti dai cittadini, riceverebbero donazioni da parte dei privati, con la conseguenza che altri e diversi bisogni potrebbero rimanere invece scoperti. Un sistema di deduzioni o detrazioni eliminerebbe di fatto il ruolo dello Stato come intermediario, tuttavia l’asimmetria informativa tra i cittadini e le imprese che svolgono attività a finalità pubbliche è elevata, anche a causa di una scarsa trasparenza del terzo settore e delle difficoltà connesse alla valutazione dell’effettivo impatto sociale. Una possibile conseguenza è quindi quella della c.d. selezione avversa, per la quale le somme offerte dai privati alle imprese sociali (in senso lato) tenderebbero a diminuire, insieme alla qualità dei servizi erogati dai beneficiari: è pur vero che qui si tratta di realtà legate anche a motivazioni di tipo ideale e il rapporto che si instaura tra donatori e beneficiari è in parte diverso da quello che intercorre tra venditore e acquirente, tuttavia, che sia lo Stato o meno, la presenza di un intermediario sembra essere necessaria.

Inoltre, prese le mosse da un caso di studio italiano, occorre valutare la fattibilità di un simile metodo risolutivo: proprio a causa delle criticità sopra evidenziate, occorre immaginare qualche intervento di intermediazione che, se non direttamente, almeno in via indiretta consenta di regolamentare il processo di finanziamento delle attività in discorso. Si tratterebbe quindi di esercitare quella attività che è definita “ruling”, ossia l’adozione di una normativa che stabilisca l’entità delle deduzioni o delle detrazioni, insieme a dei parametri, anche legati all’impatto positivo sulle finanze pubbliche, che il destinatario della donazione è in grado di assicurare.

2) L’intermediazione delle fondazioni filantropiche

Un secondo modello di riferimento conosciuto è quello che prevede il ricorso a realtà altamente capitalizzate o che godano comunque di endowments significativi, le quali sono in grado di sostenere iniziative come quelle delle cooperative sociali operanti nelle carceri. Questo modello mette al centro del proprio funzionamento realtà filantropiche come quelle rappresentate in Italia dalle fondazioni di origine bancaria. Un sistema filantropico “forte” dipende da molteplici fattori, sia di natura culturale che legati al sistema politico ed economico. Come abbiamo già fatto in altri nostri interventi, si può segnalare il forte cambiamento che è in corso nel mondo della filantropia, caratterizzato dall’emersione di nuovi soggetti e nuovi strumenti.

Il modello che prevede importanti spazi di intervento occupati dal mondo della filantropia, mentre non esclude specifiche scelte di politica fiscale, si differenzia dal precedente per il fatto di “inserire” alcune istituzioni private tra i cittadini e il mondo delle imprese sociali (intese in senso lato, facendovi quindi rientrare anche le cooperative da cui si è partiti). Anche qui si possono segnalare con una certa approssimazione alcuni profili di interesse e alcune criticità. Infatti, le fondazioni filantropiche supportano da tempo il terzo settore e, sulla base della loro consolidata esperienza, hanno acquisito una conoscenza approfondita dei bisogni sociali e dei tentativi di risposta messi in campo dalla società civile. In altri termini possiedono un know-how significativo, in particolare conoscono in modo approfondito quelle che possono essere considerate le best practices. Con riferimento al contesto italiano si deve riconoscere che un simile sistema di supporto al terzo settore presenta l’indubbio vantaggio della sua fattibilità: molte imprese sociali e cooperative devono la loro sostenibilità economica ai contributi delle fondazioni di origine bancaria, le quali da tempo sono impegnate in tal senso, di fatto assolvendo al ruolo che una volta era stato svolto dallo Stato.

Tale elemento in parte assolve al bisogno di “recuperare” quella asimmetria informativa di cui si è fatto cenno poc’anzi. Tuttavia non si può negare che una significativa asimmetria informativa esista anche tra i cittadini e le fondazioni stesse. Di più, si deve considerare che gli introiti delle fondazioni, che costituiscono la base della loro capacità di erogazione, provengono dagli utili prodotti dagli istituti bancari di cui le fondazioni detengono alcune quote: sebbene indirettamente, i capitali a disposizione delle fondazioni di origine bancaria, sono formati dagli utili derivanti dagli acquisti che i privati hanno effettuato di determinati servizi bancari, dunque a prescindere da logiche di tipo filantropico e di finalità pubblica. Su tali elementi, alcuni critici del sistema delle fondazioni di origine bancaria, oltre a censurare la scarsa trasparenza di tali soggetti e delle attività da questi poste in essere a favore del terzo settore, segnalano come il limite spesso attribuito al sistema dei finanziamenti pubblici è riscontrabile anche con riferimento al sistema delle erogazioni filantropiche: il meccanismo dell’erogazione a fondo perduto (seppur bilanciato da eventuali oneri specifici di rendicontazione) porterebbe ad una crescente dipendenza dal sistema delle fonazioni di origine bancaria del terzo settore, con il correlato rischio di logiche assistenzialistiche che costituirebbero un limite alla crescita del privato-sociale.

A tali critiche si può aggiungere una ulteriore osservazione, sulla base di quanto segnalato di recente a proposito della possibilità di concepire le fondazioni come laboratori di politiche pubbliche: se le fondazioni hanno risorse (economiche e know-how) sufficienti per farsi carico del rischio connesso all’innovazione sociale, il loro contemporaneo impegno per il sostegno dell’ordinaria attività del terzo settore rischierebbe di tradursi nella sottrazione di buona parte delle proprie risorse al sostegno di attività innovative che le fondazioni, meglio di altri soggetti, sembrerebbero in grado di assicurare nel modo più efficiente.

3) Il modello ibrido dell’impact investing

Un terzo modello di riferimento, infine, consiste nel più recente e celebre sistema dell’impact investing, di cui si è qui già discusso. In particolare lo strumento dei social impact bond si presenta come un tentativo di ibridazione dei due modelli precedenti, che mira a preservarne i profili ritenuti più positivi: da un lato, il coinvolgimento dei privati nella scelta dei servizi sociali che fossero ritenuti più utili ed efficaci, attraverso una logica di “democrazia finanziaria” che consentirebbe attraverso il sistema delle deduzioni e detrazioni l’esercizio di una scelta diretta e libera; dall’altro una visione dei servizi sociali come sistema di redistribuzione della ricchezza attraverso attività filantropiche, magari debitamente incentivate, ma comunque concepite come complementari ai sistemi di Stato e mercato, in un’ottica di distribuzione dei rischi secondo le capacità di farsene carico di ciascun soggetto.

Tuttavia un simile modello ha mostrato anche i propri limiti: oltre ad una complessità che rende difficile considerare lo strumento dei social impact bonds come un meccanismo perfetto e attuabile a prescindere dalle specificità del contesto politico-istituzionale-sociale nel quale va ad esser utilizzato, bisognerebbe misurarsi con elevati costi di transazione, da alcuni ritenuti tali da rendere sconveniente il ricorso a simile sistema di partnership. Peraltro la struttura di un social impact bond, prevedendo il coordinamento di una molteplicità di differenti soggetti, porrebbe seri problemi a livello di governance e di distribuzione dei rischi (politici, finanziari, reputazionali, ecc.) (Burand 2013). Ancora, il sistema dei contratti pay-by-results o pay-for-success, se talvolta si è dimostrato migliore di altri schemi per una allocazione ottimale delle risorse economiche, in taluni altri casi sembra aver giocato come incentivo per distorsioni nelle attività svolte dai c.d. social service providers, i quali potrebbero essere spinti a trascurare le attività principali per concentrarsi su quelle più facilmente misurabili (McHugh et al. 2013).

Questi modelli contrattuali hanno in taluni caso portato le organizzazioni a modellare la fornitura dei servizi sulla base dei termini del contratto anziché sulla soddisfazione dei clienti, con la conseguenza che i soggetti più vulnerabili e in maggiore difficoltà si troverebbero trascurati poiché occuparsi di loro in modo soddisfacente richiederebbe sforzi, tempi e costi elevati: in altri termini, si rivelerebbe preferibile concentrare le attività sulla “clientela migliore”, raggiungendo così più agilmente i risultati “da contratto” o comunque incentivati.

Infine, tra le critiche che trovano spazio nei confronti dei social impact bonds bisogna segnalare le difficoltà connesse alla misurazione dell’impatto sociale di determinate azioni, posto che anche qualora si individuassero metriche adeguate, rimarrebbe almeno in parte aperto il nodo relativo al nesso di causalità tra azioni svolte e risultati ottenuti, non sempre univocamente individuabile. Il rischio implicito nei social impact bonds consiste nella propensione ad utilizzare un semplicistico e automatico meccanismo di causa-effetto, per il quale un intervento sarebbe sempre qualcosa in grado di generare effetti chiaramente riconoscibili e ad esso riconducibili. Alcune di queste difficoltà trovano poi indiretta conferma dal fatto che in numerose esperienze di social impact bond, al netto dell’apporto finanziario dei privati, un ruolo decisivo continuerebbe ad essere svolto da realtà filantropiche come le fondazioni, le quali spesso entrano nella partnership proprio a garanzia degli investimenti effettuati.

La necessità di una nuova soluzione

Con le debite specificazioni e considerando anche possibili differenze nella visione delle relazioni tra pubblico e privato, si deve riconoscere che tutti i modelli sino ad ora illustrati non sembrano pienamente soddisfacenti per rispondere in modo effettivo e a livello di sistema al problema posto dal caso delle cooperative che offrono lavoro ai detenuti delle carceri, assumendo il compito della gestione delle mense interne.

È quindi evidente la necessità di individuare una nuova possibile soluzione al problema di cui abbiamo trattato nella prima parte di questo articolo. Si ritiene che una nuova soluzione dovrebbe, sulla scia dei social impact bonds, tentare di salvaguardare alcuni aspetti essenziali e ritenuti vantaggiosi nel quadro dei rispettivi modelli teorici di riferimento: da un lato, si tratta in sostanza di valorizzare – eventualmente attraverso sistemi incentivanti le scelte individuali – la partecipazione dei privati nella identificazione dei bisogni sociali, nella costruzione di risposte adeguate e nella promozione di best practices; dall’altro, occorre individuare soggetti capaci di svolgere la necessaria funzione di intermediazione tra i capitali c.d. pazienti e le realtà più efficienti ed efficaci operanti nel sociale, oltre che attori idonei a veicolare capitali e know-how consistenti per il sostegno e lo sviluppo, soprattutto nelle prime fasi iniziali, di esperienze imprenditoriali ad alto impatto sociale.

Rimane quindi una indicazione generale per la ricerca che dovrà essere sviluppata: occorre individuare una soluzione che segua lo spirito di ibridazione già indicato da alcune esperienze in atto, evitando tuttavia il rischio di seguire strutture e schemi precostituiti, dove il valore e la bontà degli strumenti sembra talvolta prendere sopravvento sulle specificità dei soggetti e sulla natura dei servizi per i quali sono concepiti. In altri termini si può dire che il tema della finanza sociale o dei social impact bonds si situa nell’alveo di particolari strutture relazionali tra privati, imprese sociali (in senso lato) e settore pubblico. È quindi ascrivibile, sia sul piano teorico che a livello di pratiche, al fenomeno già sviluppato a partire almeno dall’ultimo decennio del secolo scorso per quanto riguarda la costruzione di alcune grandi infrastrutture. Stiamo consapevolmente inquadrando il tema nell’ambito della finanza di progetto (Pasi 2014), dove al netto di alcuni schemi divenuti standard, le soluzioni più adeguate debbono essere ricercate di volta in volta, sulla base di numerosi fattori capaci di influenzare ampiezza e struttura delle partnership messe in campo.

L’individuazione di un nuovo modello, o meglio, di un nuovo strumento di policy per il consolidamento economico e lo sviluppo del terzo settore, dovrà passare per l’approfondimento di quei modelli sino ad oggi utilizzati. Ciascun sistema dovrà passare il vaglio di una analisi comparata, dunque non limitata semplicemente al quadro nazionale o europeo e, in particolare, occorrerà valutare l’efficacia di ciascun modello alla luce del contesto economico e giuridico, nonché sociale, nel quale è stato applicato.


Riferimenti

McHugh N., Sinclair S., Roy M., Huckfield L., Donaldson C. (2013), Social impact bonds: a wolf in sheep’s clothing?, Journal of Poverty and Social Justice, vol. 21 n. 3, pp. 247-57.

Pasi G. (2014), Challenges for European Welfare Systems. A Research Agenda on Social Impact Bonds, Review of Applied Socio-Economic Research, Vol. 8 (2), pp. 141-151.

Burand D. (2013), Globalizing social finance: How social impact bonds and social impact performance guarantees can scale development, NYU Journal of Law & Business 9 (2): 447-502

Bakija J. (2013), Tax Policy and Philanthropy: A Primer on the Empirical Evidence for the united States and Its Implications, Social Research, Vol. 80 (2): 557-584.


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