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Il Mulino ha pubblicato recentemente “Fare spazio alla paternità. Essere padri in Italia tra nuovi modelli di welfare, lavoro e maschilità” di Maddalena Cannito, assegnista di ricerca presso l’Università di Trento che si occupa di studi sulla maschilità sui temi del lavoro, della cura, delle politiche, dei media digitali e della violenza di genere. Il volume offre uno sguardo d’insieme e una riflessione critica sul tema della paternità italiana – e dei modelli di genere e delle politiche ad essa connessi – in un momento cruciale di incontro fra mutamento e tradizione, a cui si accompagna una crescente volontà dei padri di essere presenti nella sfera privata e nella vita dei propri figli.

Le trasformazioni della paternità e la divisione del lavoro di cura fra uomini e donne

Il volume combina gli studi di genere e sulla famiglia con quelli sui mutamenti del welfare e del lavoro retribuito, integrando tre livelli di analisi: del welfare e delle sue trasformazioni (livello macro), delle aziende e degli ambienti di lavoro (livello meso) e delle relazioni di genere (livello micro). In questo modo la paternità diventa lente per studiare le politiche (sociali e non) e gli ambienti di lavoro e, allo stesso tempo, le politiche e le organizzazioni diventano punto d’ingresso per lo studio della paternità.

Infatti, da una parte, gli studi di genere permettono di costruire una griglia interpretativa gender sensitive da applicare a tutti i piani di analisi per cogliere i modi in cui il genere sia intrinseco a istituzioni, soggetti individuali e collettivi, pratiche, politiche e processi culturali, in particolare quando si parla di famiglie e di genitorialità. Dall’altra parte, gli studi sui mutamenti del welfare state, nella direzione di una sempre maggiore integrazione di quello pubblico da parte di quello privato, permettono di svelare una serie di assunti e contraddizioni non solo sui modelli lavorativi e di cittadinanza, ma anche sui modelli di maternità/paternità e maschilità/femminilità che permeano l’intera società.

La ricerca da cui origina il volume si basa prevalentemente su dati qualitativi, anche se include alcune analisi di dati quantitativi. Questi ultimi sono frutto di un un’analisi descrittiva sui dati dell’Inps relativi all’uso dei congedi parentali fra il 2009 e il 2019 e dei congedi di paternità fra il 2013 e il 2019 (peraltro non tutti i dati sono ancora presenti sul sito Inps rendendo queste analisi di particolare rilevanza). Il materiale qualitativo, invece, comprende 45 interviste semi-strutturate. Dieci di queste sono state condotte con manager delle risorse umane di aziende grandi situate in Piemonte (anche se alcune sono parte di gruppi multinazionali) e considerabili family friendly perché implementano politiche per sostenere la conciliazione vita-lavoro dei propri dipendenti. Le altre 35 sono state condotte, invece, con padri lavoratori del settore privato con almeno un figlio sotto i tre anni, fra i quali 25 hanno utilizzato il congedo parentale.

Dai risultati della ricerca si evincono diverse traiettorie di cambiamento ma anche di tradizionalismo. Per quanto riguarda i modelli di genere e di paternità, sono certamente in atto alcuni mutamenti nella direzione di un maggior coinvolgimento paterno nella cura dei figli. Tuttavia, a fronte del complicato connubio tra evoluzione dei modelli di paternità e costruzione sociale della maschilità, sembra più corretto riconoscere l’esistenza di una pluralità di modelli di paternità piuttosto che di un unico “nuovo” modello. Inoltre, la centralità femminile nelle scelte relative alla cura rimane immutata, sebbene l’esperienza del congedo parentale al maschile determini dei cambiamenti nel ruolo ricoperto dai padri nella vita familiare e nella relazione con i propri figli: da padri “aiutanti” a titolari della cura.

Il ruolo del padre nell’evoluzione del welfare

Da questo punto di vista politiche come quella del congedo parentale e di paternità offrono, dunque, importanti occasioni di ripensamento della divisione del lavoro di cura all’interno delle coppie. Tuttavia, due sono gli elementi problematici: uno ha a che fare con le premesse che hanno portato all’introduzione di questa politica, l’altro più specificatamente con il suo disegno. Partendo dal secondo punto, i congedi parentali sono scarsamente retribuiti, producendo un’implicita svalutazione del lavoro di cura, e nelle formulazioni delle politiche molto spesso l’assunto è che la cura e la conciliazione vita-lavoro siano problemi strettamente femminili.

Questa criticità è confermata e acuita dal disegno del congedo di paternità che, sebbene sia retribuito al 100% e obbligatorio, ha una durata di soli 10 giorni (più un giorno facoltativo che deve essere ceduto dalla madre), è garantito ai soli lavoratori del settore privato; inoltre non sono previste sanzioni per i datori di lavoro che non diano la possibilità di fruirne, diversamente da quanto accade con il congedo di maternità.

Per quanto riguarda, invece, le premesse politiche e culturali derivate dal contesto europeo, dagli anni Novanta con la European Employment Strategy e la promozione del modello del lavoratore adulto (adult worker model), prima, e con il paradigma dell’investimento sociale, poi, la questione della conciliazione e degli strumenti per favorirla sono state inquadrate in un approccio iperlavorista. Anche se fin dalle origini si è fatto esplicito riferimento al diritto/dovere alla cura anche dei padri, si è sottovalutato l’impatto culturalein termini di diffusione di frame cognitivi e idee – che questo modo di concepire la conciliazione poteva avere in alcuni contesti.

Quel che è successo in Italia, allora, non è tanto una trasformazione del welfare guidata dall’approccio dell’investimento sociale quanto dall’impatto culturale di questo paradigma. Non ritenendo il diritto alla cura – anche maschile – come centrale (e, dunque, concependolo come subordinato alla promozione dell’occupazione), ancora una volta lo si è implicitamente svalutato, considerando l’attività di cura come dotata di minor senso rispetto a quella lavorativa. Questa esaltazione dell’impegno nel mercato del lavoro, tratto tipicamente costitutivo della maschilità egemonica, in un contesto culturale e in un sistema di welfare – come quello italiano – che già assegna centralità alle donne nella cura, difficilmente è in grado di promuovere una cura anche al maschile.

Essere padri in azienda tra carichi di cura e congedi

A fronte di questa marginalità del welfare pubblico nel soddisfare i bisogni di conciliazione vita-lavoro e al retrenchment della spesa pubblica italiana, l’unico processo di ricalibratura si è mosso nella direzione dell’incoraggiamento dello sviluppo del «secondo welfare» e, in particolare, del welfare aziendale. Purtroppo, sebbene alcune aziende – come quelle coinvolte nella ricerca – facciano eccezione e il quadro sia in continua evoluzione, le imprese italiane sono ancora arretrate rispetto ad altri Paesi europei su questo fronte.

Il welfare aziendale, infatti, individuato come mezzo per sopperire ad alcune mancanze di quello pubblico, in realtà tende a ricalcarne alcune lacune. In particolare, la copertura dei cosiddetti nuovi bisogni sociali, fra i quali rientrano quelli di conciliazione, è un’area residuale delle politiche di welfare aziendale che tendono, invece, a concretizzarsi in fondi pensione e fondi sanitari, ambiti già largamente protetti dal welfare pubblico (un tema affrontato anche nel Quarto Rapporto sul secondo welfare in Italia 2019).

Oltre a questo scarso sviluppo e innovazione degli strumenti di policy aziendale per la conciliazione, altra criticità è la mancata tematizzazione del ruolo maschile nella cura che, di nuovo, fa da specchio e rinforza le mancanze che già caratterizzano il welfare pubblico. Questo aspetto, incontrandosi con luoghi di lavoro ancora fortemente legati all’idea delle sfere separate e al modello del lavoratore ideale, riproduce e rinforza pratiche e assunti di genere tradizionali nelle politiche come nelle pratiche.

La ricerca ha permesso così non solo di approfondire le influenze degli ambienti di lavoro sull’essere padri, ma anche di studiare da un punto di vista interessante le interazioni fra tipi di politiche di primo e secondo welfare. In questo senso, sembra che family e father friendliness non si muovano nella stessa direzione, né vadano necessariamente di pari passo. In effetti, le aziende contribuiscono a «fare il genere» promuovendo ideali di maschilità e femminilità e individuando alcune pratiche come più appropriate a un genere o all’altro. All’interno dei contesti organizzativi, infatti, anche laddove i valori manifesti dell’azienda incorporino il diritto alla conciliazione fra vita e lavoro, le pratiche organizzative ruotano attorno al paradigma della devozione lavorativa misurata in termini di tempo e presenza fisica sul posto di lavoro.

Per questo, necessariamente, qualunque scelta che si muova nella direzione di aumentare il tempo speso a casa, soprattutto se avanzata da un uomo, viene sanzionata o guardata con sospetto o comunque non sostenuta. Questo rischia di causare l’inibizione dell’uso di politiche di conciliazione aziendali da parte degli uomini. In effetti, poiché il welfare aziendale crea un legame fra erogatore di welfare e beneficiario fondato su una logica di scambio, può far sì che i lavoratori si autocontrollino «spontaneamente» e al contempo controllino i propri colleghi e non utilizzino le misure perché si sentono in dovere di non turbare le esigenze produttive.

In secondo luogo, le politiche e la loro neutralità di genere rischiano di incoraggiare un modello di lavoratore che, liberato dalle incombenze della cura, può dedicarsi completamente all’attività retribuita e, quindi, di sostenere l’equazione: fruitore di strumenti di conciliazione = cattivo lavoratore. In questo modo, non solo la paternità non trova spazio nell’arena delle politiche, ma più o meno implicitamente si produce una ennesima svalutazione del lavoro di cura che finisce per diventare un ostacolo all’essere «buoni» lavoratori.

Infine, paradossalmente, possono verificarsi interazioni negative fra politiche di welfare aziendale e politiche nazionali. Gli intervistati che lavorano nelle aziende considerate come pioniere del welfare aziendale per la conciliazione e della family friendliness, infatti, sottolineano che la disponibilità di un’azienda e del suo management ad andare incontro ai bisogni di conciliazione dei propri dipendenti rischia di creare un’elisione fra famiglia e lavoro e di far leggere l’uso del congedo parentale – da parte dei padri che ne usufruiscono, così come da parte dei colleghi di lavoro e dei manager – come un tradimento e un segno di scarsa gratitudine nei confronti dell’azienda. Ma, a sorpresa, anche l’uso di strumenti del primo welfare può causare ripercussioni sulle possibilità di utilizzo del secondo, laddove il primo causi “ritorsioni” sulla possibilità di accedere a strumenti di welfare aziendale come il part-time.

Aspetti innovativi su cui rifelttere

Per concludere, il volume getta luce su aspetti innovativi che possono servire a integrare gli strumenti di analisi dei mutamenti del welfare, degli ambienti di lavoro e dei modelli di maschilità in Italia, ma anche a ri-orientare le politiche nazionali e aziendali. Lo fa riprendendo i temi del femminismo di seconda ondata combinandoli nuovamente con una prospettiva di critica al capitalismo moderno attenta alle questioni di genere che sottostanno alle istituzioni e ai processi sociali e che interpreta l’emancipazione (femminile e non solo) anche nei termini del recupero del valore del lavoro di cura.