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L’Italia è stata messa in ginocchio dalla pandemia di Covid-19 e ora sta cercando, faticosamente, di entrare nella cosiddetta “fase 2”. Per settimane abbiamo assistito a una sconcertante cacofonia di opinioni, decisioni estemporanee e fughe in avanti. In molti casi l’organizzazione dei servizi sanitari e le sue prassi concrete sono sembrate il risultato di espedienti empirici, scelte di senso comune o al più soluzioni parziali prodotte per affrontare singoli aspetti.

Non sono mancate le sorprese. Nei territori da sempre considerati tra i più avanzati dal punto di vista economico e tecnologico, ad esempio, si è cominciato a parlare di telemedicina soltanto dopo oltre un mese dallo scoppio della crisi. Non sappiamo esattamente se e come le numerose infrastrutture informatiche a supporto dell’erogazione dei servizi socio-sanitari abbiano funzionato, e neppure se i dati contenuti nei sistemi informativi degli enti abbiano contribuito a supportare le decisioni delle autorità competenti. La crisi ha messo a nudo enormi criticità e nel prossimo futuro, sperabilmente, sapremo chi si assumerà l’incarico di rammendare i “buchi” nelle reti sanitarie e assistenziali.

Finora il dibattito non sembra aver colto l’interdipendenza tra le scelte organizzative e gli esiti delle misure adottate per affrontare la pandemia. La dimensione organizzativa è rimasta costantemente "sullo sfondo". Ne parliamo con la Professoressa Maddalena Sorrentino, Presidente del Corso di Laurea in Management Pubblico e della Sanità (MAPS) promosso dall’Università degli Studi di Milano.

Cosa significa discutere dell’organizzazione dei servizi sanitari?

Significa discutere sulle scelte relative ai risultati attesi, alle attività e ai modi con cui sono ordinate e svolte per raggiungere gli obiettivi. Senza dimenticare una peculiare caratteristica del settore sanitario: è largamente progettato e disciplinato mediante norme di legge. Ciò significa prendere atto che le premesse alle decisioni nel processo dei servizi sanitari sono in gran parte vincolate. Ragionare in termini organizzativi vuol dire considerare quanto il sistema è preordinato, quali invece sono gli ambiti non vincolati, e come le varie opzioni percorribili incidano sul processo decisionale complessivo.

La pandemia di Coronavirus ha fatto riemergere un uso strumentale del disagio verso la burocrazia per sostenere che la competenza non sia necessaria, e che basti un tratto di penna per eliminare gli adempimenti amministrativi che soffocano i cittadini e le imprese. Che ne pensa?

Personalmente ritengo che si tratti di un atteggiamento superficiale e fuorviante. Più ragionamenti e meno luoghi comuni aiuterebbero tutti a capire meglio. Mi verrebbe da dire che per ridurre il peso della burocrazia occorra uno sforzo in senso contrario, dato che per semplificare la vita al cittadino che accede allo sportello – fisico o virtuale non fa differenza – occorre analizzare e studiare attentamente quello che avviene dietro le quinte, ossia nel cosiddetto back-office. Naturalmente nessuna persona di buon senso, in nessun paese, può pensare che le competenze necessarie per compiere queste analisi siano possedute dalle persone collocate alla base della piramide amministrativa.

Secondo una recentissima ricerca del McKinsey Global Institute, la crisi Covid-19 farà crescere la domanda di personale pubblico qualificato. In assenza di interventi nel 2023, in Europa, si conteranno ben 8,6 milioni di dipendenti pubblici privi di adeguate competenze nell’uso degli strumenti digitali e nel campo del problem-solving. Il nostro paese è in grave ritardo su questi temi. L’Italia si colloca al 24° posto fra i 28 Stati membri dell’UE nell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) della Commissione europea per il 2019.

Rispetto a due indicatori-chiave, ossia: capitale umano e uso dei servizi internet, le cose vanno peggio. Infatti ci posizioniamo rispettivamente al 26° e al 25° posto. Non c’è tempo da perdere di fronte a questa emergenza nazionale.

Da dove si dovrebbe cominciare?

Tra le poche certezze vi è quella che per ripartire occorrano competenze professionali molto diverse da quelle che invece abbondano nelle nostre amministrazioni pubbliche, specialmente ai livelli medio-alti. L’innesto di forze nuove e qualificate nei ranghi degli enti potrebbe fare la differenza. Non dimentichiamo che l’età media dei dipendenti pubblici italiani è tra le più elevate in Europa, e il fatto che molte grandi realtà abbiano ripreso ad assumere è certamente una buona notizia.

In cosa si distingue un Corso di Laurea come Management Pubblico e della Sanità?

Noi docenti crediamo nel valore di un settore pubblico al passo coi tempi, e nell’integrazione dei saperi in campo economico, manageriale, giuridico, politologico, sociologico, quantitativo e di area medico-sanitaria. Prepariamo i giovani a ragionare per progetti e obiettivi, e insegniamo a riconoscere le complessità. Solo così possiamo sperare che i futuri manager pubblici e della sanità sapranno intervenire con cognizione e competenza, superando le “trappole” delle organizzazioni burocratiche.

Allo stesso tempo, crediamo nel valore dei nostri studenti: il corso di laurea punta creare una comunità di saperi nella quale le esperienze degli studenti lavoratori si integrano con l’intraprendenza degli studenti più giovani, creando un terreno fertile per dare risposta a sfide epocali che non riguardano solo la sanità, ma anche altri servizi pubblici.

A questa pagina sono disponibili maggiori informazioni sul Corso di Laurea MAPS. È al momento disponibile un primo bando di iscrizione (scadenza 15 giugno 2020) per 30 posti riservati a studenti iscritti all’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado e 30 posti riservati a candidati in possesso del diploma di scuola secondaria di secondo grado e con comprovata esperienza lavorativa in ambito coerente con i percorsi formativi del corso di studio. Un secondo bando di iscrizione (per altri 60 posti) sarà disponibile tra il 15 luglio e il 7 settembre 2020.