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Il nostro paese è tradizionalmente accusato, anche nel dibattito internazionale, di essere eccessivamente "familistico". Per familismo s’intende un modello sociale (e di welfare) caratterizzato da quattro tratti distintivi. Innanzitutto, l’estensione e la robustezza dei legami di parentela, compresa la pratica ancora molto diffusa (e non solo per problemi economici) della coabitazione prolungata fra figli e genitori. Un diritto di famiglia, poi, il quale assegna per legge ai legami familiari molte responsabilità di mutua assistenza che in altri paesi sono invece delegati allo stato. In terzo luogo, la concentrazione all’interno della famiglia dei principali compiti di cura per i propri componenti: figli, disabili, anziani. Infine, una divisione di genere del lavoro domestico che scarica tali compiti essenzialmente su madri, figlie, nuore. Il familismo è criticato non solo perché penalizza le donne, ma anche perché produce alcuni effetti perversi. La parentela può diventare la base della “clientela”. I giovani tardano ad emanciparsi, a formare nuove famiglie, a fare figli: i nostri tassi di natalità sono fra i più bassi del mondo. Alcune famiglie non ce la fanno a sopportare i costi umani, organizzativi ed economici del sovraccarico di “cura”.

Ma siamo davvero l’unico paese a soffrire di questa sindrome? Da tempo gli studiosi hanno messo in luce come il familismo sia in realtà un tratto caratterizzante di tutta l’Europa meridionale. Recentemente il dibattito ha spostato la sua attenzione ai paesi dell’Asia orientale. Seppure così distanti da noi, anche Giappone, Corea, Taiwan presentano un elevato livello di familismo. La cosa interessante è però che essi hanno imboccato vie promettenti per cambiare le cose e "liberare la famiglia".

Prima di esaminare i cambiamenti, proviamo a rispondere a due interrogativi: perché il familismo ha messo radici così profonde in Sud Europa? E cosa spiega la sorprendente affinità tra Sud Europa e Asia orientale?

Rispetto ai paesi nordeuropei, quelli mediterranei si sono sviluppati molto più tardivamente dal punto di vista economico: hanno registrato quelle che gli scienziati sociali definiscono modernizzazioni “compresse” in pochi decenni. I modelli di famiglia estesa, prevalenti nel mondo agricolo, sono mutati molto più lentamente rispetto alle trasformazioni dell’economia. In parte si sono adattati alle nuove condizioni del lavoro e della società industriale. La persistenza del lavoro autonomo (che assorbe ancora oggi più del 20% degli occupati in Sud Europa) ha dal canto suo contribuito a riprodurre la centralità della parentela nelle forme di produzione e di convivenza.

Il fattore che spiega le somiglianze con l’Asia orientale è essenzialmente di natura culturale-religiosa: l’affinità tra Cattolicesimo e Confucianesimo. Le dottrine sociali di entrambe queste religioni (anche se il Confucianesimo è più un sistema etico più che una religione in senso stretto) considera la famiglia come la cellula di base della società. Per il Cattolicesimo la famiglia “naturale” è eterosessuale, assicura la riproduzione e fra i suoi compiti vi è anche quello di instillare nei figli alcuni valori fondamentali, fornendo loro gli strumenti per diventare adulti con sensibilità morale e sociale, rispettosi di Dio. La società nel suo complesso deve proteggere e promuovere la causa della famiglia piuttosto che dell’individuo e della sua emancipazione da essa. Precetti analoghi valgono anche per l’etica confuciana, anche se qui l’enfasi è posta più sui doveri dei figli verso i genitori che viceversa. Vi è anche affinità fra concezione cattolica della sussidiarietà e quella confuciana dei cosiddetti “cerchi concentrici di filialità”. In entrambi i casi, la sfera della solidarietà interpersonale, del rispetto, della pietas devono irradiarsi dalla famiglia alle altre comunità sociali di raggio più ampio, via via sino allo stato.

Mentre i paesi sudeuropei fanno molta fatica a uscire dal familismo, Giappone e soprattutto Corea hanno avviato una rapida transizione, facendo perno sul rafforzamento del welfare: un welfare pubblico volto a "liberare" le famiglie dal sovraccarico di funzioni, a emancipare donne e giovani. In entrambi i paesi sono stati introdotti schemi di reddito minimo che consentono ai singoli e alle giovani coppie di fronteggiare l’emergenza povertà anche al di fuori della famiglia di origine. Nell’ultimo quindicennio la Corea ha avviato una vera e propria rivoluzione woman-friendly: costruzione di asili nido, uno schema nazionale contro la non autosufficienza degli anziani, rafforzamento dei diritti sociali per i genitori che lavorano e varie misure per facilitare e promuovere l’occupazione femminile. Seppur con più lentezza, il Giappone sta seguendo una strada simile, soprattutto sul versante dell’assistenza agli anziani.

Queste riforme sono in parte il frutto di scelte politiche e delle pressioni dei rispettivi movimenti femminili. Ma gioca anche un altro fattore: il controllo dell’immigrazione. In Corea e Giappone gli immigrati sono relativamente pochi: non si è quindi formato quel mercato di badanti a basso prezzo che invece è letteralmente esploso in Sud Europa e che ha permesso alle famiglie di arrangiarsi anche in assenza di sostegno pubblico. Bisogna poi tenere presente un secondo fattore, soprattutto per la Corea. Qui i livelli di spesa sociale sono ancora bassi, la modernizzazione è appena iniziata. I margini di scelta sono dunque più elevati: si può scegliere di investire su famiglie, donne e giovani (istruzione compresa) anziché sulle pensioni. Negli anni Sessanta e Settanta, l’Italia scelse invece di investire soprattutto in pensioni. In regime di vincoli fiscali, è oggi difficile ricalibrare il welfare dai padri ai figli: i primi sono in fatti titolari di diritti acquisiti che è difficile modificare.

Sotto il governo Zapatero, la Spagna ha per la verità tentato di rimodellare il proprio welfare e di modernizzare il proprio diritto di famiglia (matrimonio omosessuale, parità di genere e così via). Molte regioni hanno istituito il reddito minimo e nel 2006 fu varata la Ley de Dipendencia per i non autosufficienti, con un programma molto ambizioso di investimenti in servizi per gli anziani. Il governo Rajoy ha ridimensionato le ambizioni e la crisi finanziaria ha fatto il resto. Molte delle disposizioni e dei progetti zapateriani sono rimasti lettera morta. L’Italia è rimasta invece il fanalino di coda. Il piano nidi varato dall’ultimo governo Prodi è stato un fallimento. Alla non autosufficienza si continua a rispondere con l’assegno di accompagnamento. Che non solo è troppo basso (e va anche ai ricchi: un paradosso) ma alimenta il mercato irregolare delle badanti. Mancano adeguati servizi di conciliazione e manca il reddito minimo. Il cammino da percorre per sostenere la famiglia anche da noi è ancora lungo e irto di ostacoli.

Criticare il familismo non vuol dire, si badi bene, essere contro la famiglia. Significa tuttavia prendere atto che lo status quo non è più sostenibile. La conferma più eclatante viene da due dati: i giovani formano nuove famiglie sempre più tardi e fanno sempre meno figli. Così come è oggi, il familismo fa male alla famiglia, ne erode le stesse basi di riproduzione nel tempo. Perciò la conclusione un po’ paradossale è che per conservare la famiglia bisogna, appunto, liberarla, trovando un nuovo equilibrio fra legami e obblighi parentali e filiali, da un lato, e autonomia ed emancipazione dei singoli individui, dall’altro lato.

*Questo articolo è stato pubblicato anche su La Lettura del 20 settembre 2015

Riferimenti

Virtue Ethics and Confucianism, a cura di S.C. Angle e M. Slote, New York, Routledge, 2013

Famiglia e politiche familiari in Italia. Conseguenze della crisi e nuovi rischi sociali, Michele Bertani, Milano, Franco Angeli, 2015

The East Asian Welfare Model: Welfare Orientalism and the State, a cura di Roger Goodman, Huck-Ju Kwon, e Gordon White, London, Routledge, 2007

Gender Inequalities in Southern Europe: Woman, Work and Welfare in the 1990s, a cura di Maria Jose Gonzalez, Teresa Jurado e Manuela Naldini, London, Routledge, 2014
 

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