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Nel 2013 il governo tedesco ha lanciato l’iniziativa “Industria 4.0”. L’obiettivo è quello di promuovere e sostenere la “quarta rivoluzione industriale”. Dopo quella meccanica, quella elettrica e quella informatica, la nuova rivoluzione sarà basata sulla cosiddetta “internet delle cose e dei servizi”, ossia lo sviluppo di sistemi informatici (o meglio, ciber-fisici) in grado di interagire in modo continuo fra di loro e con l’ambiente in cui operano: macchine intelligenti, robot cooperanti, apparati logistici in grado di scambiarsi autonomamente informazione per raggiungere certi obiettivi. La fabbrica 4.0 farà moltissime cose “da sola”, non solo al proprio interno, ma anche a monte (interfacciandosi con i fornitori) e a valle (distribuzione, assistenza e così via).

La Germania si considera all’avanguardia su questo versante in Europa e vede “Industria 4.0” come uno strumento per conservare il proprio primato, stare al passo con gli Stati Uniti e non farsi superare dai paesi asiatici. Visitando i siti e leggendo i documenti che illustrano l’iniziativi, si rimane oggettivamente colpiti, soprattutto pensando all’Italia. Anche qui la manifattura è forte: ma come faranno le nostre imprese fare il balzo verso la quarta rivoluzione? Siamo destinati a farci battere definitivamente dalla Germania?

La società Fraunhofer è il principale protagonista di Industria 4.0 e, a pagamento, offre a delegazioni straniere la possibilità di conoscere da vicino i progetti in corso e di vedere in anteprima alcuni prototipi presso le proprie strutture in Germania. La Confindustria di Bergamo acquistato il pacchetto, ha incontrato i tecnici di Fraunhofer e visitato alcuni laboratori. Gli imprenditori italiani hanno sicuramente visto molte cose interessanti, curiose e utili. Non ci sono state, però, vere sorprese. Semmai la sorpresa è stata quella di scoprire che la manifattura italiana (o almeno quella dell’asse Milano-Bergamo-Brescia) è già molto vicina alla frontiera del “4.0”. Quella che i tedeschi definiscono “rivoluzione” nelle nostre fabbriche sta prendendo forma giorno dopo giorno, come spontanea evoluzione di processi e prodotti. Occhiali che consentono di accedere ad una “realtà aumentata”, sistemi di controllo remoto o di manutenzione predittiva, macchine capaci di parlarsi fra loro in autonomia, insomma i primi esperimenti di “internet delle cose e dei servizi” sono già presenti o in corso di introduzione anche da noi. Su scala più ridotta, certo. Ma, in molti casi, con un grado di innovazione, qualità e creatività non inferiore a quello tedesco.

Noi non abbiamo la force de frappe che in Germania sorregge l’industria ed in particolare le attività di ricerca e sviluppo. La società Fraunhofer conta su 66 istituti in tutto il paese al servizio delle aziende, praticamente in tutti i settori. Ha uno staff complessivo di 24 mila dipendenti, in gran parte scienziati e ingegneri; il bilancio annuale supera i due miliardi di euro, il trenta per cento almeno a carico del governo federale o dei Länder. Sono cifre da capogiro se raffrontate a quelle italiane. Tanti soldi, erogati in tempi rapidi e certi, con procedure snelle. Un altro mondo: da noi il grosso dei fondi di un grosso bando nazionale del 2012, rivolto ai cosiddetti cluster tecnologici, non è stato ancora erogato.

Com’è possibile allora che alcuni cluster (appunto) italiani riescano non solo a resistere ma anche ad evolvere, stando al passo con il gigante tedesco? La risposta è questa: perché adottano una strategia “fai da te” a livello decentrato, capace di mobilitare attori e risorse diverse, su scala piccola e media, nonché di intessere reti che includono varie “isole” di conoscenza esperta, molto avanzata e relativamente poco costosa. A Bergamo, ad esempio, opera Intellimech, un Consorzio di aziende del settore meccatronico che svolge ricerca precompetitiva sul fronte informatico, elettronico, dei sistemi ICT e della meccanica. Si tratta di una piccola Fraunhofer. Le aziende associate pagano una quota, un po’ di soldi li mette la Camera di Commercio, altri arrivano da bandi e commesse. Le ricerche sono condotte da un numero (limitato) di ricercatori interni e tramite collaborazioni con alcune Università. La qualità dei dottori di ricerca, degli ingegneri che escono dai nostri Politecnici, dei loro docenti è molto alta, non da meno rispetto a quella tedesca. Ha però il vantaggio di avere costi molto più bassi, date le caratteristiche del mercato intellettuale italiano. Insomma: molte aziende italiane riescono a diventare smart factories, a imboccare la strada di “Industria 4.0” grazie a quelle strategie di adattamento creativo che hanno sempre guidato le nostre fasi di sviluppo industriale: una sorta di “arte di arrangiarsi 4.0”. Va però tenuto presente che le statistiche ufficiali non riflettono tutta la verità sulle dimensioni finanziarie di questi sistemi locali di promozione dell’innovazione. Per ragioni di convenienza fiscale, le imprese tendono a disperdere le spese di ricerca e sviluppo in voci diverse dei propri bilanci, dando l’impressione di essere molto più avare di quelle tedesche.

Come mi spiega Stefano Scaglia, AD dell’omonimo gruppo che opera nel settore della logistica avanzata, la strategia del “fai da te” può dare buoni frutti, ma solo fino a un certo punto. Si sente la mancanza di un attore pubblico capace di svolgere funzioni di regia, sia a livello regionale che nazionale. In Germania lo stato non solo finanzia (e profumatamente) ma assicura raccordi trasversali, facilita la trasmissione delle conoscenze, mette in connessione con i circuiti internazionali di sostegno alla ricerca. Nel loro viaggio verso “Industria 4.0”, le imprese tedesche viaggiano in autostrada, le imprese italiane sono invece costrette a percorrere strade dissestate. E’ possibile che ciò le stimoli ad essere più creative e battagliere. Ma ostacola la formazione di convogli, la creazione di “mezzi pesanti”. E subordina il successo del viaggio alla presenza di capitani coraggiosi, di imprenditori-bricoleurs che si adoperino per produrre beni collettivi, come ad esempio la Intellimech di Bergamo.

In una delle sue tanti iperbole di ottimismo, Matteo Renzi ha detto qualche tempo fa che, se vuole, l’Italia può correre più veloce della Germania. Abbassiamo il tiro e limitiamoci a parlare di manifattura. Il nostro tessuto di risorse imprenditoriali e intellettuali è robusto e ci consentirebbe senz’altro di accelerare il passo. Ma per superare le imprese tedesche c’è bisogno non solo di smart factories, ma anche di smart government. Purtroppo, su questo fronte il ritardo è ancora enorme, anche nelle regioni del Nord.

 

Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera del 9 novembre 2015.