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L’INPS non si occupa solo di pensioni e ammortizzatori sociali. Gestisce anche le prestazioni per la non autosufficienza, che interessano più di due milioni di beneficiari, in prevalenza anziani. Il settore ha registrato una forte crescita nell’ultimo quindicennio. Si stima che nel 2060 gli ultraottantacinquenni (la fascia più a rischio) passerà da 1,7 a più di 6 milioni. Bene ha fatto il Rapporto INPS di quest’anno a dedicare ampio spazio al tema e alle sfide che dovremo affrontare. Il principale sostegno ai non autosufficienti è oggi l’indennità di accompagnamento: un assegno di 512 euro per 12 mesi, per un costo totale di 12 miliardi l’anno.

L’indennità è pienamente “universalistica”: può ottenerla qualsiasi persona residente in Italia (al di sopra di una data soglia di disabilità) e l’importo è uguale per tutti. Il fatto è, però, che i disabili non sono tutti uguali. Alcuni hanno bisogni sanitari più acuti di altri. Le loro esigenze pratiche dipendono dal contesto familiare e territoriale. Soprattutto, alcuni sono “ricchi” (di reddito e patrimonio), altri sono “poveri”. È davvero equo trattare in modo eguale persone che si trovano in condizioni diseguali? In molti paesi UE il sostegno pubblico alla non auto-sufficienza è calibrato in base al grado di disabilità e alla condizione economica del singolo beneficiario.

Il Rapporto INPS solleva un altro problema: la scarsa disponibilità di servizi, in particolare per l’assistenza residenziale. I non autosufficienti ricevono un sussidio, poi devono cavarsela da soli. Come sappiamo, la pratica più diffusa è il ricorso alle badanti, spesso in nero. Il peso maggiore grava su mogli, figlie, nuore, insomma sulle donne. Il “familismo” è accentuato dalle norme sui permessi lavorativi (quelli previsti dalla legge 104), le quali consentono ai dipendenti di assentarsi per assistere in casa i parenti disabili.

Nel settore della non autosufficienza si registrano altre particolarità tipiche del welfare all’italiana: abusi, frodi, catture clientelari dei benefici. Il Rapporto INPS contiene dati inequivocabili a riguardo. Prendiamo l’incidenza delle indennità sulla popolazione residente. In molte province del Sud (ma anche nelle Marche o in Umbria) il numero di prestazioni è quasi doppio rispetto alle province del Nord, pur tenendo conto della diverse caratteristiche demografiche ed epidemiologiche. Evidentemente, la verifica dei requisiti ha maglie molto più larghe in alcune zone del Paese. Un altro dato clamoroso messo in luce dal INPS riguarda i permessi retribuiti. I giorni fruiti dai dipendenti pubblici per assistere familiari disabili sono quattro volte superiori a quelli dei dipendenti privati e costano circa un miliardo e mezzo.

Che fare? Guardando alle migliori esperienze europee, il Rapporto elenca varie soluzioni. Le più ambiziose sono due. Innanzitutto, passare dall’universalismo incondizionato (un sussidio modesto a tutti) all’universalismo selettivo: prestazioni modulate in base alla situazione economica dei beneficiari e al grado effettivo di disabilità. In secondo luogo, introdurre un nuovo contributo obbligatorio (ad esempio pari a 0,35%) su tutti i redditi, per generare le risorse necessarie ad espandere i servizi. Vi sono però anche soluzioni, che non prevedono innovazioni legislative: ad esempio verifiche più severe (e accentrate in capo all’INPS) sui requisiti di accesso alle indennità e sull’utilizzo dei permessi. Non dimentichiamo poi che, oltre alle soluzioni pubbliche, nel settore della non autosufficienza sono immaginabili (e in parte già in via di sperimentazione) soluzioni di secondo welfare, anche attraverso il sistema assicurativo.

È attualmente in esame al Parlamento la legge delega sul riordino dell’assistenza. Auguriamoci che deputati e senatori leggano bene il Rapporto INPS e abbiano il coraggio di intervenire sullo status quo. Non per “far cassa”, ma per offrire risposte più eque ed efficaci a chi ha veramente bisogno d’aiuto.


Quest articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera del 8 luglio 2016